Il rilevante divario tra deductum e decisum non integra soccombenza reciproca

Cesare Trapuzzano
28 Novembre 2022

Le Sezioni Unite hanno chiarito che nell'ipotesi di rilevante sproporzione tra la somma richiesta con la domanda e quella attribuita con la decisione, non ricorre una soccombenza reciproca ai fini della statuizione sulle spese.
Massima

In tema di spese processuali, l'accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un'unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall'art. 92, secondo comma, c.p.c.

Il caso

Proposta opposizione a precetto, in cui si contestava il quantum dell'importo portato dall'intimazione di pagamento (pari ad euro 5.928,08) – perché asseritamente eccedente rispetto alle somme risultanti dal titolo esecutivo –, dopo lo svolgimento del doppio grado di giudizio, la corte d'appello accertava che l'opposizione era parzialmente fondata, poiché la pretesa creditoria fatta valere doveva ritenersi cristallizzata nell'importo di euro 5.872,08. In sostanza, all'esito dei due giudizi di merito, l'importo precettato risultava decurtato – e quindi l'opposizione fondata –, nei limiti di euro 56,00.

In sede di gravame erano regolate le spese del doppio grado di giudizio e, per l'effetto, la corte d'appello le compensava per un decimo, ponendo i restanti nove decimi a carico del debitore opponente. In conseguenza, quest'ultimo, seppure vittorioso sull'opposizione per soli euro 56,00, era condannato al pagamento, nei confronti degli opposti, della massima parte delle somme liquidate a titolo di compensi ed esborsi.

Avverso la suddetta sentenza l'opponente proponeva ricorso per cassazione, basato su un solo motivo. Segnatamente, con l'unico motivo di ricorso il debitore opponente lamentava sia il vizio di violazione di legge di cui all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. (deducendo la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.), sia il vizio di omesso esame di un fatto decisivo. Nell'illustrazione della doglianza deduceva che la corte d'appello avrebbe violato l'art. 91 c.p.c., avendolo condannato alla rifusione delle spese di lite, in favore delle controparti, nonostante questi dovesse ritenersi la parte vittoriosa. Sicché avrebbe dovuto essere considerato parte vittoriosa, in quanto, all'esito del doppio grado di giudizio, la sua opposizione a precetto era stata comunque accolta, sia pure in misura modesta ed inferiore al richiesto. Le controparti rimanevano intimate.

La questione

Con l'ordinanza interlocutoria del 14 ottobre 2021, n. 28048, la Corte di cassazione ha chiesto che il ricorso fosse rimesso alle Sezioni Unite affinché si accertasse se, in caso di parziale accoglimento della domanda attorea, per un importo di gran lunga inferiore rispetto a quanto richiesto, sia legittimo, all'esito della disposta compensazione in parte qua delle spese di lite, in ragione dell'integrazione del presupposto della soccombenza reciproca, condannare la parte parzialmente vittoriosa alla refusione della quota delle spese non compensata.

A monte, la Corte di legittimità ha posto la questione in ordine all'integrazione di una fattispecie di soccombenza reciproca nell'ipotesi in cui la domanda sia accolta solo in minima parte rispetto a quanto richiesto.

A valle, ha sollevato l'interrogativo sulla possibilità di disporre la condanna alla refusione delle spese di lite, sia pure in parte qua, all'esito della compensazione parziale, a carico della parte che abbia comunque vinto la causa, sebbene in misura di molto inferiore alle pretese inizialmente vantate, in violazione del brocardo victus victori.

In definitiva, rispetto al caso affrontato, ove la domanda sia accolta nei limiti di un decimo a fronte di quanto originariamente richiesto, se sia legittimo compensare le spese per un decimo, ponendo i restanti nove decimi a carico della parte parzialmente vittoriosa, oppure se in questa fattispecie le spese avrebbero potuto, al più, essere compensate – alla stregua dell'integrazione di gravi ed eccezionali ragioni – per nove decimi, ponendo il restante decimo a carico delle parti convenute parzialmente soccombenti.

Le soluzioni giuridiche

L'ordinanza interlocutoria della Sezione semplice

In primis, la Corte regolatrice ha osservato che sulla questione posta dal ricorso si registrano due orientamenti contrapposti.

Secondo un primo orientamento, l'attore che – per ipotesi – abbia chiesto “100”, e si veda accogliere la domanda per “10”, non potrebbe ritenersi “soccombente” per i fini di cui all'art. 91 c.p.c. e, quindi, non potrebbe mai essere destinatario, nemmeno in minima parte, di una condanna alle spese. Ad avviso di questo orientamento, infatti, la riduzione, sia pure sensibile, della somma richiesta con la domanda giudiziale non vale a realizzare il concetto di soccombenza ai fini dell'attribuzione dell'onere delle spese e può, di conseguenza, solo consentire la relativa compensazione totale o parziale (Cass. civ., sez. VI-I, ord. 15 dicembre 2017, n. 30210; sez. I, sent. 23 giugno 2000, n. 8532; sez. lav., sent. 17 marzo 1997, n. 2337; sez. III, sent. 3 marzo 1994, n. 2124; sez. lav., sent. 24 aprile 1987, n. 4012; sez. III, sent. 30 aprile 1979, n. 2513; sez. III, sent. 8 gennaio 1968, n. 46; sez. II, sent. 20 dicembre 1962, n. 3388).

