Riforma processo civile: l'impatto sul procedimento per convalida di sfratto
22 Novembre 2022
Inquadramento
L'articolo si sofferma sull'intervento operato in sede di riforma del codice di procedura civile, a mezzo del d.lgs. n. 149/2022, sul procedimento per convalida di licenza e sfratto per finita locazione, nell'ottica già individuata dalla legge delega n. 206/2021, recante appunto delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata: legge delega che aveva previsto per un verso l'abrogazione della formula esecutiva e per altro verso l'estensione del procedimento per convalida, limitatamente alla finita locazione, ai contratti di comodato e di affitto di azienda. Due le novità introdotte dalla riforma del processo civile con riguardo al procedimento per convalida di licenza e sfratto, disciplinato dagli artt. 657 ss. c.p.c.: cambia sensibilmente l'art. 657, rendendo il procedimento in questione ancor più invasivo di quanto non sia attualmente; cambia anche l'art. 663, ma qui la modificazione possiede un rilievo assai minore, come subito diremo, tanto da risolversi, in buona sostanza, in un semplice riassetto di carattere burocratico. Partiamo dalla norma di minor impatto. La norma, nell'economia del procedimento per convalida di licenza e sfratto, possiede un rilievo indubbiamente elevato: essa è rubricata «Mancata comparizione o mancata opposizione dell'intimato», e stabilisce, nel testo ancora vigente, che: «Se l'intimato non comparisce o comparendo non si oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto e dispone con ordinanza in calce alla citazione la posizione su di essa della formula esecutiva». Il resto del comma 1 della disposizione, ora, non ci interessa. Ma, come molti dei lettori ricorderanno, la riforma in corso del processo civile, esordita con la legge delega del 2021 e conclusasi con il decreto legislativo di pochi giorni orsono, ha abrogato la previsione della formula esecutiva contenuta nell'art. 475 c.p.c. Secondo quest'ultima disposizione: «Le sentenze e gli altri provvedimenti dell'autorità giudiziaria e gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale, per valere come titolo per l'esecuzione forzata, debbono essere muniti della formula esecutiva, salvo che la legge disponga altrimenti». Si tratta del c.d. «comandiamo», che riproduce la formula contenuta nel comma 3 dello stesso art. 475. Non è senza ragione ritenere che la formula esecutiva sia ― o per meglio dire, ormai, fosse ― un vecchio attrezzo sostanzialmente superfluo: basterà considerare l'opinione del Mortara, il quale poneva in evidenza che l'efficacia esecutiva del titolo discende dalla legge, non certo dalla formula esecutiva. E tuttavia la formula esecutiva una qualche utilità la possiede, sia perché consente l'individuazione dell'unica copia del titolo esecutivo utilizzabile a fini esecutivi, e cioè impedisce una indebita moltiplicazione dei titoli, sia perché è finalizzata ad un controllo preliminare rispetto all'instaurazione del processo di esecuzione forzata. Ed infatti, in dottrina, qualche voce critica sull'indicazione data dalla legge delega in punto di abrogazione della formula esecutiva si era levata. Sta di fatto, che l'art. 1, comma 12, della legge delega n. 206/2021, ha previsto che «Nell'esercizio della delega di cui al comma 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche alla disciplina del processo di esecuzione sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: a) prevedere che, per valere come titolo per l'esecuzione forzata, le sentenze e gli altri provvedimenti dell'autorità giudiziaria e gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale devono essere formati in copia attestata conforme all'originale, abrogando le disposizioni del codice di procedura civile e le altre disposizioni legislative che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva». Il d.lgs. n. 149/2022 ha dunque modificato l'art. 475, Forma del titolo esecutivo giudiziale e del titolo ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale, stabilendo che: «Le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti dell'autorità giudiziaria, nonché gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale, per valere come titolo per l'esecuzione forzata, ai sensi dell'art. 474, per la parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento o stipulata l'obbligazione, o per i suoi successori, devono essere rilasciati in copia attestata conforme all'originale, salvo che la legge disponga altrimenti». Non più apposizione del «comandiamo». Ma, come è intuitivo, l'abrogazione del «comandiamo» ha reso necessari plurimi interventi di coordinamento, diretti a cancellare la previsione della formula esecutiva laddove essa, nell'ambito del codice di rito, era contemplata. Va da sé che il vigente art. 663 c.p.c. ha dovuto essere modificato al fine di eliminare il riferimento alla formula esecutiva. E che l'attuale testo della norma è oggi il seguente: «Se l'intimato non compare o comparendo non si oppone, il giudice convalida con ordinanza esecutiva la licenza o lo sfratto». Un'ulteriore conseguenza della nuova previsione normativa è la fine di una peculiarità assoluta del procedimento per convalida, dal quale si sono in passato originate difficoltà pratiche non indifferenti. La vecchia