Legittimo il rifiuto della dipendente demansionata: annullato il licenziamento disciplinare
15 Novembre 2022
Il caso
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione, sezione lavoro,18 ottobre 2022, n. 30543, torna sul tema del licenziamento della lavoratrice e del lavoratore che abbiano rifiutato lo svolgimento di mansioni dequalificanti. Tema, ricordiamo, recentemente trattato dalla stessa sezione in una pronuncia già oggetto di commento (Cass. Civ., sez. lav., 6 settembre 2022, n. 26199; cfr. Tambasco, E' legittimo il rifiuto della prestazione lavorativa del dipendente nel caso di demansionamento, mobbing o molestie?, in questa Rivista, 21 settembre 2022).
La complessa controversia riguarda una lavoratrice, assunta come cuoca, alla quale era stato addebitato di essersi rifiutata, con comportamento reiterato e recidivo, di portare le colazioni in classe. All'esito di una serie di sanzioni disciplinari progressivamente più gravi, permanendo il rifiuto della dipendente, il datore di lavoro provvedeva ad irrogare il licenziamento per giusta causa ai sensi dell'art. 192 del CCNL Turismo-Pubblici Esercizi, che legittima il recesso datoriale nel caso di “rifiuto di eseguire i compiti ricadenti nell'ambito delle mansioni afferenti alla qualifica d'inquadramento, ferma restando la norma dell'art. 13 della L. 20 maggio 1970, n. 300, dopo l'applicazione delle sanzioni di cui alle lettere a), b), c), e d) del primo comma dell'art. 138”.
L'articolato iter processuale vedeva la ricorrente vittoriosa nella fase sommaria del “rito Fornero”, con l'annullamento del licenziamento per insussistenza del fatto materiale (nella sua accezione “giuridica”, per assenza del carattere dell'illiceità). La domanda di annullamento delle precedenti sanzioni disciplinari, tuttavia, veniva respinta per estraneità dell'azione rispetto al ridotto perimetro previsto dalla L. 92/2012, relativo alla sola impugnazione del recesso datoriale.
La Corte d'Appello di Roma, nel confermare la pronuncia di primo grado sul recesso disciplinare (annullando tuttavia anche le altre sanzioni impugnate), rilevava che l'articolo 192, comma 1, del CCNL, richiamato nella lettera di licenziamento, sanzionava soltanto "il rifiuto di eseguire i compiti ricadenti nell'ambito delle mansioni afferenti alla qualifica di inquadramento", mentre la lavoratrice si sarebbe rifiutata di eseguire mansioni inferiori e diverse da quelle proprie della sua qualifica. Ne derivava, conseguentemente, l'insussistenza del fatto in conseguenza dell'irrilevanza disciplinare della condotta tenuta dalla dipendente.
Giunta una prima volta in Cassazione, la pronuncia della Corte d'Appello di Roma veniva annullata per aver omesso la valutazione nel merito sulla proporzionalità e sulla conformità a buona fede del rifiuto della lavoratrice di svolgere mansioni inferiori rispetto al proprio inquadramento. Valutazione imprescindibile allorché si tratti della cosiddetta “eccezione di inadempimento”, che richiede uno scrutinio complessivo dei comportamenti di entrambe le parti, alla luce dei principi generali dettati dagli articoli 1175 e 1375 del codice civile.
La Corte d'appello di Roma, in sede di rinvio, rilevato che la Corte di cassazione aveva confermato la decisione del giudice del merito in punto di accertamento della circostanza che la distribuzione delle merende nelle classi non rientrava negli incarichi propri della qualifica in cui era inquadrata la lavoratrice, trattandosi di compiti esecutivi di livello inferiore, svolgeva la valutazione comparata del comportamento delle parti, accertando in concreto che:
a) da un lato la lavoratrice non aveva mantenuto un pervicace atteggiamento di insubordinazione, avendo al contrario cercato – peraltro invano – un confronto con i responsabili aziendali per una soluzione di tipo organizzativo; b) dall'altro lato, invece, la parte datoriale aveva preteso dalla lavoratrice una mansione inferiore alla qualifica di inquadramento, in base ad una scelta imprenditoriale “non improrogabile e imprevedibile” e “con oggettivi effetti di aggravamento dell'impegno lavorativo”.