Un secondo orientamento ritiene, invece, che sussista una ipotesi di “soccombenza” in senso tecnico anche quando l'attore abbia formulato una sola domanda, articolata in un unico capo, la quale venga accolta in misura quantitativamente e significativamente inferiore rispetto al richiesto (Cass. civ., sez. III, ord. 22 agosto 2018, n. 20888; sez. I, ord. 24 aprile 2018, n. 10113; sez. III, sent. 22 febbraio 2016, n. 3438; sez. VI-II, ord. 23 settembre 2013, n. 21684; sez. VI-Lav., ord. 30 marzo 2011, n. 7307; sez. III, ord. 21 ottobre 2009, n. 22381; sez. lav., sent. 16 maggio 2003, n. 7716; sez. III, sent. 18 gennaio 1962, n. 77).

Il punto di contrasto, dunque, riguarda l'ipotesi in cui, all'esito del giudizio, si registri un rilevante divario tra deductum e decisum. Mentre alcune decisioni ritengono che ricorra in tal caso un'ipotesi di soccombenza reciproca o “parziale”, altri arresti ritengono che ricorra soltanto un “giusto motivo” ex art. 92 c.p.c. per la compensazione delle spese. L'ovvia conseguenza è che il primo orientamento ammette, nella suddetta ipotesi, non solo la compensazione delle spese, ma anche la condanna dell'attore che abbia formulato una domanda “esosa” alla refusione delle spese in favore della controparte. Il secondo orientamento, invece, ammette, nella suddetta ipotesi, solo la compensazione delle spese, ma non anche, neppure in parte, la condanna della parte che sia risultata vittoriosa in misura inferiore al richiesto.

Ebbene, la Corte di legittimità reputa non soddisfacente l'orientamento che consente la condanna della parte “parzialmente vittoriosa” alla refusione delle spese di lite: sia sul piano dell'interpretazione letterale, sia sul piano dell'interpretazione logica, sia sul piano dell'interpretazione costituzionalmente orientata.

Sul piano dell'interpretazione letterale, ad avviso della Corte, condannare la parte che ha visto accolta la propria domanda, sia pure solo in parte, sarebbe conclusione che trascura il rapporto che la dottrina, da sempre (per l'esattezza, a partire dall'esegesi formatasi sul codice sardo del 1859, rifluito poi nell'art. 370 c.p.c. del 1865 e, quindi, negli artt. 91-92 del vigente codice di rito), ravvisa tra gli artt. 91 e 92 c.p.c., il quale è un rapporto di regola ad eccezione. L'art. 91 c.p.c., infatti, detta la regola generale victus victori; l'art. 92 c.p.c. consente tre deroghe a quella regola, la quale non si applica quando la parte vittoriosa abbia violato il dovere di correttezza, quando vi sia soccombenza reciproca o quando ricorrano “gravi motivi” (quest'ultima ipotesi è quella risultante dall'intervento manipolativo della sentenza della Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77). Il rapporto di regola ad eccezione esistente tra l'art. 91 e l'art. 92 c.p.c. ha per ovvia conseguenza che, venuto meno il presupposto dell'eccezione, risorgerà la regola. Dunque, ove ricorra soccombenza reciproca o parziale ed il giudice decida di compensare le spese solo in parte, l'aliquota di spese che il giudice ritenesse di non compensare resta disciplinata dall'art. 91 c.p.c. Quella, infatti, è la regola generale che deve applicarsi, a meno che non venga disposta la compensazione. L'art. 92 c.p.c. non stabilisce a carico di chi vada posta la parte di spese non compensate per l'ovvia ragione che non aveva bisogno di farlo, dal momento che a tanto provvede l'art. 91 c.p.c.

Sul piano dell'interpretazione logica, reputa il Collegio rimettente non condivisibile l'argomento secondo cui la formulazione di una domanda di condanna eccedente la reale entità del credito costringa il convenuto a sostenere maggiori oneri di difesa, sicché sarebbe iniquo lasciare a carico del convenuto spese causate dall'eccessiva pretesa di controparte. Questa affermazione è contestata, dal punto di vista della logica formale, sotto due diversi aspetti.

In primo luogo, essa trascurerebbe di considerare che – per avviso unanime della dottrina – il diritto al rimborso delle spese non preesiste alla sentenza, ma nasce con essa. Il provvedimento giudiziario non trova quel diritto, ma lo crea: ragione per cui si suol dire che la sentenza è costitutiva dell'obbligo del rimborso. È dunque un'inversione logica chiedersi se, per avventura, prima della sentenza la parte soccombente abbia sostenuto spese che una diversa condotta della parte vittoriosa le avrebbe potuto risparmiare. Il credito di rimborso sorge, infatti, solo con la sentenza e solo a favore della parte vittoriosa, il che esonera il giudice dal chiedersi se e cosa abbia speso la parte soccombente, in quanto la legge non consente che tre alternative: la condanna integrale del soccombente; la condanna parziale del soccombente (con compensazione parziale per la frazione restante); la compensazione integrale. Ed in tutte queste ipotesi resta irrilevante stabilire cosa abbia speso il soccombente per remunerare il proprio difensore.

