Lavoratore in malattia: obbligo di cooperazione alla luce dei criteri di correttezza e buona fede

Paolo Patrizio
17 Novembre 2022

La decisione in esame involge la tematica della portata dell'obbligo di cooperazione che grava sul lavoratore in malattia, in rapporto ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto lavorativo.
Massima

“... l'obbligo di cooperazione che grava sul lavoratore in malattia, pur rilevando anche sul piano contrattuale del rapporto di lavoro, non può essere esteso fino a ricomprendere il divieto per il lavoratore medesimo di astenersi dal compiere qualsiasi atto del vivere quotidiano, normalmente compiuto all'interno delle pareti domestiche...”.

Il caso

Il dipendente di un Istituto di cura milanese assente dal lavoro per malattia, in occasione della visita fiscale di controllo, se pur presente in casa, non aveva sentito suonare il campanello dell'abitazione, siccome in quel frangente “sotto la doccia”, così impedendo l'accesso del medico incaricato della verifica richiesta dalla datrice di lavoro.

Destinatario, per tale ragione, della sanzione disciplinare del richiamo scritto e della sospensione dell'indennità di sala operatoria (prevista, in sede di regolamento contrattuale, come erogabile a condizione dell'assenza di provvedimenti disciplinari), il lavoratore provvedeva a rivolgersi alla competente Autorità Giudiziaria, invocando l'illegittimità della scelta datoriale.

In sede di merito, il Tribunale prima e la Corte d'appello poi, convenivano sulla sostanziale esclusione della rilevanza disciplinare della condotta contestata al dipendente, posto che, in relazione alle circostanze del caso concreto, non risultavano violati gli obblighi esigenza e di esecuzione del contratto secondo buona fede, imposti dagli artt. 2104 e 2106 c.c., in considerazione anche della condotta concretamente posta in essere dal lavoratore, il quale aveva manifestato piena disponibilità a consentire l'accertamento ed aveva anche inviato tempestiva comunicazione dell'accaduto agli organi preposti.

Non condividendo le motivazioni espresse in sentenza, l'Istituto datoriale decideva di ricorrere dinanzi alla Suprema Corte, sostenendo l'erroneità della decisione dei Giudici di merito di valorizzare il comportamento successivamente tenuto dal lavoratore per escludere la rilevanza disciplinare della condotta, in uno alla richiamata giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione, per cui il mancato rispetto della reperibilità costituisce inadempimento contrattuale sanzionabile in sé, ossia a prescindere dalla presenza o meno dello stato di malattia, perché il lavoratore ha nei confronti del datore un dovere di cooperazione e pertanto, anche nel domicilio, è tenuto ad astenersi da condotte che impediscano l'accesso al medico della struttura pubblica.

La questione

La decisione in esame involge la tematica della portata dell'obbligo di cooperazione che grava sul lavoratore in malattia, in rapporto ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto lavorativo.

La soluzione giuridica

La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso proposto dall'Istituto datore di lavoro, muove dal presupposto per cui non tutte le condotte che rilevano nei rapporti con l'istituto previdenziale e che possono determinare decadenza dal beneficio comportano anche una responsabilità disciplinare, evidenziando, al contrario, come per l'emersione di quest'ultima sia necessario accertare il rispetto delle condizioni richieste sul piano sostanziale dall'art. 2106 c.c., e sul piano formale dalla L. n. 300 del 1970, art. 7.

Se, invero, il CCNL invocato dalla società ricorrente inserisce, fra le condotte di rilievo disciplinare, l'assenza del lavoratore alla visita domiciliare di controllo, è tuttavia necessario evidenziare come tale comportamento non sia ex se concettualmente coincidente con la tenuta di una condotta, all'interno delle pareti domestiche, che si riveli di ostacolo all'accesso del medico competente.

Ai fini disciplinari, infatti, oltre a venire in rilievo il principio di legalità e quello di proporzionalità, occorre accertare che in concreto la condotta, valutata in tutti i suoi profili oggettivi e soggettivi, integri una violazione degli obblighi che dal rapporto scaturiscono, ciò in quanto l'obbligo di cooperazione che grava sul lavoratore in malattia, pur rilevando anche sul piano contrattuale del rapporto di lavoro, non può essere esteso fino a ricomprendere il divieto per il lavoratore medesimo di astenersi dal compiere qualsiasi atto del vivere quotidiano, normalmente compiuto all'interno delle pareti domestiche.

Su tali presupposti, dunque, appare corretta la decisione del giudice del merito, il quale, dopo aver accertato (con giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità) che il lavoratore era presente all'interno delle pareti domestiche, ha valutato tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresa l'immediata attivazione dello stesso una volta avuta contezza di quanto accaduto, arrivando così ad escludere che la condotta tenuta dal dipendente in malattia fosse stata contraria agli obblighi di diligenza, correttezza e buona fede, con conseguente illegittimità della sanzione disciplinare applicata dalla datrice.

Per tali motivi, il ricorso dell'Istituto deve essere rigettato.

Osservazioni

La pronuncia in commento ci consente di avanzare alcune osservazioni in merito alla tematica dell'istituto della visita fiscale per il lavoratore in malattia, filtrata attraverso la lente del dovere di cooperazione, diligenza, buona fede e correttezza, che connotano e permeano il rapporto di lavoro e la sua esecuzione lato senso intesa.

Come è noto, la visita fiscale è un controllo previsto dalla legge, finalizzato ad accertare che lo stato di malattia dichiarato del lavoratore sia effettivo e non simulato né artefatto, così da garantire la corretta gestione dell'evento morboso da parte dell'azienda e dell'INPS di riferimento.

