Obbligo vaccinale: alla ricerca di un equo bilanciamento tra diritto al lavoro e diritto alla salute
08 Novembre 2022
Massima
Rientra tra le competenze del Giudice nazionale – in qualità di organo di uno Stato Membro – l'obbligo di disapplicare qualsiasi norma interna contraria a una disposizione del diritto dell'Unione Europea, che abbia effetto diretto nella controversia di cui è investito.
Nel caso di specie, l'imposizione dell'obbligo vaccinale ex art. 4, d.l. 44/2021, quale conditio sine qua non per l'esercizio della professione di psicologo, è discriminatorio in quanto lesivo del Reg. UE n. 953/2021 che vieta qualsivoglia discriminazione a danno dei cittadini europei fondate sullo stato vaccinale e, come tale, la norma interna in questione deve essere disapplicata. Il caso
La ricorrente, libero professionista iscritta all'Albo degli Psicologi presso l'Ordine della Regione Toscana, proponeva ricorso cautelare urgente per la sospensione del provvedimento assunto in data 19 ottobre 2021 dal Consiglio dell'Ordine anzidetto, per effetto del quale la stessa veniva sospesa dall'esercizio della professione di psicologa a causa del mancato assolvimento dell'obbligo vaccinale, per effetto di quanto stabilito dall'art. 4 del d.l. n. 44/2021, poi convertito in legge n. 76/2021.
Il Tribunale di Firenze adito, rilevate le ragioni di urgenza, dal momento in cui la sospensione dall'esercizio della professione avrebbe potuto compromettere beni primari dell'individuo – quali il diritto al sostentamento personale e del proprio nucleo familiare, nonché il diritto al lavoro di cui all'art. 4 Cost. – e rilevato che l'instaurazione del contraddittorio avrebbe potuto creare un irreparabile nocumento ai summenzionati diritti primari della ricorrente, riteneva contra legem – per le ragioni che si avranno meglio modo di approfondire infra – il provvedimento di sospensione dall'esercizio della professione adottato dell'Ordine degli Psicologi della Regione Toscana e, visti gli artt. 669-sexies, comma 2, e 700 c.p.c., si pronunciava disponendo la sospensione del provvedimento con cui veniva negato alla ricorrente l'esercizio della professione di psicologa, fino alla sua sottoposizione al trattamento sanitario iniettivo contro il Sars Cov 2, autorizzando così la stessa all'esercizio della professione senza sottoposizione al trattamento iniettivo, sia in presenza che da remoto, al pari dei colleghi vaccinati. La questione
La vicenda in esame consente di affrontare la delicata nonché fortemente sentita questione del rapporto – e, quindi, del necessario bilanciamento – tra diritto al lavoro e diritto alla salute (ed all'autodeterminazione) che è divenuto particolarmente attuale con l'incedere della pandemia da Covid-19.
Nel dettaglio, la pronuncia si pone nel solco di quelle che hanno dovuto affrontare necessariamente il tema del rapporto tra i due diritti costituzionalmente protetti, in forte contrasto tra loro.
Come ben noto, infatti, la rapida diffusione dei contagi legati al Sars Cov 2 ha generato molteplici conseguenze su svariati piani, tra cui, oltre quello sociosanitario in primis, di certo anche quello giuridico ed economico.
In particolare, ad oggi sono evidenti gli impatti che questa ha avuto e sta tutt'ora avendo nell'ambito del mercato del lavoro e del diritto del lavoro che qui più propriamente interessa.
Proprio in tale campo è divenuta nel tempo sempre più sentita la necessità di dover definire un equo bilanciamento tra il diritto alla salute ex art. 32 Cost. - e con esso quello all'autodeterminazione (a sua volta strettamente interconnesso col dovere di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.) - e quello al lavoro, non solo nella sua forma principale quale quella propria dell'art. 4 Cost., ma anche in quella di cui agli artt. 35, 36 e 38 della Carta costituzionale stessa.
Invero, proprio tale necessità di determinare un punto di equilibrio tra le due contrapposte esigenze ha costituito il fulcro attorno al quale è ruotata la vicenda oggetto d'esame nella sentenza ivi in commento.
Nello specifico, infatti, la pronuncia affronta la vexata quaestio iuris concernente la possibilità per i soggetti che hanno scelto di non aderire alla campagna vaccinale, volta a fronteggiare il virus Covid-19, di esercitare liberamente la propria attività lavorativa, nel dettaglio nel caso di specie la professione di psicologo, pur non avendo provveduto a sottoporsi all'obbligo vaccinale.