norma, ancora vigente fino all'entrata in vigore della nuova, al 30 giugno dell'anno prossimo, stabilisce che «il giudice convalida la licenza o lo sfratto e dispone con ordinanza in calce alla citazione l'apposizione su di essa della formula esecutiva»; la nuova norma stabilisce invece che «il giudice convalida con ordinanza esecutiva la licenza o lo sfratto». Nel vecchio sistema, la assoluta peculiarità della disposizione richiamata, atteneva al fatto che l'ordinanza di convalida era apposta, e sottoscritta dal giudice, sull'originale notificato dell'atto di citazione, dovendo essa fare corpo unico con la formula esecutiva da apporre appunto in calce alla citazione notificata ad opera del cancelliere. Si tratta, cioè, ancora per qualche mese, dell'unico caso in cui il provvedimento giudiziario in originale è restituito alla parte, a fronte della regola generale secondo cui i provvedimenti del giudice rimangono agli atti dell'ufficio, e la parte interessata non può che estrarne copia autentica. Ciò comportava conseguenze note ai pratici della materia: c'era cioè il rischio che la citazione convalidata, e con in calce la formula esecutiva, potesse andare persa, nel qual caso non v'era modo di estrarne un'altra copia, ma occorreva ricostruire il titolo attraverso un procedimento che la giurisprudenza aveva escogitato, e che ora sarebbe superfluo rammentare. E c'era anche un altra meno commendevole eventualità: accadeva talora, nel marasma che affliggeva le aule giudiziarie almeno al tempo in cui chi scrive esercitava le funzioni di giudice delle locazioni, che l'originale della convalida sorprendentemente, inspiegabilmente, sparisse dal fascicolo nel corso dell'udienza, di modo che, a conclusione di essa, divenisse materialmente impossibile emettere la convalida, se non a seguito di un rinvio che consentisse di ricostruire il titolo. Con la nuova norma l'ordinanza di convalida segue la regola generale stabilita dal citato art. 475 c.p.c.: l'originale rimane presso l'ufficio, e ai fini dell'esecuzione occorre la copia conforme. Ben più importante è la modifica dell'art. 657 c.p.c., tuttora rubricato: «Intimazione di licenza e di sfratto per finita locazione». Il nuovo testo è il seguente: «Il locatore o il concedente può intimare al conduttore, al comodatario di beni immobili, all'affittuario di azienda, all'affittuario coltivatore diretto, al mezzadro o al colono licenza per finita locazione, prima della scadenza del contratto, con la contestuale citazione per la convalida, rispettando i termini prescritti dal contratto, dalla legge o dagli usi locali. Può altresì intimare lo sfratto, con la contestuale citazione per la convalida, dopo la scadenza del contratto, se, in virtù del contratto stesso o per effetto di atti o intimazioni precedenti, è esclusa la tacita riconduzione». Si rammenta che il testo attuale è il seguente: «Il locatore o il concedente può intimare al conduttore, all'affittuario coltivatore diretto, al mezzadro o al colono licenza per finita locazione…». La prima impressione è di una certa approssimazione: se la norma consente l'impiego del procedimento anche nei riguardi del comodato, che senso ha lasciare intatta non solo la rubrica ma anche il testo della norma che richiama la «finita locazione»? Sarebbe stato uno sforzo eccessivo sostituire la locuzione «finita locazione» con quella «cessazione del contratto per scadenza del termine», o altra equivalente? Ma il punto più significativo non è questo. Il procedimento per convalida è senz'altro una brutta bestia: nella sua genesi esso si presenta quale strumento di tutela avanzata, particolarmente ficcante ed efficace, del diritto di proprietà, dal momento che la locazione è uno degli impieghi più comuni, potremmo dire fisiologici, dei beni di proprietà, quali beni naturalmente fruttiferi, secondo quanto ci insegna l'art. 820, comma 3, c.c.: «Sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Tali sono … il corrispettivo delle locazioni». E, evidentemente, trattandosi di tutelare la proprietà, il legislatore è stato ampiamente capace di creare e disciplinare uno strumento che funziona come una potente arma da guerra. In un sistema processuale in cui la irragionevole durata del processo la fa sovente da padrone, il procedimento per convalida dura tendenzialmente un giorno: all'udienza di convalida, se il conduttore non compare, o comparendo non si oppone, i giochi si chiudono definitivamente con un provvedimento al quale, per di più, la nostra giurisprudenza riconosce autorità di cosa giudicata sostanziale; e non solo, se l'intimato compare e si oppone solo, diciamo così, per cincischiare (se, come dice la norma, l'opposizione non è fondata su prova scritta e non sussistono gravi motivi in contrario), subisce pressocché ineluttabilmente l'ordinanza provvisoria di rilascio di cui all'art. 665 c.p.c., che è un'altra brutta bestia contro la quale c'è ben poco, pressocché nulla da fare. Sicché, la storia del procedimento per convalida, successivamente all'avvento della Costituzione repubblicana ed all'aumentata sensibilità verso il tema del «giusto processo» oggi sancito dall'art. 111 della Carta fondamentale, si è identificata nel costante sforzo della dottrina e della giurisprudenza volto a rendere il procedimento per convalida compatibile con il