Falsificazione libro soci ed illecita influenza di assemblea

Ciro Santoriello
10 Novembre 2022

Una recente sentenza della Cassazione si occupa di una fattispecie relativa al reato di illecita influenza dell'assemblea, ai sensi dell'art. 2636 c.c.
Massima

Integra il delitto di cui all'art. 2636 c.c. la condotta del socio che da un lato falsifichi il libro soci e dall'altro determini la creazione di una maggioranza assembleare non genuina in cui l'estromissione di alcuni soci da soggetti che non avevano diritto al voto, riscontrandosi in questo caso il nesso di causalità tra gli atti fraudolenti (rappresentato dalla d falsificazione del libro soci) e la determinazione della maggioranza assembleare "alterata" ed il dolo specifico consistente nel volersi procurare un profitto costituito dal controllo totalitario della società.

Il caso

In sede di merito, diversi imputati erano condannati per il reato di illecita influenza sull'assemblea di cui all'art. 2636 c.c. in relazione alla formazione di maggioranza attraverso atti simulati e fraudolenti (consistiti nella falsificazione del libro dei soci di detta società, retrodatando la data dell'ingresso come soci di alcuni degli imputati), in vista di una prossima e successiva assemblea dei soci, in cui poi, parallelamente, si deliberava l'esclusione di altri soci per asseriti inadempimenti e per asserita indegnità, procurandosi così il profitto costituito dal pieno controllo della società.

In sede di ricorso per cassazione, per quanto di interesse in questa sede, veniva eccepito travisamento della prova con riferimento all'estromissione di alcuni soci dalla compagine della persona giuridica, anche considerando che l'esclusione di quest'ultimi non era mai stata annotata nel libro sociale e di conseguenza gli imputati non avevano acquisito il pieno controllo della società.

Le questioni giuridiche e le soluzioni

Il reato previsto dall'art. 2636 c.c. è posto a tutela dell'interesse al corretto funzionamento dell'organo assembleare ed infatti per l'integrazione del delitto occorre che la condotta abbia effettivamente inciso sulla formazione della maggioranza assembleare (Santoriello, Il nuovo diritto penale delle società, Torino, 2003, 223; Sciumbata, I reati societari, 2a ed., Milano, 2008, 146; Zannotti, Il nuovo diritto penale dell'economia. Reati societari e reati in materia di mercato finanziario, 2a ed., Milano, 2008, 135). A tale fine rileva qualsiasi operazione che artificiosamente consenta di alterare la formazione delle maggioranze assembleari, rendendo così di fatto possibile il conseguimento di risultati vietati dalla legge o non consentiti dallo statuto della società (Cass., sez. II, 4 febbraio 2020, n. 20451; Cass., sez. V, 21 maggio 2013, n. 17939).

La condotta tipizzata dalla norma incriminatrice richiede – a differenza del previgente art. 2630, comma primo, n. 3, cod. civ. - un elemento di frode integrato da comportamenti artificiosi aventi carattere simulatorio idoneo a realizzare un inganno, sicché il precetto sanzionato si configura come reato a forma vincolata; inoltre - essendo il reato posto a tutela dell'interesse al corretto funzionamento dell'organo assembleare - per la sua consumazione è necessario che la condotta abbia effettivamente inciso sulla formazione della maggioranza, trattandosi di fattispecie criminosa costruita come reato di evento – anche qui si evidenzia la differenza rispetto al previgente art. 2630 c.c.. Sembra, dunque, pienamente sottoscrivibile la necessità di procedere, anche in relazione all'attuale fattispecie sanzionatoria, all'accertamento che gli atti simulati o fraudolenti abbiano effettivamente indirizzato in senso specifico l'orientamento della maggioranza assembleare (MUSCO, I nuovi reati societari, 3a ed., Milano, 2007, 125), con il ricorso alla c.d. prova di resistenza, finalizzata a verificare se sottraendo ovvero aggiungendo ai voti che hanno determinato l'esito della votazione quelli illecitamente influenzati permanga o no il quorum indispensabile per la sua validità (MARTIELLO, Sub art. 2636, Illecita influenza sull'assemblea, in GIUNTA (a cura di), I nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali. Commentario del decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61, Torino, 2002, 187; ROSSI, Illeciti relativi al corretto andamento della società, in Antolisei, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, I, I reati societari, bancari, di lavoro e previdenza, 13a ed. a cura di GROSSO, Milano, 2007, 401) e che porta ad escludere la rilevanza al semplice rafforzamento di una maggioranza comunque raggiunta (nel qual caso, si dovrebbe parlare non già di tentativo, bensì di delitto impossibile per inesistenza dell'oggetto).