La questione è divenuta concreta a fronte dell'entrata in vigore del d.l. n. 44/2021, il cui art. 4 ha stabilito che, al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni lavorative, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, sono tenuti a sottoporsi alla vaccinazione gratuita per la prevenzione dell'infezione da Sars Cov-2, nel rispetto delle indicazioni e dei termini previsti secondo le linee guida varate dal Ministero della Salute.
Nello specifico, la norma è di fondamentale impatto poiché stabilisce che la vaccinazione costituisce condizione necessaria e sufficiente per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati.
Approfondendo il tema, come noto, quello della volontarietà o meno di sottoporsi alla vaccinazione è stato un argomento fortemente al centro del dibattito giuslavoristico, specie in concomitanza con le somministrazioni delle prime vaccinazioni alla fine dell'anno 2020.
Nello specifico, il dibattito si è particolarmente incentrato sulle conseguenze che un possibile rifiuto alla vaccinazione da parte del lavoratore avrebbe avuto tanto in relazione all'art. 2087 c.c., quanto in base al generale dovere di salvaguardia del fondamentalissimo bene salute, di cui all'art. 32 Cost.
A prescindere dalle svariate elaborazioni dottrinali più “garantiste” che si sono sviluppate sul tema, fondate su una stretta interconnessione tra art. 2087 cod. civ. e art. 32 Cost., - in base alla quale il datore di lavoro potrebbe esigere dai dipendenti la vaccinazione contro il Covid-19, nonostante la riserva di legge posta dall'art. 32 Cost., posto che la vaccinazione potrebbe essere ritenuta uno strumento utile a prevenire un danno sia ai propri dipendenti sia a terzi, che qui non propriamente interessa in ragione dell'assenza del vincolo di subordinazione alla base del rapporto di lavoro della ricorrente - vi è stato chi ha ritenuto corretto trattare non di “obbligo” di vaccinarsi, bensì di “onere”.
Inteso in questo senso, l'onere di vaccinarsi, quale “dovere libero”, costituirebbe lo strumento attraverso cui l'ordinamento giuridico imporrebbe al lavoratore di assumere una determinata condotta che, se non è adempiuta, potrebbe dar luogo a conseguenze pregiudizievoli.
In buona sostanza, secondo tale schema, ciascun lavoratore sarebbe libero di non vaccinarsi, ferma restando però la circostanza che tale comportamento possa incidere sul rapporto contrattuale di lavoro, costituendo la vaccinazione un requisito essenziale per lo svolgimento della prestazione stessa.
Ed è proprio tale costruzione dottrinale ad esser stata espressamente recepita per ciò che riguarda i prestatori di lavoro che rientrano nel campo di applicazione dell'art. 4 del d.l. 44/2021, poi estesa anche ad altre attività lavorative, in cui - secondo una opportuna valutazione medica - era presente il rischio che il virus avrebbe potuto propagarsi.
Sul tema dell'obbligo di vaccinazione nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario operanti in strutture indicate dalla medesima normativa, la Giurisprudenza di merito ha, di recente, avuto modo di pronunciarsi circa gli effetti che il rifiuto della vaccinazione avrebbe prodotto sul rapporto di lavoro.
In una delle prime pronunce, risalente al marzo 2021 e dunque prima dell'entrata in vigore di suddetto decreto, il Tribunale di Belluno (ordinanza del 19 marzo 2021 e ordinanza collegiale 6 maggio 2021) stabiliva la legittimità del provvedimento datoriale con cui veniva collocato in ferie il personale rifiutatosi di sottoporsi alla vaccinazione, sulla base del ragionamento per cui la vaccinazione rappresenterebbe quella misura volta a tutelare l'integrità fisica dei prestatori ex art. 2087 c.c.
Ancora, sempre in tal senso, il Tribunale di Verona (ordinanza del 24 maggio 2021) riteneva corretta la scelta del datore di collocare in aspettativa non retribuita per inidoneità temporanea allo svolgimento delle mansioni due operatrici socio-sanitarie che si erano rifiutate di sottoporsi alla vaccinazione, condividendo in toto la posizione dell'ordinanza collegiale di Belluno, di cui richiamava integralmente il principio di diritto per cui è da «ritenere prevalente, sulla libertà di chi non intenda sottoporsi a vaccinazione contro il Covid-19, il diritto alla salute dei soggetti fragili che entrano in contatto con gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario, in quanto bisognosi di cure, e, più in generale, il diritto alla salute della collettività, nell'ambito della perdurante emergenza sanitaria derivante dalla pandemia da Covid-19».