sistema, anzitutto ponendo in evidenza che, anche in assenza di comparizione od opposizione dell'intimato, non per questo il giudice deve convalidare qualunque cosa gli sia presentata, ma è titolare di una piena cognizione in iure sulla fondatezza della domanda proposta. È proprio su tale premessa che numerose volte, in passato, pur dinanzi alla latitanza dell'intimato, sono state respinte domande di convalida fondate su contratti non riconducibili alla locazione, ma, appunto, al comodato od all'affitto di azienda (basterà rammentare Cass. 3 giugno 1981, n. 3595), ovvero infondate in iure: come nel caso di intimazione di licenza o sfratto per una scadenza anteriore a quella operante ex lege, sulla base della pertinente disciplina speciale locatizia. Nondimeno, una parte della dottrina segnalava in passato «l'opportunità dell'introduzione con una modifica legislativa dell'applicabilità del procedimento anche alla cessazione del comodato (sia esso a tempo o senza determinazione di durata), perché si tratterebbe di un ampliamento razionale, giacché rivolto ad assicurare un rapido procedimento di tutela per situazioni nelle quali la necessità di un processo secondo le regole della cognizione piena ordinaria (sia pure con i criteri di specialità ex art. 447-bis c.p.c.) può non sussistere perché la pretesa del comodante non è contestata ovvero appare opportuno scongiurare tentativi di procrastinare la sua attuazione di fronte a contestazioni prive di fondamento». Chi scrive (Di Marzio-Di Mauro, Il processo locatizio. Dalla formazione all'esecuzione del titolo, Milano, seconda edizione 2011, pag. 123 ss.) aveva invece espresso dubbi sulla condivisibilità di una simile soluzione normativa, sia perché il comodato è sovente nient'altro che un «trucco» volto a sottrarre il rapporto di locazione alla disciplina giuridica dettata dalla legislazione speciale, e certo non è opportuno riservare una simile arma da guerra a chi dissimula la reale natura della locazione per aggirare la normativa cogente, sia perché non appare appropriato ammettere l'azione per convalida con riguardo a quei rapporti di comodato, pur veri e reali, che abbiano ad oggetto una abitazione adibita a casa familiare e che, secondo l'attuale indirizzo della S.C., possono cessare soltanto per bisogno del comodante, secondo il noto responso di Cass., Sez. Un., 21 luglio 2004, n. 13603. La scelta del legislatore è stata invece nel senso di estendere il procedimento per convalida di sfratto per «finita locazione», e peraltro non anche per morosità, non soltanto al comodato, riguardo al quale l'estensione può tutto sommato digerirsi, visto che una morosità in senso tecnico del comodatario, per ovvie ragioni, non è concepibile, ma anche all'affitto d'azienda: e qui non è altrettanto facile comprendere perché l'estensione abbia riguardato soltanto la «finita locazione» e non anche la morosità. Ma, al di là di quest'osservazione, il fatto è che l'affitto d'azienda è un contratto dal contenuto largamente variabile: può trattarsi di un localino con quattro tavoli, una cucina e un po' di stoviglie, destinato ad azienda di ristorazione, e dunque a modesta trattoria, ma può trattarsi anche dell'affitto di un grosso stabilimento industriale, cui accedono una pluralità di rapporti in atto sia con le maestranze che con i fornitori. Ed è quantomeno dubbio che il modello del procedimento per convalida di licenza per finita locazione possa funzionare, nel rispetto del principio del giusto processo, al fine di decidere controversie concernenti rapporti contrattuali di simile complessità. Insomma, è pur vero che l'art. 21 c.p.c. accomuna locazione, comodato e affitto di azienda ai fini della competenza territoriale, in base al criterio del locus rei sitae, per il fatto che si tratta di figure sì eterogenee, ma al tempo stesso prossime l'una all'altra, dal momento che ― almeno normalmente ― contemplano la cessione del godimento (nel caso dell'affitto di azienda anche) di un immobile: normalmente perché, in realtà, non è affatto detto che nell'azienda debba esserci per forza un immobile, giacché azienda può essere anche il camioncino attrezzato per vendere street food; ma un conto è trattare unitariamente locazione, comodato e affitto di azienda ai fini della competenza territoriale, un conto è assoggettarli allo stesso modo al procedimento per convalida per «finita locazione». Curioso è infine che il legislatore abbia messo insieme locazione, comodato e affitto di azienda, lasciando per di più nell'art. 657 c.p.c. affitto a coltivatore diretto, mezzadria e colonia (roba a cui in realtà il procedimento per convalida non si applica affatto, per motivi che ora non è il caso di rammentare), e si sia dimenticato dell'affitto puro e semplice, ossia della locazione di una cosa produttiva, come è il caso dell'affitto di cava di pietra, che ovviamente non è né una locazione, né un affitto di azienda (Cass. 10 gennaio 2008, n. 250), come è in grado di comprendere uno studente del primo anno di giurisprudenza che si sia già un po' addentrato nello studio dell'esame di privato. Conclusione: dopo la riforma fatta per raggiungere i risultati del PNRR il concedente di un furgone che vende salsicce può intimare licenza o sfratto per finita locazione, il concedente di una cava di pietra no. Evviva. |