In secondo luogo, la tesi secondo cui la formulazione di una domanda di condanna eccedente la reale entità del credito costringa il convenuto a sostenere maggiori oneri di difesa (e dunque giustificherebbe la condanna della parte vittoriosa alla refusione delle spese) non appare persuasiva dal punto di vista dell'interpretazione logica, perché attua un'indebita commistione, sovrapponendo due piani: quello delle spese di soccombenza (cioè le spese che la parte soccombente deve rifondere al vincitore) e quello delle spese di resistenza (cioè le spese che la parte soccombente ha sostenuto per contrastare l'iniziativa giudiziaria avversa). Ma le une e le altre delle suddette spese non interferiscono tra loro. Per stabilire se e chi debba pagare le spese di soccombenza dovute alla parte vittoriosa è irrilevante chiedersi quanto abbia speso il soccombente per remunerare il proprio difensore, per quattro ragioni. A) La prima ragione è che la nostra legge, agli artt. 91-92 c.p.c., si occupa solo delle spese di soccombenza, ma si disinteressa delle spese di resistenza. B) La seconda ragione si sostanzia nel rilievo secondo cui, con riferimento alle spese di soccombenza, nel caso di domanda di condanna risultata eccessiva, il soccombente è tutelato dal principio per cui le spese dovute alla parte vittoriosa vanno liquidate in base al decisum e non in base al disputatum (art. 5, primo comma, quarto periodo, d.m. 10 marzo 2014, n. 55). Sicché, rispetto a queste spese, una domanda quantitativamente esagerata non sortisce affetto alcuno sulla misura della condanna a carico del soccombente. C) La terza ragione è desumibile dal fatto che l'onere sostenuto dal convenuto per remunerare il proprio difensore non potrebbe mai giustificare la condanna alle spese della parte vittoriosa, in quanto delle due l'una: o l'eccessività della pretesa attorea era evidente, oppure no. Se l'eccessività era evidente, il soccombente è tutelato (rispetto alle pretese del proprio difensore) dall'art. 5, secondo comma, d.m. n. 55 del 2014, a norma del quale “nella liquidazione dei compensi a carico del cliente si ha riguardo (...) al valore effettivo della controversia quando risulta manifestamente diverso da quello presunto”. Se invece l'eccessività della pretesa attorea non era evidente, a fortiori la parte vittoriosa non potrebbe mai essere condannata alle spese: sia perché in questo caso i “maggiori oneri” sostenuti dal convenuto non potrebbero dirsi inutili; sia perché mancherebbe la colpa dell'attore (per chi ne ammette la rilevanza in tema di spese giudiziali); sia perché mancherebbe la causalità tra l'iniziativa attorea e i suddetti “maggiori oneri”. D) In base alla quarta ragione, potrebbe risultare velleitario pretendere di distinguere, a fronte di una domanda attorea accolta solo in parte, gli “oneri” (quelli che il convenuto avrebbe dovuto comunque sostenere), dai “maggiori oneri” (quelli, cioè, che il convenuto ha dovuto affrontare solo a causa della esosità della pretesa attorea). Ed anche ad ammettere che questa operazione fosse possibile in concreto, essa non appare coerente col principio, affermato dalle Sezioni Unite, secondo cui le prorompenti esigenze di semplificazione dello svolgimento del processo ed il principio di ragionevole durata di cui all'art. 111, secondo comma, Cost. impongono alla Corte di cassazione di fornire al giudice di merito “soluzioni snelle”, specie nelle situazioni “che recano in se stesse il germe dell'inevitabile approssimazione della statuizione giudiziale” (Cass. civ., sez. un., sent., 16 luglio 2008, n. 19499). E certamente non potrà dirsi “soluzione snella” e di pronta applicazione quella che imponga al giudice di merito, al fine di stabilire se l'attore parzialmente vittorioso possa essere condannato alle spese, di soppesare con certosina acribia se e quanta parte delle spese sostenute dal convenuto siano state necessità della “eccedente pretesa” attorea.