In merito alle verifiche ora riferite, parte della dottrina ritiene che non possano essere conteggiati tra i voti illegittimamente ottenuti quelli espressi non già in forza di un vero e proprio condizionamento eziologico dell'attività illecita del reo, ma solo ed unicamente perché frutto di sentimenti di rassegnazione e impotenza maturati in capo ai soci a fronte della crescente maggioranza di consensi catturati via via dalla messa ai voti (in questo senso, rispetto alla previgente normativa, CONTI, Diritto penale commerciale, I, Reati ed illeciti depenalizzati in materia di società, Torino, 1980). Rispetto a tale situazione, infatti, tutt'ora si osserva che «o il voto è determinato con atti simulati o fraudolenti, ed in tal caso integra il reato ove sia sfociato nella produzione dell'evento-maggioranza; ovvero, il voto è espresso da un socio che, pur consapevole degli illeciti maneggi, preferisce tacere e si adegua all'opinione dei più. In tal caso però difetta già sul piano materiale la configurabilità del fatto tipico, posto che manca il nesso causale fra la condotta e i voti marginali in questione» (MANGIONE, L'illecita influenza sull'assemblea (art. 2636), in GIARDA, SEMINARA (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova, 2002, 524).

Sul punto, pare, invero, tutt'oggi sottoscrivibile l'opinione, autorevolmente espressa già in relazione al precedente assetto normativo, secondo cui «può ammettersi la rilevanza di un'influenza indiretta sui singoli voti: ma in quanto calcolata (prevista e voluta) dagli stessi amministratori» (ARDIA, La tutela penale dell'assemblea, in ROSSI (a cura di), Reati societari, Torino, 2005, 384).

In merito all'individuazione dell'evento penalmente sanzionato, si segnala l'affermazione giurisprudenziale secondo cui «la locuzione "determina la maggioranza" sta a significare che la condotta vietata deve aver provocato il conseguimento di un quorum che, in assenza della stessa, non si sarebbe ottenuto, portando, comunque, ad una risoluzione anomala» (Cass., Sez. V, 19 gennaio 2004, n. 7317). Tale soluzione è stata criticata dalla dottrina, che ne ha messo in risalto la possibile ambiguità ravvisabile nell'aver ritenuto sufficiente il mero conseguimento di un quorum che abbia condotto ad una votazione assembleare con esito anomalo nonostante la contemporanea affermazione che l'evento consumativo del delitto consiste nella determinazione della maggioranza (MARTIELLO, Una prima applicazione giurisprudenziale in materia di "illecita influenza sull'assemblea", in Dir. Pen. Proc., 2004, 1539).

In ogni caso, «deve ritenersi che il reato non si configuri qualora la maggioranza si sia espressa in una direzione diversa da quella voluta dall'agente, ovvero l'assemblea non sia giunta a deliberare, o, ancora, nell'eventualità in cui sia proclamata una votazione che non ha invero avuto luogo o non ha raggiunto la maggioranza richiesta» (ROSSI, Illeciti, cit., 402).

Quanto alla nozione di "atti simulati" contenuta nell'art. 2636 c.c., l'espressione linguistica non va intesa in senso civilistico, con esclusivo riferimento all'istituto della simulazione regolato dagli artt. 1414 e segg. c.c., ma deve essere inquadrata in una tipologia di comportamenti più ampia, che include qualsiasi operazione che artificiosamente permetta di alterare la formazione delle maggioranze assembleari, rendendo possibile il conseguimento di risultati vietati dalla legge o non consentiti dallo statuto della società (Cass., sez. I, 3 marzo 2009, n. 17854). Integrano tale fattispecie a) il comportamento del socio, che si avvalga di azioni o quote non collocate, intendendo per tali quelle non vendute, ovvero quelle per le quali il socio non abbia effettuato, nei termini prescritti, il versamento di quanto dovuto; b) il comportamento del socio che, occultando la mora nei versamenti, che gli precluderebbe il diritto di voto, tragga in inganno l'assemblea, facendosi apparire come portatore di un diritto di voto, del quale in realtà non è titolare; c) le dichiarazioni mendaci o reticenti, provenienti dagli amministratori o dai terzi, con le quali l'assemblea od i singoli soci vengano tratti in inganno sulla portata o convenienza di una delibera; d) l'incetta di deleghe fraudolentemente realizzata in violazione dei limiti posti dall'art. 2372 c.c; d) la maliziosa convocazione di un'assemblea in tempi o luoghi tali da precludere un'effettiva partecipazione dei soci; e) i possibili abusi funzionali della presidenza dell'assemblea, a qualsiasi soggetto affidata ex art. 2371 c.c., quali l'artificiosa o fraudolenta esclusione dal voto di soggetti aventi diritto o, all'inverso, l'ammissione al voto di soggetti non legittimati; f) la falsificazione della documentazione relativa all'assemblea dei soci.