Il risultato di questa comparazione, dunque, manteneva inalterato l'esito del processo rispetto ai precedenti gradi di giudizio: il rifiuto della dipendente di svolgere le prestazioni lavorative veniva infatti considerato conforme a buona fede e correttezza.
Quanto alle domande di annullamento delle sanzioni disciplinari, il collegio capitolino le reputava ammissibili perché fondate in parte sui medesimi fatti costitutivi e perché comportanti la recidiva, elemento costitutivo dell'addebito, statuendone al riguardo l'illegittimità.
L'ordinanza in commento, dunque, trae origine dall'impugnazione presentata dalla società datrice avverso la seconda pronuncia del giudice del gravame, emessa in sede di rinvio. I principi di diritto
Due i principi di diritto rilevanti, enucleabili dall'ordinanza in commento.
Il primo riguarda, come abbiamo visto, il tema del rifiuto della lavoratrice allo svolgimento di mansioni inferiori al proprio livello di inquadramento. Sotto questo profilo la Corte di Cassazione, nel confermare la sentenza di appello, afferma la regola di diritto secondo cui perché la condotta contestata e posta alla base del recesso possa considerarsi lecita (1) e, quindi, disciplinarmente irrilevante, è necessario accertare –con adeguata motivazione- “la proporzionalità e conformità a buona fede del rifiuto opposto dalla lavoratrice allo svolgimento di prestazioni inferiori e non pertinenti alla sua qualifica”.
Il secondo principio involge, invece, la natura del “rito Fornero” e in particolare il suo raggio operativo, prendendo spunto dalla questione relativa all'ammissibilità dell'impugnazione delle sanzioni disciplinari antecedenti il licenziamento. Richiamando il consolidato orientamento della Corte di Cassazione che, al fine di evitare la parcellizzazione dei giudizi, ha affermato un'interpretazione estensiva della legge n. 92 del 2012 volta a far scaturire un unico processo da un'unica vicenda estintiva del rapporto (cfr., ex multis, Cass. civ., 13 giugno 2016, n. 12094), l'ordinanza in esame afferma l'ammissibilità della domanda diretta ad ottenere l'annullamento delle sanzioni disciplinari conservative che abbiano tratto origine dai medesimi fatti costitutivi posti a fondamento del licenziamento. Il quadro sistematico
La pronuncia si colloca nell'ambito di un risalente - e fino ad oggi minoritario - filone giurisprudenziale che, in materia di rifiuto della prestazione lavorativa da parte del dipendente demansionato, sostiene che l'illegittimo comportamento del datore di lavoro posto in violazione dell'art. 2103 c.c. ben può inquadrarsi nello schema dell'eccezione di inadempimento previsto dall'art. 1460 c.c., purché la reazione risulti proporzionata e conforme a buona fede (Cass., sez. lav., 8 agosto 2003, n. 12001; Cass., Sez. lav., 26 giugno 1999, n. 6663; Trib. Palermo, sez. lav., 13 ottobre 2004; Appello Genova, sez. lav., 10 gennaio 2006).
In concreto, la reazione può considerarsi in buona fede solo se si traduca in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, risulti oggettivamente ragionevole e logico, nel senso di trovare concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni eseguite e prestazioni rifiutate (Cass., sez. lav., 2 novembre 1995, n. 12121; conf. Corte d'Appello di Genova, sez. lav., 2 aprile 2003; Corte Appello Genova, sez. lav., 10 gennaio 2006).
Al contrario, l'orientamento maggioritario di legittimità tende a negare, quantomeno in linea di massima, che il lavoratore o la lavoratrice possano agire in via di autotutela ai sensi dell'art. 1460 c.c., rifiutandosi di svolgere mansioni dequalificanti. Secondo tale filone giurisprudenziale, infatti, il rifiuto di svolgere la prestazione lavorativa può essere invocato dal dipendente ai sensi dell'art. 1460 c.c. soltanto nel caso di totale inadempimento del datore di lavoro o in ipotesi di gravità della condotta datoriale tale da incidere in modo irrimediabile sulle esigenze vitali del dipendente; ipotesi in cui non può ricomprendersi il semplice demansionamento, seppure illegittimo ex art. 2103 c.c. (cfr., ex plurimis, Cass., sez. lav., 6 settembre 2022, n. 26199; Cass., sez. lav., 16 gennaio 2018, n. 836; Cass., sez. lav., 21 maggio 2015, n. 10468; Cass., Sez. lav., 5 marzo 2015, n. 4474).