Infine, l'orientamento che ammette la possibilità di condannare la parte vittoriosa alle spese, nel caso di rilevante divario tra deductum e decisum, secondo il Collegio, adotta un'interpretazione dell'art. 92 c.p.c. che non sembra perfettamente compatibile con l'art. 24 Cost. Quell'orientamento, infatti, a ben vedere, si fonda sul seguente sillogismo: se la vittoria dell'attore è “parziale”, ciò vuol dire che la parte vittoriosa è anche parzialmente soccombente; se l'attore è parzialmente soccombente, per converso la controparte sarà parzialmente vittoriosa sul punto di domanda non accolto; ergo, è giusto ed equo che l'attore possa essere condannato alle spese. Sennonché ciò rischia di integrare un paralogismo, in cui l'errore sta in ciò: equiparare inammissibilmente la posizione dell'attore e quella del convenuto. Il creditore insoddisfatto non potrebbe ottenere il pagamento di quanto a lui dovuto, se non virtù di un provvedimento giudiziario. Egli, di conseguenza, è obbligato a ricorrere al giudice per tutelare le proprie ragioni. Per contro, il debitore che si veda richiedere un importo superiore al dovuto, non è obbligato a ricorrere al giudice per tutelare le proprie ragioni. Egli potrà attendere supinamente che sia il creditore a farlo; e comunque avrà sempre la possibilità di adempiere spontaneamente la parte di obbligazione che ritiene dovuta; oppure di evitare gli effetti della mora attraverso l'offerta formale. Ché se poi, nonostante ciò, il creditore insistesse nella propria pretesa, l'eventuale giudizio da questi introdotto si concluderà con un rigetto totale, e non parziale, della domanda attorea: e nessun problema potrebbe sorgere sulla regolazione delle spese. Questa differenza impedisce di accomunare la posizione dell'attore parzialmente vittorioso a quella del convenuto parzialmente soccombente. Pertanto, quando – all'esito del giudizio – la domanda attorea fosse accolta solo in parte, non sembra corretto discorrere di una “soccombenza prevalente” e una “soccombenza minusvalente”. Ciò a cui occorre unicamente badare è la sussistenza della necessità per il creditore di ricorrere al giudice per l'affermazione del proprio diritto. Se quel diritto non poteva essere realizzato se non per il tramite della sentenza, le spese potranno al massimo essere compensate, ma non potranno essere addossate all'attore, in quanto – e questo è il punto di caduta del ragionamento –, se così non fosse, l'interpretazione qui contestata dell'art. 92 c.p.c. diverrebbe una coazione indiretta ad astenersi dall'esercitare il proprio diritto in tutti i casi in cui il costo della lite dovesse superare il valore di essa, con conseguente dubbia compatibilità della norma con l'art. 24 Cost. Ed infatti la condanna alle spese, per quanto detto, costituisce un complemento essenziale della garanzia costituzionale del diritto di azione. Diritto che resterebbe vuota formula, se l'attore vittorioso fosse esposto al rischio non solo di farsi carico dei costi del processo, ma addirittura di essere condannato a rifondere le spese della controparte: un esito, prima che da sempre aborrito dai giuristi, deriso finanche dal Poeta, allorché chiosò che in tali casi discedat tristior, ille qui vicit.

La Corte di cassazione ha espresso un'ultima considerazione. La dottrina pressoché unanimemente, già a partire dalla fine del XIX sec., ha costantemente segnalato taluni abusi della giurisprudenza nell'interpretazione delle norme sulla regolazione delle spese. Vuoi in eccesso (ad esempio, liquidando spese in misura elevata come strumento “punitivo” extra ordinem per la parte che ha sostenuto ragioni manifestamente infondate); vuoi in difetto (ad esempio, ricorrendo all'istituto della compensazione anche in assenza di gravi motivi, vuoi per maltalento, vuoi per calcolo inteso a dissuadere i litiganti dal proseguire la lite). Queste tendenze giurisprudenziali, quale che fosse la loro condivisibilità, hanno avuto tutte per effetto l'allargamento della discrezionalità del giudice nella regolazione delle spese di lite. Anche l'interpretazione dell'art. 92 c.p.c. qui contestata, secondo cui sarebbe possibile condannare la parte parzialmente vittoriosa alla refusione delle spese in favore della controparte, è una interpretazione che allarga l'area della discrezionalità del giudicante, attribuendogli poteri valutativi insindacabili in sede di legittimità e di sconfinata latitudine: quale sia la soccombenza prevalente; di quanto la soccombenza debba dirsi “prevalente” per poter condannare la parte vittoriosa alle spese; quanti siano i “maggiori oneri” che la parte attrice, con la sua pretesa esagerata, ha costretto il convenuto a sostenere; quale rapporto causale esista tra l'iniziativa attorea ed i suddetti “maggiori oneri”. Ma in subiecta materia interpretazioni intese ad allargare l'area della discrezionalità del giudicante non sembrano oggi più sostenibili. Esse infatti collidono col principio di ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost., nella misura in cui rendono più aleatorio ed imprevedibile l'esito del giudizio, e di conseguenza fomentano l'introduzione del giudizio o la resistenza ad esso.

La sentenza delle Sezioni Unite

Pronunciandosi sulle questioni poste, anzitutto, la Corte ha negato che la compensazione possa essere ricondotta ad una dimensione residuale ed eccezionale. Infatti, il carattere tutt'altro che inderogabile del principio di soccombenza è stato evidenziato anche da parte della dottrina, la quale, nell'individuarne la ratio nell'esigenza di evitare che il processo vada a detrimento di chi ha ragione, e quindi di assicurare alla parte vittoriosa la restituzione di un diritto pienamente integro anche sotto il profilo economico, ha segnalato l'esistenza di una serie di ipotesi in cui la sua applicazione non potrebbe trovare una ragionevole giustificazione. In quest'ottica, si è affermata, per un verso, la natura indennitaria della condanna alle spese, non riconducibile ad una condotta illecita della parte a carico della quale viene pronunciata, ma al dato obiettivo della soccombenza, e quindi svincolata dalla valutazione dell'elemento soggettivo, che può dar luogo invece alle conseguenze risarcitorie previste dall'art. 96 c.p.c. Per altro verso, si è osservato che il principio in esame non è riferibile a quei casi in cui il ricorso al giudice risulta inevitabile per la parte che intenda ottenere determinati effetti, pur in presenza dell'adesione della controparte alla pretesa azionata, o comunque della mancata contestazione del diritto al conseguimento del provvedimento richiesto. Sono state richiamate, in proposito, oltre all'ipotesi della condanna alle spese del contumace e alle azioni costitutive necessarie, quella del giudizio di divisione, in cui le spese sono poste a carico della massa o di ciascuno degli eredi, quella del giudizio di verificazione delle scritture, ove la domanda sia proposta in via principale, quella dell'estinzione del processo per inattività delle parti, in cui le spese restano a carico delle parti che le hanno anticipate, quella della rinuncia agli atti, in cui le spese restano a carico del rinunciante, e quella del processo di esecuzione, in cui le spese sono poste a carico del debitore, pur in assenza di una controversia in ordine all'esistenza del diritto azionato.

