Abuso di diritto: recenti frontiere interpretative della Cassazione
01 Dicembre 2022
Premessa
Un momento fondamentale nell'esegesi dell'istituto giuridico in questione è rappresentato dalla riforma del 2015 con la quale il legislatore fiscale ha, per la prima volta, assunto una posizione espressa in ordine alla necessita non più prorogabile di colmare il vuoto preesistente al fine di arginare l'inaccettabile arbitrarietà alla quale prestava il fianco.
Con l'introduzione nel c.d. “Statuto del contribuente” del nuovo art. 10-bis, in quest'ottica, non è stata fornita una peculiare definizione della nozione di abuso del diritto relativa alla sola materia tributaria ma sono stati delineati gli specifici presupposti applicativi ed il relativo regime sanzionatorio.
Da ultimo, si prenderà in esame la recente sentenza della Cassazione del 22 settembre 2022, n. 27709, la quale fornisce ulteriori elementi interessanti in materia di onere della prova della condotta elusiva e di evidenze richieste alle parti a sostegno delle proprie dichiarazioni. Sul punto si tenga presente che, conformemente a quanto stabilito dalla giurisprudenza di legittimità, all'Amministrazione finanziaria basterà dimostrare l'esistenza di un accordo dirimente tra le parti che colleghi tutte le singole operazioni poste in essere al fine di provare la condotta abusiva, senza che da ciò ne derivi un ulteriore onere per l'Agenzia delle Entrate a dimostrazione della preordinazione del disegno criminoso. La nozione di abuso di diritto sul piano tributario
La definizione di abuso di diritto sul piano tributario ha trovato precipuo collocamento nel dispositivo dell'art. 10-bis, introdotto con il d.lgs. del 5 agosto 2015, n. 128 – disciplinante, nello specifico, i rapporti tra fisco e contribuente – e confluito nel c.d. “Statuto del contribuente” (l. 27 luglio 2000, n. 212).
Si tratta di una norma che è giunta tardivamente nell'ordinamento giuridico italiano, dietro impulso di una cospicua parte della dottrina e di una giurisprudenza orientata in tal senso, sia nazionale che europea. Sul piano civilistico, i codificatori del 1942 optarono per l'estromissione del concetto di abuso dalla rassegna delle categorie giuridiche generali, in quanto ritenuto eccessivamente vago, intrinsecamente mutevole e, perciò, inidoneo a soddisfare la preminente esigenza di certezza del diritto. Da tale assunto ne è derivata una considerevole attività interpretativa sull'abuso in questione rimessa unicamente alla sensibilità dei giudici via via coinvolti, priva del carattere dell'uniformità e rivelatrice di una vistosa lacuna normativa nell'ordinamento italiano.
Il nuovo art. 10-bis ha sovvertito sul piano fiscale le sorti del concetto di abuso, tracciando con chiarezza i confini della sua operatività e conferendo certezza al relativo regime sanzionatorio. Secondo quanto disposto al primo comma del suddetto articolo, per “abuso del diritto” deve intendersi “una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.
Nello specifico, si identificano come “operazioni prive di sostanza economica” tutti quei “fatti, atti e contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell'utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato”. Si precisa, altresì, che tali operazioni non sono opponibili a fini fiscali, per cui il tributo dovuto verrà rideterminato dall'Amministrazione finanziaria “sulla base delle norme e dei principi elusi”. Dalla lettera della norma è possibile constatare che non è richiesta alcuna violazione legislativa in senso formale ai fini dell'applicazione della disciplina prevista, quanto piuttosto, la condotta abusiva si esplica mediante un'alterazione dello schema formale del diritto, da cui ne derivano vantaggi ulteriori e diversi da quelli indicati dal Legislatore. Pur dovendosi riscontrare un'apparente osservanza dei modelli legali prospettati, il comportamento abusivo è integrato in quanto la specie, la natura e le finalità delle operazioni realizzate – tenuto conto, altresì, delle loro reciproche connessioni – comportano in sostanza il conseguimento di un risparmio d'imposta indebito, ossia non giustificato economicamente (sul punto, si veda Comm. Trib. Reg. Lombardia, Sez. 31, n. 91/31/2013 del 5 luglio 2013).
In altri termini, ben si può affermare che il nuovo art. 10-bis ha essenzialmente orientato il concetto di abuso del diritto nella individuazione di un principio antielusivo generale che, di fatto, vieta al contribuente di conseguire vantaggi fiscali indebiti (i.e. agevolazioni e/o risparmi d'imposta), ottenuti mediante un uso distorto delle norme fiscali e senza che vi siano ragioni economiche apprezzabili tali da giustificare il beneficio realizzato.
La norma impone, quindi, una valutazione sulla natura intrinseca degli atti posti in essere dal contribuente e degli effetti giuridici perseguiti, prescindendo dal titolo e dalla forma giuridica del negozio di riferimento. In tal senso, si evidenzia una generale autonomia del piano fiscale rispetto a quello civilistico, con il riconoscimento della prevalenza della sostanza economica dell'operazione rispetto alla formale denominazione negoziale adottata, ai fini della qualificazione giuridica della fattispecie tributaria (Cfr . Cass. Civ., Sez. V, Sent. 22/09/2022, n. 27709).
