Continuità aziendale vs. continuità liquidatoria: quando la tutela dei lavoratori deve cedere il passo alla salvaguardia dell'impresa

Alessandro Corrado
17 Novembre 2022

Un excursus giurisprudenziale che muove dalla sentenza della Corte di giustizia del 28 aprile 2022, che ha (ri)affermato che il trasferimento d'azienda di un'impresa in stato di crisi in fase liquidatoria può avvenire sacrificando i diritti dei lavoratori stabiliti dalla Direttiva 2001/23/CE.
La sentenza della Corte di Giustizia 28 aprile 2022: anche la continuità liquidatoria esonera dall'applicazione delle tutele della Direttiva n. 2001/23/CE

Con la sentenza del 28 aprile 2022, la Corte di Giustizia UE ha (ri)affermato che il trasferimento d'azienda di un'impresa in stato di crisi in fase liquidatoria può avvenire sacrificando i diritti dei lavoratori stabiliti dalla Direttiva 2001/23/CE: questa, in sostanza, dispone (artt. 3 e 4) una serie di tutele in loro favore (tra cui il passaggio del rapporto senza soluzione di continuità da cedente a cessionario, la responsabilità solidale tra questi ultimi per i crediti risultanti alla data del trasferimento, il mantenimento delle condizioni di lavoro stabilite dal contratto collettivo applicato dal cedente, il divieto di licenziamento giustificato dal trasferimento d'azienda) che l'art. 5 consente di disapplicare nel caso in cui il cedente sia (i) oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura analoga (ii) aperta in vista della liquidazione dei suoi beni e (iii) sottoposta al controllo di un'autorità pubblica.

La Corte di Giustizia ha ravvisato la sussistenza dei presupposti richiesti per la deroga nel caso riguardante un'azione giudiziale promossa da un sindacato olandese contro due società neocostituite (iscritte nel registro delle imprese il 21 gennaio 2014) che avevano rilevato da un'impresa cedente in stato di insolvenza due terzi dei dipendenti sottoponendoli a condizioni di lavoro meno favorevoli.

Il passaggio era avvenuto nell'ambito di una procedura attivata su istanza dell'impresa che versava in gravi difficoltà finanziarie e denominata pre-pack, che trova fondamento nella prassi nazionale di origine giurisprudenziale, il cui scopo è quello di approntare attività di analisi preparatorie volte poi a consentire nella successiva procedura di fallimento una modalità di liquidazione con la quale il patrimonio della cedente viene trasferito per ottenere il rendimento più elevato possibile per l'insieme dei creditori e mantenere al tempo stesso il più possibile l'occupazione.

La fase preliminare pre-pack (aperta il 16 gennaio 2014) aveva quindi visto la designazione di un curatore e di un giudice delegato, con l'incarico di “osservare, informarsi ed essere informati, nonché esprimere il loro parere e, all'occorrenza, dare consigli”, confermati poi nei rispettivi ruoli con la sentenza di fallimento dell'impresa insolvente del 27 gennaio 2014.

L'accordo di cessione di quest'ultima era stato concluso con le nuove società il 29 gennaio 2014.

L'organizzazione sindacale lamentava che nella procedura di pre-pack fossero assenti la finalità liquidatoria ed il controllo di un'autorità pubblica richiesti dall'art. 5 Direttiva n. 2001/23 per l'operatività della deroga ai diritti dei lavoratori.

La Corte di Giustizia ha invece ritenuto che l'ambito di applicazione di tale norma non è limitato alle imprese la cui attività sia stata definitivamente interrotta prima della cessione o successivamente a quest'ultima, affermando che “l'art. 5, paragrafo 1 implica che un'impresa o una parte di impresa ancora in attività debba poter essere ceduta beneficiando al contempo della deroga prevista in detta disposizione. Così facendo, la direttiva 2001/23 previene il rischio che l'impresa, lo stabilimento o la parte di impresa o stabilimento si svaluti prima che il cessionario rilevi, nell'ambito della procedura fallimentare aperta ai fini della liquidazione dei beni del cedente, una parte del patrimonio e/o delle attività del cedente ritenute redditizie”. La deroga – ha quindi stabilito la Corte – “mira ad evitare il grave rischio di un complessivo deterioramento del valore dell'impresa ceduta o delle condizioni di vita e di lavoro della mano d'opera, che sarebbe in contrasto con le finalità del trattato”.