La S.C. ha, al riguardo, richiamato le ricostruzioni di un filone della dottrina, che proprio alla stregua dell'enucleazione di siffatte ipotesi ha individuato il fondamento della condanna alle spese in un principio più generale, quello di causalità, in virtù del quale i costi del processo devono essere fatti gravare, in definitiva, sulla parte che avrebbe potuto evitare la lite e che invece vi ha dato causa.

Tale principio, del quale il criterio della soccombenza costituirebbe soltanto un'applicazione o un indice rivelatore, implica una valutazione della condotta tenuta dalla parte sia prima che nell'ambito del processo, al fine di verificare se la stessa vi abbia dato origine, lasciando insoddisfatta una pretesa della quale sia stata poi accertata la fondatezza o azionando una pretesa della quale sia stata riconosciuta l'infondatezza, o ne abbia prolungato la durata, resistendovi in forme o con argomenti non conformi al diritto.

In quest'ottica, pur dovendosi escludere il carattere eccezionale della compensazione, non limitata ad ipotesi tassativamente previste ma riferibile anche ad altre situazioni la cui valutazione è rimessa alla discrezionalità del giudice, la Corte di legittimità non ha condiviso l'ampia applicazione del principio di causalità propugnata dall'orientamento giurisprudenziale che ritiene ammissibile la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali, nonostante il parziale accoglimento della domanda. Se è vero, infatti, che nel nostro ordinamento processuale coesistono criteri diversi di regolamentazione delle spese di lite, non tutti improntati al principio di soccombenza e destinati a far fronte a situazioni diverse, è anche vero, però, che al di fuori di tali ipotesi torna a trovare applicazione la regola generale, la quale esige che a sopportare le spese del processo sia colui che, come affermato da un'autorevole dottrina, risulta vinto nella lotta giudiziale: e tale è indubbiamente anche la parte che, pur avendo agito o resistito in giudizio con argomentazioni ritenute parzialmente fondate dal giudice, abbia visto accogliere, sia pure in misura ridotta, quelle della controparte.

In tal senso depone chiaramente l'insistenza del Giudice delle leggi sulla «gravità ed eccezionalità» delle ragioni richieste ai fini della compensazione, nonché il rilievo circa il rischio che la prospettiva di una condanna alle spese possa scoraggiare la parte che ha ragione dal far valere in giudizio i propri diritti, con conseguente menomazione del diritto alla tutela giurisdizionale, garantito dagli artt. 24 e 111 Cost.

In senso contrario ad un'ampia operatività del principio di causalità, è stata peraltro sottolineata anche l'opinabilità degli esiti di una valutazione estesa al comportamento preprocessuale delle parti, in ordine al quale il giudice dispone per lo più d'informazioni sommarie ed incomplete, tali da impedire o da rendere comunque estremamente difficoltosa l'individuazione della parte che, al di là del torto o della ragione riconosciuta dal provvedimento che risolve la lite, vi ha dato effettivamente causa, ingiustificatamente insistendo in una pretesa poi rivelatasi parzialmente infondata o resistendo ad una pretesa poi risultata parzialmente fondata.

Il Giudice di legittimità ha, d'altronde, rilevato che, in buona parte delle ipotesi prese in considerazione dalla dottrina a sostegno della ritenuta operatività di criteri diversi da quello della soccombenza, l'inapplicabilità di quest'ultimo trova giustificazione proprio nella difficoltà di individuare una parte vittoriosa, a causa della mancata adozione di una pronuncia sul merito della controversia.

Al di là di tali obiezioni, ciò che non convince, nell'orientamento che ritiene ammissibile la predetta condanna, è la stessa nozione di soccombenza reciproca, ritenuta comprensiva non solo dell'ipotesi in cui siano state avanzate una pluralità di domande contrapposte o anche solo una domanda articolata in una pluralità di capi, ma anche di quella in cui sia stata proposta un'unica domanda, accolta in misura sensibilmente ridotta: e ciò sia in considerazione della valenza semantica generalmente attribuita all'aggettivo «reciproca», la cui utilizzazione da parte del legislatore evoca una pluralità di azioni rivolte in direzione opposta tra i medesimi soggetti, sia in ragione della difficoltà di accomunare, sotto il profilo concettuale, la soccombenza che giustifica la condanna alle spese a quella che legittima la parte all'impugnazione della decisione.