In conclusione, può dirsi che la quaestio iuris oggetto della pronuncia in commento sia stata finora affrontata dalla Giurisprudenza di merito, che ha avuto le prime occasioni di pronunciarsi sulla vicenda, quasi unanimemente aggrappandosi al fil rouge del sinallagma negoziale e della prevalenza – anche per ragioni di carattere storico - della dimensione della tutela collettiva della salute ex art. 32 Cost. rispetto a quella individuale. Le soluzioni giuridiche
Una volta delineata la quaestio iuris attorno alla quale ruota la pronuncia ivi in commento, è bene procedere analizzando quelle che sono state le soluzioni in concreto adottate dal Tribunale adito per dirimere la vicenda oggetto della sentenza esaminata.
Come anzidetto, la pronuncia in commento si conclude con la sospensione da parte del giudice competente del provvedimento dell'Ordine degli Psicologi della Regione Toscana che aveva vietato alla ricorrente di esercitare la propria professione fino alla sua sottoposizione al trattamento sanitario iniettivo contro il Sars Cov-2, autorizzando quindi la lavoratrice all'esercizio della propria attività libero-professionale, pur non essendosi sottoposta alla vaccinazione suddetta, sia in presenza che da remoto, al pari dei suoi colleghi vaccinati.
A sostegno delle proprie ragioni il Giudice adito poneva l'assoluta e incomprimibile necessità che alcuni beni c.d. “fondamentalissimi” e costituzionalmente protetti prevalessero in sede di bilanciamento di esigenze che per via del dilagare dell'emergenza pandemica erano – e tutt'oggi sono – inevitabilmente contrapposte.
Invero, il giudicante imperna l'iter logico motivazionale attorno al quale snoda poi tutta la pronuncia partendo proprio dal – costituzionalmente protetto – diritto al lavoro che rinviene la sua protezione in svariate disposizioni della Carta costituzionale, quali principalmente l'art. 4, il 35, il 36 et alia.
Nel dettaglio, il Tribunale di Firenze riteneva inconfutabilmente illegittimo il provvedimento dell'Ordine degli Psicologi della Regione Toscana, che pertanto sospendeva, in ragione dell'assunto per cui inibire l'esercizio dell'attività professionale alla ricorrente avrebbe rischiato di compromettere beni primari dell'individuo, quali il diritto al sostentamento, proprio e del nucleo familiare, e quello al lavoro, intesi come espressione della libertà della persona e della sua dignità, garantita appunto mediante la c.d. “liberazione dal bisogno”, fondamento, questo, che ha poi ispirato anche le origini della legislazione e della previdenza sociale.
Più in particolare, quello che il giudice adito riteneva inammissibile era che per l'effetto dell'art. 4, d.l. 44/2021, la libertà ed il diritto al lavoro – acquisiti per nascita ex art. 4 Cost. – venissero del tutto arbitrariamente “connessi” dall'Ordine di appartenenza alla previa sottoposizione ad un trattamento iniettivo contro il Sars Cov-2.
Ciò avrebbe condotto a conseguenze fallimentari a dire del giudice adito, posto che da un lato la ricorrente perdeva ogni possibilità di sostentarsi, essendole inibito lo svolgimento dell'attività lavorativa, e dall'altro che tale dannosa compressione non avrebbe nemmeno portato ai risultati sperati, dal momento che lo scopo del d.l. 44/2021 di “impedire la malattia e assicurare condizioni di sicurezza in ambito sanitario” non sarebbe stato realizzato poiché – come evinto dai report dell'AIFA – il trend che si verificava appariva non in linea con quanto si sarebbe voluto raggiungere con la vaccinazione, verificandosi comunque il dilagare del contagio e il proliferare di differenti varianti virali.
A sostegno della propria soluzione di sospensione del provvedimento anzidetto, il giudicante adduceva altri forti argomenti giuridici, quali, primo tra tutti, l'impossibilità di invocare l'art. 32, comma 2, Cost. a sostegno dell'obbligatorietà della vaccinazione in ragione della natura c.d. “personocentrica” della Carta Costituzionale italiana che dopo l'esperienza fascista non avrebbe di certo più permesso che il singolo individuo potesse venire sacrificato per un interesse collettivo vero o supposto e nè tantomeno avrebbe permesso di sottoporlo a sperimentazioni mediche invasive della persona senza il suo consenso libero ed informato, fattore quest'ultimo che il giudice adito riteneva irraggiungibile dal momento che i componenti dei sieri e i relativi meccanismi di funzionamento risultavano e risultano ad oggi coperti da segreto industriale.