L'orientamento conforme della giurisprudenza interna: la sentenza della Cassazione n. 24691/2021

Tali principi possono oramai ritenersi consolidati ed applicati anche dalla giurisprudenza nazionale. Lo dimostra la sentenza con cui la Corte di Cassazione, con la sentenza 14 settembre 2021, n. 24691, ha stabilito che la continuazione dell'attività di un'impresa esercente l'attività di trasporto pubblico locale avvenuta in esercizio provvisorio dopo la sentenza di fallimento non è più nella sua piena esplicazione ed è sempre finalizzata all'esclusiva liquidazione dei beni, soddisfacendo quindi i tre requisiti previsti dall'art. 5 par. 1 Direttiva n. 2001/23 e ribaditi dalla Corte comunitaria, e legittimando quindi operazioni concluse con la deroga consentita dal comma 5 dell'art. 47 della legge 428/1990.

Del resto, la sentenza della Suprema Corte applica i princìpi espressi dalla Corte di Giustizia sin dalle prime decisioni in materia: con la sentenza Abels del 7 febbraio 1985 questa aveva già delineato il campo di applicazione della Direttiva affermando che la sua estensione ai casi di trasferimento di imprese in caso di fallimento “potrebbe dissuadere il potenziale cessionario dall'acquisto dell'impresa a condizioni accettabili per la massa dei creditori la quale , in questo caso, sarebbe indotta a vendere separatamente le poste attive dell'impresa”, implicando così “la perdita di tutti i posti di lavoro dell'impresa , in contrasto con l'efficacia pratica della direttiva” (punto n. 21).

La successiva pronuncia del 25 luglio 1991 (caso D'Urso) aveva poi ribadito che le tutele operanti a favore dei lavoratori possono venir meno in mancanza di un provvedimento che stabilisca la continuazione dell'attività dell'impresa o quando la sua validità sia scaduta (punto n. 31).

Aveva, infine, confermato indirettamente tale interpretazione il diverso caso esaminato dalla Corte di Giustizia con la sentenza 7 dicembre 1995, Spano, in cui l'impresa cedente si trovava in stato di crisi dichiarato dal CIPI sulla base di valutazioni d'ordine economico-finanziario sociale subordinatamente alla presentazione di un piano di risanamento comprendente provvedimenti volti a risolvere i problemi dell'occupazione: questa dichiarazione – secondo i Giudici di Lussemburgo – consentiva infatti all'impresa di fruire temporaneamente del trattamento di CIGS per tutti o per parte dei suoi dipendenti e, oltre a non implicare alcun controllo giudiziario, si fondava su una situazione patrimoniale tale da consentire il proseguimento dell'attività produttiva senza significative interruzioni e dalle concrete prospettive di recupero (punti nn. 26 e 27).

Sempre a proposito di pre-pack di diritto olandese: la discutibile sentenza Corte di Giustizia 22 giugno 2017, causa C-126/16.

Se l'interpretazione delle norme della Direttiva 2001/23/CE può ritenersi ormai consolidata tanto in sede comunitaria quanto da parte della giurisprudenza interna, non altrettanto si può dire per la sua applicazione pratica.

Difatti, non è la prima volta che la Corte di Giustizia si pronuncia sulla procedura c.d. di pre-pack di diritto olandese: con sentenza del 22 giugno 2017, causa C-126/16, nell'ambito di una controversia insorta tra un'organizzazione sindacale ed un gruppo di lavoratrici da un lato e la società cessionaria dall'altro, aveva infatti deciso in senso contrario rispetto alla decisione del 2022 rilevando (punto n. 54) che l'operazione non era gestita sotto il controllo del tribunale ma dall'organo amministrativo dell'impresa che aveva condotto le trattative adottando le decisioni in preparazione della vendita dell'impresa in fallimento.

Tale pronuncia desta, tuttavia, qualche perplessità in quanto lo schema seguito nella soluzione della crisi della società insolvente olandese che ha fatto ricorso alla procedura di pre-pack ed è stata poi dichiarata fallita sembra ricalcare quello adottato nel caso deciso dalla sentenza della Corte lussemburghese del 28 aprile 2022.

Conclusioni

In conclusione, si può affermare che l'evoluzione giurisprudenziale mostra una tendenza all'uniformità di princìpi che dovrebbe permettere di affrontare con maggiori certezze i casi pratici, con l'eccezione di quelli più ambigui, come ad esempio il concordato c.d. atipico, nel quale i confini tra continuità e liquidazione non sono sempre facilmente individuabili.

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