Ne deriva, conseguentemente, che non è legittimo il rifiuto opposto dal dipendente di eseguire la prestazione a causa di una dequalificazione professionale, laddove il datore di lavoro offra l'adempimento di tutti gli altri obblighi derivanti dal contratto, in primis quello retributivo (Cass., sez. lav., 18 marzo 2011, n. 9351; Cass., sez. lav., 9 maggio 2007, n. 10547; Cass., sez. lav., 23 dicembre 2003, n. 19689).
Diverso, invece, è il discorso nel caso in cui il rifiuto della lavoratrice o del lavoratore sia in opposizione alle condotte datoriali lesive della propria integrità psico-fisica, in violazione del generale precetto previsto dall'art. 2087 c.c.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, infatti, nel caso di violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c., è legittimo il rifiuto del dipendente di eseguire la propria prestazione, conservando, al contempo, il diritto alla retribuzione; ciò in quanto non possono derivare conseguenze sfavorevoli al lavoratore o alla lavoratrice in ragione dell'altrui condotta inadempiente (cfr. Cass., Sez. lavoro, 25 settembre 2018, n. 22684; conf. Cass., sez. lav., 1 aprile 2015, n. 6631).
Nell'ipotesi di condotte lavorative ostili rientranti nel disposto dell'art. 2087 c.c. (quali il mobbing, lo straining, il work stalking, la violenza fisica, le molestie morali etc.) (2), la vittima potrà quindi eccepire l'inadempimento della prestazione lavorativa fino alla cessazione delle condotte, fermo restando il diritto al percepimento della retribuzione anche durante il periodo di interruzione della prestazione.
Secondo un differente orientamento di legittimità tuttavia, anche in caso di violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi previsti dall'art. 2087 c.c., la condotta inadempiente del dipendente dovrà essere valutata alla luce del principio di buona fede e correttezza contrattuale ex art. 1175 e 1375 c.c. (cfr. Cass. civ., sez. lav., 29 marzo 2019, n. 8911; conf. Cass. 4 novembre 2003, n. 16530; Cass. 7 novembre 2005, n. 21479; Cass. 16 maggio 2006, n. 11430; Cass. 4 febbraio 2009, n. 2729).
Da ultimo, è necessario evidenziare come si possano individuare nell'ordinamento almeno due fattispecie di eccezione qualificata di inadempimento, in cui il legislatore ha operato ex ante un bilanciamento degli interessi in gioco (senza pertanto richiedere alcun vaglio ex post di buona fede e correttezza), ritenendo prevalente il divieto di discriminazione e l'integrità psico-fisica della lavoratrice e del lavoratore rispetto alla corretta esecuzione della prestazione lavorativa.