Un ruolo determinante, in senso contrario a tale assimilazione, è stato attribuito alla diversità del parametro da adottare come riferimento ai fini della relativa valutazione, costituito, nel secondo caso, dal mancato accoglimento ad opera del provvedimento impugnato anche soltanto di alcune delle istanze proposte dalla parte, e nel primo dall'esito complessivo della lite, comprendente anche le istanze eventualmente accolte o rigettate nei precedenti gradi di giudizio: significativa, al riguardo, è la circostanza che la riforma o la cassazione anche parziale della decisione impugnata comporti la caducazione della statuizione relativa alle spese processuali, imponendo la totale rinnovazione del relativo regolamento, ai fini del quale occorre tenere conto anche delle predette istanze.

Sotto il profilo pratico, infine, l'orientamento in discussione – ad avviso della Corte – presenta difficoltà applicative di non scarso rilievo, risultando tutt'altro che agevole tanto l'individuazione in concreto della misura, astrattamente definita «sensibile», oltre la quale la soccombenza unilaterale è destinata a trasformarsi in soccombenza reciproca, quanto la determinazione dei maggiori oneri processuali che la parte resistente ha dovuto sopportare a causa della parziale infondatezza della pretesa avanzata dalla controparte. Impraticabile è stata ritenuta, a tal fine, l'operazione di ideale imputazione ipotizzata da una delle pronunce richiamate (Cass. civ., sez. III, 22 febbraio 2016, n. 3438), la quale, oltre a presupporre la possibilità di distinguere, tra gli oneri sopportati dalla parte, quelli sostenuti per avanzare pretese fondate o per resistere a pretese infondate da quelli sopportati per aver avanzato pretese infondate o per aver resistito a pretese fondate, si pone in contrasto con la natura stessa della compensazione prevista dall'art. 92 c.p.c.: poiché, infatti, l'obbligo di rifondere le spese processuali non preesiste alla sentenza che definisce il processo, ma sorge soltanto a seguito della stessa, che individua la parte tenuta a sopportarne il carico e ne determina anche la misura, l'istituto in esame non è in alcun modo assimilabile a quello disciplinato dagli artt. 1241 e ss. c.c., il quale postula invece la coesistenza di reciproche ragioni di credito e di debito, suscettibili di estinzione per quantità corrispondenti, ma deve essere inteso più propriamente come esclusione totale o parziale della ripetibilità delle spese processuali, che non richiede affatto la predeterminazione di quelle dovute a ciascuna delle parti.

Preferibile è stata, dunque, considerata la conferma dell'opposto indirizzo, che circoscrive la fattispecie della soccombenza reciproca all'ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, ritenendola configurabile anche in presenza di un'unica domanda articolata in più capi, dei quali soltanto alcuni siano stati accolti, ed escludendola invece nel caso in cui sia stata proposta una domanda articolata in un unico capo, il cui accoglimento, anche in misura sensibilmente ridotta, non consente la condanna della parte risultata comunque vittoriosa al pagamento delle spese processuali, potendone giustificare, al più, la compensazione totale o parziale.

Tale orientamento, infatti, oltre a risultare maggiormente conforme alla disciplina dettata dal codice di rito, orientata in senso favorevole ad una limitazione della discrezionalità spettante al giudice in materia di regolamentazione delle spese processuali, prospetta una regola di facile e pronta applicazione, idonea a garantire il pieno dispiegamento del diritto alla tutela giurisdizionale, evitando, nel contempo, incertezze operative foriere d'impugnazioni limitate alle spese, in linea con il principio di ragionevole durata del processo, sancito dall'art. 111, secondo comma, Cost., che impone di preferire, per quanto possibile, soluzioni mirate al contenimento delle fasi e dei tempi del giudizio.

Osservazioni

In ordine al quesito posto, relativo al riconoscimento della possibilità che, in caso di accoglimento parziale della domanda attorea, con una declaratoria dinamica di condanna significativamente più contenuta rispetto alla misura statica della domanda avanzata – e quindi con un consistente divario tra deductum e decisum –, la parte attrice parzialmente vittoriosa possa essere condannata al refusione delle spese di lite per la quota non compensata, in ragione dell'integrazione del presupposto della soccombenza reciproca o parziale, le Sezioni Unite hanno sancito due regole: 1) la condanna, seppure per un importo consistentemente ridotto rispetto al quantum della pretesa inizialmente avanzata, non integra un'ipotesi di soccombenza reciproca; 2) in questi casi, ove sia disposta la compensazione parziale delle spese per l'integrazione di gravi ed eccezionali ragioni, la quota non compensata di tali spese non può comunque essere posta a carico della parte che ha vinto la causa, seppure in misura più contenuta rispetto alle richieste originariamente articolate.