Come è altrettanto noto, incombe sul lavoratore un sostanziale dovere di cooperazione, che impone al dipendente l'obbligo di non allontanarsi dal proprio domicilio, durante il periodo di assenza per malattia, soprattutto in relazione all'attivazione della procedura della visita di controllo, ovvero di avvisare preventivamente in caso di necessità di assenza, salvo i casi di sopravvenute esigenze salutari indifferibili e dimostrabili, così da non frustrare la possibilità di verifica e controllo fattivo del dichiarato stato morboso.

La ripetuta assenza del lavoratore dal domicilio durante le fasce orarie di reperibilità in costanza di malattia e tale da non consentire la visita fiscale di controllo dell'Inps, invero, integra una giusta causa di licenziamento qualora il lavoratore non abbia provveduto a fornire una adeguata dimostrazione della propria improcrastinabile esigenza di assentarsi per concomitanti e indifferibili esigenze.

In tale evenienza, infatti, il licenziamento è stato riconosciuto come misura proporzionata alla violazione dell'obbligo di reperibilità durante le fasce orarie prestabilite dal contratto collettivo, in quanto obbligo che prescinde dall'esistenza in sé dello stato di malattia costituendo un'obbligazione accessoria alla prestazione del rapporto di lavoro.

E' necessario, però, sottolineare come se, da un lato, il dovere di correttezza operi senza dubbio per il lavoratore in malattia, medesimo principio di valenza sostanziale risulti applicabile alla condotta datoriale, in quanto, a più riprese, è stato riconosciuto come il comportamento del datore di lavoro che, senza valide ragioni, reitera le richieste di visite fiscali, possa costituire una vessazione nei confronti del dipendente ammalato, se accompagnata da un chiaro intento persecutorio, finanche integrante, nei casi più gravi, una ipotesi di vera e propria condotta mobbizzante.

Ciò posto, è principio cardine dell'ordinamento quello per cui, in ambito disciplinare, la valutazione della gravità del fatto non va operata in astratto, ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle singole mansioni, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale e di quello colposo.

Come evidenziato dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento, invero, ai fini disciplinari, oltre a venire in rilievo il principio di legalità e quello di proporzionalità, occorre accertare che in concreto la condotta, valutata in tutti i suoi profili oggettivi e soggettivi, integri una violazione degli obblighi che dal rapporto scaturiscono, ciò in quanto l'obbligo di cooperazione che grava sul lavoratore in malattia, pur rilevando anche sul piano contrattuale del rapporto di lavoro, non può essere esteso fino a ricomprendere il divieto per il lavoratore medesimo di astenersi dal compiere qualsiasi atto del vivere quotidiano, normalmente compiuto all'interno delle pareti domestiche.

Su tali presupposti, la concreta esclusione che la condotta tenuta dal dipendente in malattia fosse stata contraria agli obblighi di diligenza, correttezza e buona fede, ha minato alla radice la possibilità di valida sanzionabilità disciplinare del dipendente, riportando in luce l'immanenza di tali principi non solo rispetto alla stipulazione, bensì anche in riferimento all'interpretazione e all'esecuzione del contratto.

Correttezza e buona fede assurgono, dunque, ad elementi fondanti l'obbligo di mutuo rispetto delle obbligazioni assunte e di adozione di una condotta rispettosa e cooperativa, atta a garantire la realizzazione dell'interesse reciproco delle parti, fungendo, al contempo, da filtro ostativo all'espansione della discrezionalità, dell'arbitrio o dell'abuso di una parte in danno dell'altra.

Non a caso, invero, nella previsione codicistica dell'art. 1175 in tema di obbligazioni in generale, il legislatore dispone espressamente che sia il debitore che il creditore “debbono comportarsi secondo le regole della correttezza”, con l'utilizzo della locuzione al plurale (regole della correttezza) ad immediata attestazione dell'inesistenza di una dimensione univoca del concetto stesso, che si dipana, invece, attraverso una pluralità di manifestazioni concrete, cui è necessario dare attenzione e rilevanza.

Tale obbligo di condotta in senso oggettivo, infatti, non si presta ad essere predeterminato nel suo contenuto in quanto esso richiede comportamenti diversi in relazione alle concrete circostanze.

Ma è bene distinguere concettualmente il criterio della correttezza, anche in tema di esecuzione del contratto, rispetto a quello della diligenza, pure richiesta nell'adempimento delle obbligazioni e nell'esecuzione dei contratti, perché mentre quest'ultima rappresenta il criterio valutativo del corretto adempimento delle obbligazioni contrattuali, la prima attiene, invece, ad una tutela diversa ed ulteriore.

Il principio di correttezza, invero, viene generalmente richiamato in modo congiunto al principio di buona fede, come endiade comportamentale che permea tutta la materia contrattuale e può diventare rilevante in qualsiasi ambito e in relazione a qualsiasi istituto, proprio perché richiesta quale presupposto di ogni condotta delle parti, a mo' di vessillo fondante l'intero costrutto negoziale.

Ecco allora che, come avviene per tutte le clausole generali (vedasi ad esempio i concetti di “giusta causa”, “giustificato motivo”, “equità”, “diligenza del buon padre di famiglia”, ecc.) manca una definizione precisa, idonea ex se a determinare in maniera certa i confini dell'istituto, che necessita, invece, di una traduzione continua rispetto alle singole fattispecie circostanziali, perché la correttezza nei rapporti contrattuali in genere, così come nei rapporti di lavoro in particolare, non assurge solamente a principio di matrice morale o etica, ma costituisce dovere giuridico e criterio di vaglio delle condotte effettive, influendo in modo concreto e rilevante sui diritti e doveri delle parti .