Pertanto, proprio facendo leva sul diritto alla salute, protetto sul piano interno ex art. 32 Cost. e su quello internazionale dalle convenzioni internazionali sottoscritte dall'Italia, dirette a vietare l'imposizione di trattamenti sanitari contrari alla volontà di ciascun individuo poiché lesivi della sua dignità, il giudice adito ha ritenuto il provvedimento sospensivo emanato dall'ordine suddetto fortemente lesivo e delle norme interne e di quelle internazionali appena citate, poiché comportante una innegabile discriminazione della ricorrente rispetto ai colleghi vaccinati, ai quali non è mai stata negata la facoltà di continuare a lavorare, pur essendo questi nella condizione tanto di contrarre il virus, quanto di trasmetterlo.
La discriminazione rilevata sarebbe altresì stata contraria alle fonti del diritto UE – a dire del giudice adito – e nel dettaglio al regolamento UE n. 953/2021che vieta espressamente discriminazioni fondate sullo stato vaccinale ed in ragione di ciò, anche alla luce degli innumerevoli precedenti della Corte di Giustizia Ue concernenti l'obbligo in capo a ciascun giudice nazionale di disapplicare qualsiasi normativa interna contraria a una disposizione del diritto UE che abbia effetto diretto nella controversia di cui è investito, sospendeva il provvedimento dell'Ordine degli Psicologi della Regione Toscana e autorizzava la ricorrente all'esercizio della propria professione, nella modalità preferita, pur in assenza di sottoposizione al trattamento iniettivo contro il Sars Cov-2, in condizione di piena parità coi propri colleghi. Osservazioni
Tirando le fila del discorso è utile condurre una breve riflessione sulle tematiche che emergono dalla sentenza in commento.
Come ampiamente affrontato, il Giudice adito nella pronuncia esaminata sancisce con fermezza il principio di diritto, a più battute ripreso dal diritto unionale, secondo cui in qualità di organo di uno stato membro, ciascun giudice interno ha l'onere di disapplicare la disciplina interna, conferente al caso di specie, contrastante con i principi e le norme del diritto europeo.
Nel caso di specie, il giudicante, proprio attenendosi a tale regula iuris, sospendeva il provvedimento adottato dall'Ordine degli Psicologi della Regione Toscana per contrasto della normativa italiana su cui il provvedimento si fondava, d.l. n. 44/2021, col Regolamento UE n. 953/2021 che vietava ogni discriminazione in ragione dell'adesione o meno alla campagna vaccinale contro il Covid-19.
Tale rigida posizione apre lo scenario su una serie di innumerevoli riflessioni relative al tema de quo e su quelli ad esso connessi.
Invero, al di là della dimensione regolativa che incide sul rapporto di lavoro, quella dei vaccini è una tematica che innesca questioni giuridiche ed etiche che involgono aree disciplinari distinte, la cui soluzione non è sempre possibile mediante il tradizionale ricorso ad una “regola imposta”.
Ed infatti, nell'attuale contesto, in assenza di un obbligo vaccinale ex lege generalizzato, il Legislatore (al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 4 d.l. 44/2021) è intervenuto nel tentativo di portare ordine introducendo la certificazione verde Covid-19 (cd. green pass) e disponendone l'impiego in alcuni contesti lavorativi, così in parte superando la querelle del rapporto tra obbligo vaccinale e diritto al lavoro, qualificando il green pass come un obbligo indiretto, in veste di incentivo alla vaccinazione.
Nel quadro generale così delineato, fermo restando che l'obbligo di trattamento sanitario (rectius vaccinazione) può essere imposto solo da una disposizione di legge a seguito di un contemperamento dei valori costituzionali in gioco, la fattibilità di un “obbligo vaccinale imposto dal datore di lavoro”, seppur in applicazione dei principi di cui all'art. 2087 c.c., rischierebbe di ledere la riserva di legge.
Pertanto, particolarmente auspicabile sarebbe la possibilità di raccomandare – e, quindi, non imporre – la vaccinazione con l'ausilio della contrattazione collettiva, quindi col supporto delle parti sociali, coadiuvate dal medico competente, tramite lo strumento dei protocolli nazionali, che i datori di lavoro sono stati tenuti ad applicare durante tutta la fase emergenziale proprio in adempimento degli obblighi di cui all'art. 2087 c.c. P. Albi, Sicurezza sul lavoro e pandemia, in Lavoro Diritti Europa. Nuova Rivista di Diritto del Lavoro, 2, 2021, in www.lavorodirittieuropa.it F. Amendola, R. De Luca Tamajo, V.A. Poso, Per operatori sanitari e socioassistenziali è il momento dell'obbligo vaccinale?, in Giustizia insieme, 30 marzo 2021, in www.giustiziainsieme.it R. Riverso, Note in tema di individuazione dei soggetti obbligati ai vaccini a seguito del decreto-legge n. 44/2021, in Questione Giustizia, 20 aprile 2021, in www.questionegiustizia.it |