Ora, secondo l'impostazione più recente della giurisprudenza di legittimità, l'ipotesi della “soccombenza reciproca” sarebbe stata integrata allorché fosse sussistita una pluralità di pretese contrapposte, rigettate dal giudice a discapito di entrambe le parti. É stato altresì attribuito valore, ai fini del riparto delle spese, alle attività rispettivamente poste in essere non solo dall'attore, in termini di formulazione della pretesa, ma anche dal convenuto, in termini di (eventuale) contestazione di essa. In passato, si tendeva, invece, ad escludere che sussistesse reciproca soccombenza allorché una parte avesse resistito ad una domanda avversaria eccessiva, solo in parte risultata fondata: in questi casi si argomentava in termini di soccombenza integrale, sebbene il quantum delle spese fosse determinato, non già in base agli scaglioni desumibili dal deductum, ma sulla scorta dell'entità del decisum, con la eventuale disposizione della compensazione per giusti e, successivamente, per gravi ed eccezionali motivi.

In giurisprudenza, prima dell'intervento dirimente delle Sezioni Unite, si era assestato un orientamento minoritario che circoscriveva il campo di applicabilità della reciprocità alla presenza di una pluralità di domande, escludendola nel caso di domanda unica, accolta solo in parte (Cass. 19 ottobre 2015, n. 21083; Cass. 21 ottobre 2009, n. 22381; Cass. 26 maggio 2006, n. 12629). Ma l'orientamento maggioritario era nel senso di ravvisare la reciproca soccombenza sia nell'ipotesi di pluralità di domande, formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia nell'ipotesi di accoglimento parziale dell'unica domanda proposta, tanto quando questa fosse stata articolata in più capi, dei quali soltanto alcuni fossero stati accolti, quanto nel caso in cui fosse stata articolata in un unico capo e la parzialità avesse riguardato la misura solo quantitativa dell'accoglimento (Cass. 21 gennaio 2020, n. 1268; Cass. 22 agosto 2018, n. 20888; Cass. 24 aprile 2018, n. 10113; Cass. 21 dicembre 2016, n. 26565; Cass. 22 febbraio 2016, n. 3438; Cass. 8 febbraio 2016, n. 2492; Cass. 13 gennaio 2015, n. 281; Cass. 23 settembre 2013, n. 21684).

Pertanto, l'orientamento maggioritario individuava la soccombenza reciproca sia nell'ipotesi di pluralità di domande, rigettate o accolte dal giudice a svantaggio di entrambe le parti, sia nell'ipotesi di domanda parzialmente accolta. In particolare, si affermava che sarebbe stata integrata soccombenza reciproca nelle seguenti quattro ipotesi: A) quando la stessa parte avesse proposto più domande, delle quali solo alcune accolte; B) quando entrambe le parti avessero proposto più domande contrapposte, ossia ciascuna contro l'altra, e solo alcune di queste fossero state accolte, ovvero fossero state accolte sia le domande principali proposte dall'attore contro il convenuto, sia le domande riconvenzionali proposte dal convenuto contro l'attore; C) quando la parte avesse proposto la domanda in più capi e solo alcuni di questi capi fossero stati accolti; D) quando la parte avesse proposto una domanda accolta solo parzialmente, anche in senso meramente quantitativo.

Ebbene, la Corte – pur escludendo il carattere eccezionale della disposizione della compensazione delle spese – ha escluso che ricorra soccombenza reciproca nel caso di condanna al pagamento di una somma di molto inferiore a quella richiesta, facendo applicazione del principio di causalità.

In tale evenienza il convenuto è comunque soccombente in quanto vinto nella lotta giudiziale: infatti, tale parte, pur avendo agito o resistito in giudizio con argomentazioni ritenute parzialmente fondate dal giudice, ha visto accogliere, sia pure in misura ridotta, quelle della controparte.

Il punto dolente della precedente ricostruzione si riscontrava con riferimento ai giudizi per pagamento di somme di denaro o liquidazione di danni, allorché l'unica domanda proposta fosse stata accolta solo in parte, con un significativo divario tra deductum e decisum, idoneo ad incidere sugli scaglioni rilevanti per l'applicazione dei parametri di quantificazione dei compensi di lite.

In questa ipotesi, l'esclusione della soccombenza reciproca – alla luce del principio nomofilattico sancito – legittima la condanna integrale alla refusione delle spese di lite, ricavando i parametri forensi applicabili dal valore effettivo della controversia piuttosto che dal valore dichiarato, secondo la previsione di cui all'art. 5, primo comma, quarto periodo, del d.m. 10 marzo 2014, n. 55 (vedi l'omologa previsione di cui al d.m. 13 agosto 2022, n. 147): in tale evenienza, si ha riguardo, di norma, alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata, ai fini della determinazione del valore della controversia da cui desumere i parametri applicabili in relazione alle fasi del giudizio (di studio, introduttiva, di trattazione e/o istruttoria, decisoria). E in ogni caso si ha riguardo al valore effettivo della controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando risulta manifestamente diverso da quello presunto ex art. 14 c.p.c., nel caso in cui la domanda di condanna non indichi l'importo preteso.

Ma vi è di più.

In ogni caso, non può essere disposta la condanna alla refusione delle spese di lite, neanche pro quota, a carico della parte che ha vinto la causa, seppure questa si sia vista riconoscere una somma inferiore a quella domandata.