In particolare:
a) l'art. 26 comma 3 d.lgs. 198/2006 ha legittimato il rifiuto tout court della lavoratrice o del lavoratore rispetto alle condotte moleste o discriminatorie di cui all'art. 26 commi 1, 2 e 2 bis d.lgs. 198/2006, sanzionando automaticamente con la nullità tutti gli atti, i patti o i provvedimenti datoriali adottati in conseguenza di tale rifiuto (3). La fattispecie normativa descrive, sul piano fattuale, un evidente meccanismo ritorsivo (4): il datore di lavoro, autore di molestie (che di per sé equivalgono alla discriminazione, ai sensi dell'art. 26, commi 1 e 2 d.lgs. 198/2006) reagisce al rifiuto della lavoratrice di subire le molestie (o all'azione di questi volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento) adottando un provvedimento, ad esempio di trasferimento, di mutamento delle mansioni o di licenziamento, che comporta per il destinatario un trattamento meno favorevole o addirittura sfavorevole. Il meccanismo processuale utilizzato è quello della presunzione legale assoluta (5): una volta accertato, pertanto, che il provvedimento datoriale è stato adottato in conseguenza del rifiuto o della reazione del dipendente alle molestie medesime, nessun rilievo potranno avere né l'esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, né l'assenza di un motivo unico e determinante (6), né la presenza di buona fede o correttezza nella condotta datoriale;
b) l'art. 44 d.lgs. 81/2008 (rubricato “diritti dei lavoratori in caso di pericolo grave e immediato”) riconosce il diritto dei lavoratori e della lavoratrici ad abbandonare il posto di lavoro nel caso di pericolo grave, immediato e non evitabile (7) (primo comma) nonché di prendere le misure adatte ad evitare le conseguenze di tale pericolo (secondo comma), senza subire pregiudizio alcuno (8): il che vuol dire riconoscere, nella specifica ipotesi delineata dalla norma, anche il legittimo rifiuto della prestazione lavorativa del dipendente la cui incolumità sia gravemente ed immediatamente compromessa sul posto di lavoro. Si tratta di previsione normativa del tutto in linea con il disposto dell'art. 10 lett. g) della Convenzione n. 190 OIL recentemente entrata in vigore anche in Italia, che prescrive l'obbligo degli Stati Membri di “garantire alle lavoratrici e ai lavoratori il diritto di abbandonare una situazione lavorativa laddove abbiano giustificati motivi di ritenere che questa possa costituire un pericolo serio e imminente alla vita, alla salute o alla sicurezza in ragione di violenza e molestie, senza per questo essere oggetto di ritorsioni o di qualsivoglia altra indebita conseguenza, oltre al dovere di informarne la direzione”. Note
(1) Con riferimento alla “insussistenza del fatto” posta dal legislatore alla base dell'attivazione della tutela reintegratoria ex art. 18 comma 4 stat. Lav. novellato, la pronuncia ribadisce il principio di diritto secondo cui l'“insussistenza del fatto contestato" comprende sia l'ipotesi di assenza ontologica del fatto sia quella di fatto sussistente ma privo del carattere dell'illiceità, cfr. ex multis, Cass. 10 febbraio 2020, n. 3076.
(2) Per uno sguardo d'insieme ai molteplici fenomeni di violenza sul lavoro, si rimanda al contributo di Tambasco, Mobbing, bossing, demansionamento e atti persecutori nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, in IUS lavoro (ius.giuffrefl.it), 19 aprile 2022.
(3) Oltre al rifiuto, la norma prevede anche la sottomissione. In questa seconda ipotesi la disposizione mira a disincentivare quella speciale forma di molestia sessuale che è definita a livello internazionale come “quid pro quo”, ovverosia “a job benefit – a pay rise, promotion or even continuing employment – depends on participating in some form of conduct of a sexual nature”, ILO, Background paper for discussion at the Meeting of Experts on Violence against Women and Men in the World of Work, Ginevra, 2016, p. 4.
(4) Ponterio, Licenziamenti discriminatori e molestie, in Aa.Vv., Eguaglianza e divieti di discriminazione nell'era del diritto derogabile, Roma, 2017, p. 225 e ss.
(5) Sulle presunzioni legali relative e assolute, cfr. S. Patti, Le prove, Milano, Giuffrè Lefebvre, 2021, p. 781-783; A. Maniaci, Onere della prova e strategie difensive, Milano, Giuffrè Lefebvre, 2020. Lo strumento utilizzato dall'ordinamento italiano garantisce una protezione più elevata anche rispetto agli standard minimi di tutela consigliati dall'OIL con la Raccomandazione 206 sull'eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro, che invita i Paesi Membri all'adozione dell'inversione dell'onere della prova nei casi di violenza e molestie di genere (art. 16, lett. e).
(6) In questo senso Ponterio, Licenziamenti discriminatori e molestie, in Aa.Vv., Eguaglianza e divieti di discriminazione nell'era del diritto derogabile, cit., p. 228.
(7) O nell'impossibilità di contattare il superiore gerarchico competente, come disposto dall'art. 44, comma 2, d.lgs. 81/2008.
(8) Fatto salvo il caso, previsto dall'art. 44, comma 2, d.lgs. 81/2008, di “grave negligenza”.
In riferimento al presente commento, v. in Casi e sentenze, Illegittimità del licenziamento disciplinare della dipendente demansionata, di D. Tambasco. |