In tutte le citate situazioni "tipo" è possibile individuare ipotesi di "illecita influenza sull'assemblea", in quanto la illiceità della condotta è connotata dalla presenza di atti simulati o fraudolenti che hanno avuto efficacia determinante per l'adozione di deliberazioni assembleari assunte in violazione di divieti legali o statutari.

Sotto il profilo psicologico è necessario il dolo specifico, in quanto l'agente, oltre ad avere la consapevolezza di determinare la maggioranza assembleare mediante atti simulati o fraudolenti, deve agire al fine di perseguire per sè o per altri un ingiusto profitto, che può essere anche di natura non patrimoniale.

Osservazioni

Il ricorso è stato rigettato, in quanto nella condotta degli imputati è stata rinvenuta la necessaria componente fraudolenta del reato, vale a dire la predisposizione di atti fraudolenti, consistiti nella falsificazione del libro soci, con conseguente creazione di una maggioranza assembleare non genuina grazie alla quale è stata deliberata l'estromissione di alcuni soci da parte di soggetti che non avevano diritto al voto, condotte tutte contrassegnata dal dolo specifico consistente nel volersi procurare un profitto costituito dal controllo totalitario della società.

Irrilevante poi la Cassazione ritiene le considerazioni circa il rinvenimento in capo ai soci illecitamente estromessi – e costituitisi parti civili nel processo penale – di un danno così l'individuazione dell'ingiusto profitto che avrebbe giustificato l'adozione dei comportamenti censurati in quanto tali elementi sono irrilevanti per la configurazione del reato poiché non rientrano nella sua struttura normativa, così come ricostruita: l'unico evento contemplato dalla disposizione incriminatrice è quello di aver inciso (fraudolentemente) sulla determinazione dell'assemblea.

Conclusioni

La sentenza della Cassazione pare conforme all'orientamento consolidato, secondo cui il carattere simulatorio o fraudolento esprime l'essenza del disvalore della condotta descritta dal legislatore, e si tratta di « un requisito riscontrabile in un comportamento obiettivamente idoneo ad ingannare e soggettivamente orientato dall'agente al conseguimento di tale obiettivo, oltre che ulteriormente caratterizzato dal dolo specifico di ingiusto profitto, che ugualmente contribuisce ad arricchire la tipicità del fatto» (FOFFANI, Società, in Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova 2007, 2542).

Si ricorda che, proprio alla luce del richiamo alle nozioni di “simulazione” e “fraudolenza”, non può ritenersi rilevino le condotte violente o di minaccia, «trattandosi di categorie sociali e giuridiche davvero distinte» (MUSCO, I nuovi reati, cit., 271), con la conseguenza che la relativa lacuna non può essere colmata in via interpretativa e nemmeno adeguatamente superata dalla possibilità di applicare l'art. 610 c.p.. Parimenti, non sembra più possibile far confluire nel novero degli atti fraudolenti il ricorso ai c.d. patti parasociali, disciplinati dagli artt. 2341 bis e 2341 ter c.c., proprio perché, in ragione del loro esplicito riconoscimento normativo non possono ritenersi sic et simpliciter illeciti (MANGIONE, L'illecita influenza, cit.,527), anche se è da ritenere che, alla luce di quanto previsto dall'art. 2341-ter c.c., tale illiceità può ripresentarsi, con le conseguenti ricadute anche in sede penale, laddove tali patti non vengano pubblicizzati nei casi ivi previsti (in questo senso MANGIONE, L'illecita influenza, cit., 529, che, con riferimento al cd. riporto di azioni – ovvero il trasferimento a termine della proprietà di titoli – ex art. 1549 c.c. -, evidenzia come a fronte della piena liceità, in sé, dell'operazione e, dunque, della sua esclusione dall'ambito di applicazione diretta della fattispecie, la sua rilevanza penale potrebbe, in ipotesi, conseguire alla prova della «natura simulata del trasferimento a termine», ovvero della «sussistenza di un patto col quale il riportatore si era vincolato a votare nella direzione indicatagli dal riportato»).

Discussa, inoltre, è la possibilità di attribuire penale rilevanza alla pratica di fare incetta di deleghe. Sul punto, giova ricordare che già sotto la vigenza del precedente assetto normativo si rilevava che attraverso tale modalità operativa «gli amministratori possono indebitamente influire sulla formazione della maggioranza assembleare», di talché la stessa era suscettibile di assurgere all'attenzione della precedente fattispecie allorché fosse stata esercitata «in violazione delle limitazioni di legge» (PEDRAZZI, Società commerciali (nuova disciplina penale), in Dig. Pen., agg., I, Torino, 2006, 599), mentre, in relazione alla nuova fattispecie «simili ipotesi sono astrattamente riconducibili sotto la previsione degli atti fraudolenti, come nel caso in cui il soggetto non rispetti il mandato appositamente conferitogli dai deleganti e al quale si era viceversa vincolato, allo scopo di perseguire un ingiusto profitto» (ROSSI, Illeciti, cit., 400).

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