In definitiva, se la domanda sia volta ad ottenere la condanna nella misura di “100” e sia accolta nei limiti dell'importo di “10”, non ha senso ragionare in termini di soccombenza reciproca. Piuttosto, in tale caso la soccombenza dovrà essere valutata avendo riguardo ai parametri determinati sulla scorta del decisum (ossia di “10”) e non del deductum (ossia di “100”). A fronte del decisum vi è, infatti, soccombenza integrale. La possibilità di disporre la compensazione, in parte qua, per gravi motivi rimane praticabile, allorché il passaggio dal deductum e al decisum non importi uno slittamento di scaglioni, poiché la pretesa rimane comunque circoscritta al medesimo scaglione anche a fronte della sua delimitazione quantitativa.

Così, ove l'attore abbia chiesto il pagamento di euro 100.000,00, ma il giudice abbia riconosciuto la fondatezza della pretesa limitatamente ad euro 5.000,00, basterà disporre la condanna integrale alle spese sulla scorta del riferimento al decisum (secondo lo scaglione che va da euro 1.100,00 ad euro 5.200,00). Una facoltà di compensazione parziale potrebbe attuarsi, invece, allorché la riduzione della somma spettante non determini uno slittamento di scaglione (ove, a titolo esemplificativo, l'attore abbia chiesto euro 520.000,00 ed il giudice abbia riconosciuto euro 261.000,00).

Tanto premesso, la Corte regolatrice evidenzia che, ove nella fattispecie emarginata si ragioni in termini di soccombenza per gravi motivi (e non già reciproca) e all'esito si disponga la compensazione parziale delle spese, la parte di spese non compensata dovrà comunque essere posta a carico del convenuto, avendo l'attore vinto la causa ai sensi dell'art. 91 c.p.c., seppure in misura inferiore rispetto a quanto richiesto.

E ciò perché l'art. 91 c.p.c. esprime una regola di natura qualitativa, non già quantitativa, stabilendo che la parte che ha vinto la causa, non importa in che misura, non può essere condannata alla refusione delle spese di lite, fatta salva l'ipotesi ivi regolata del rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa.

A fronte della regola intangibile sull'an della soccombenza, la previsione di cui all'art. 92, secondo comma, c.p.c. consente la mera compensazione parziale non paritaria (evidentemente, nel caso di compensazione totale, un problema residuale di condanna alle spese non si pone) in caso di gravi motivi.

Ma la graduazione della soccombenza (ossia il quantum) non può scalfire il principio secondo cui la quota di spese non compensata non può essere rifusa dal vincitore. La condanna al pagamento della “maggior quota differenziale”, a carico della parte che ha dato causa in misura prevalente agli oneri processuali, determina, infatti, un'indebita commistione tra piani non sovrapponibili: il piano dell'an e il piano del quantum della soccombenza. Cosicché ove sia proposta una domanda di condanna al pagamento della somma di “100” e l'accoglimento sia avvenuto nei limiti della somma di “10”, la possibile compensazione per gravi motivi giustifica la compensazione delle spese per 9/10, con condanna del convenuto al pagamento delle spese nei limiti di 1/10 in favore dell'attore, non già la compensazione per 1/10 e la condanna dell'attore alla refusione dei residui 9/10 in favore del convenuto. E ciò sempre che la differenza tra quanto richiesto e quanto ottenuto non importi uno slittamento delle tariffe parametriche applicabili (il che integra un'ipotesi di compensazione di fatto).

La condanna alle spese della parte parzialmente vittoriosa contrasta con l'interpretazione letterale, logica e costituzionalmente adeguata del combinato disposto degli artt. 91 e 92 c.p.c. per le convincenti motivazioni esposte nella pronuncia in commento.

In specie, avuto riguardo al principio di causalità delle spese, la pronuncia esalta correttamente la condizione di asimmetria in cui versano le parti ove la pretesa giudiziale fatta valere si riveli ex post fondata solo in parte qua: e tanto perché l'attore non può esimersi dall'agire in giudizio per ottenere la soddisfazione della sua pretesa, quand'anche solo parzialmente fondata; il convenuto, invece, può paralizzare l'azione giudiziale offrendo l'adempimento spontaneo nei limiti di quanto ritenuto dovuto. Laddove ciò non abbia fatto, ha comunque concorso nel rendere necessario il giudizio, quantomeno nei limiti della frazione di pretesa rivelatasi fondata, ed entro tali limiti almeno la quota differenziale delle spese di lite deve essere posta a suo carico.

Riferimenti
  • L.P. Comoglio, Nostalgia dei «giusti motivi», in Riv. dir. proc., 2020, 3, 953 ss.
  • F. Cordopatri, Un principio in crisi: victus victori, in Riv. dir. proc., 2011, 2, 265 ss.
  • M. Di Marzio, Compensazione per soccombenza reciproca? Può essere disposta anche in caso di accoglimento parziale della domanda, in Ilprocessocivile.it, 10 gennaio 2017;
  • A. Renzi, Spese giudiziali - soccombenza reciproca per accoglimento parziale nel quantum della domanda in unico capo e compensazione delle spese, in Giur. it., 2016, 11, 2391 ss.
  • F. Valerio, L'accoglimento parziale della domanda implica soccombenza (parziale) dell'attore: spese di lite compensate, in Dir. & Giust., 2016, 10, 21 ss.

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