Nel novero delle garanzie endoprocessuali e processuali elencate dal nuovo art. 10-bis, al comma 13 si stabilisce che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”. La norma precisa, dunque, che la condotta abusiva è sanzionata solo sul piano amministrativo, evidenziandone l'irrilevanza sul piano penale. La rilevanza penale della condotta abusiva resta circoscritta, pertanto, ai soli casi di evasione in senso stretto (cfr. A. Bell, G. Falsitta, A. Valsecchi, La linea di confine fra elusione fiscale e reati tributari, in Dpu, 10 luglio 2019, p. 3), ponendo un argine alla ormai consolidata prassi giurisprudenziale orientata verso un ampliamento dell'operatività penale in campo tributario. Prima della riforma del 2015, si riteneva, infatti, che l'elusione tributaria fosse idonea di per sé ad integrare gli estremi del reato di dichiarazione infedele. Tale interpretazione – di matrice giurisprudenziale – si fondava essenzialmente sul dettato dell'art. 37-bis, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, il quale forniva un elenco tassativo di operazioni prive di validità economica, volte unicamente ad ottenere un risparmio d'imposta e perciò legittimanti il fisco ad un ricalcolo del debito tributario, alla luce delle norme eluse (Cfr. F. Giunta, Abuso del diritto e diritto penale. La strana coppia, in Discrimen articoli, p. 14).
La valutazione sull'assenza delle ragioni economiche ai fini dell'accertamento dell'abuso del diritto era rimessa alla discrezionalità dell'Amministrazione finanziaria, mentre era appannaggio del giudice penale la valutazione circa la sussistenza o meno, nel caso concreto, del dolo, elemento determinante per l'applicazione della disciplina penalistica in ambito tributario. Sicché, l'abuso del diritto implicava, secondo il costrutto interpretativo anteriore al 2015, una valutazione ex post dell'elemento soggettivo del caso concreto, di fatto minando due capisaldi della materia penalistica, quali le garanzie di certezza della pena e di tipicità delle fattispecie di reato (Ibidem).
Volendo scongiurare ogni eventuale lesione delle suddette garanzie, in osservanza, altresì, della prevedibilità del regime sanzionatorio applicato alle fattispecie delittuose tipiche, il Legislatore del 2015 ha abrogato il citato art. 37-bis, introducendo il nuovo art. 10-bis e degradando la fattispecie dell'elusione fiscale a mero illecito amministrativo.
Volendo ora approfondire la questione dell'onus probandi in merito all'esistenza o meno nel caso concreto della condotta elusiva, occorre premettere che sul punto è tornata ad esprimersi la stessa giurisprudenza di legittimità, con la recente sentenza n. 27709 del 22 settembre 2022. In tale specifica occasione, la Cassazione ha statuito che: “In materia tributaria, l'operazione economica che non trova giustificazione extrafiscale ed è diretta essenzialmente a conseguire un risparmio d'imposta costituisce “condotta abusiva” e la prova del disegno elusivo incombe sull'Agenzia delle Entrate, ma questa non si estende alla dimostrazione della necessaria preordinazione ex ante del compimento di tutti i negozi e i fatti giuridici che realizzano la fattispecie, ben potendo essere dirimente un accordo stipulato tra le parti che ricostruisce il collegamento teleologico tra tutte le singole operazioni, sia anteriori alla sua stipula e sia poste in essere successivamente” (Cfr. Cass. Civ., Sez. V, Sent. 22/09/2022, n. 27709).
Nel caso di specie, la condotta elusiva è stata realizzata mediante una serie di operazioni, ciascuna delle quali teleologicamente collegata alla precedente: si è, in primo luogo, proceduto ad una scissione societaria parziale con contestuale assegnazione di tutti i cespiti immobiliari presenti nel patrimonio della scissa in favore della società beneficiaria neocostituita; in secondo luogo, mediante riacquisto da parte della società scissa di una parte dei suddetti immobili e successive cessioni in favore degli altri soci – prima della partecipazione detenuta nella società beneficiaria neocostituita e poi di quella detenuta nella società scissa – il contribuente ha, di fatto, aggirato le disposizioni tributarie in materia di assegnazioni di beni a favore di soci. Dunque, la tesi erariale sull'elusione fiscale è stata confermata dalla Cassazione, la quale ha ribadito il carattere preminente della sostanza economica dell'operazione rispetto al nomen giuridico o alla qualificazione negoziale fornita dalle parti. Con la sentenza di cui sopra la Corte ha, inoltre, tenuto a precisare che l'onere probatorio della condotta elusiva grava, indubbiamente, sull'Amministrazione finanziaria, senza che quest'ultima debba dimostrare, in relazione a ciascuno e tutti gli atti e negozi giuridici posti in essere, la preordinazione del disegno criminoso. Secondo la Corte, è, perciò, bastevole, ai fini dell'integrazione della condotta abusiva, un qualsiasi accordo concluso tra le parti che – da solo – sia idoneo a collegare sul piano teleologico tutte le singole operazioni.
In conclusione
Alla luce di quanto approfondito nel presente articolo, non può che risultare alquanto disarmonico l'ambito di operatività della presunzione, così come prospettata dalla Cassazione nella sentenza n. 27709/2022: basti considerare che, ai fini dell'applicazione della presunzione in parola, la Corte ha finito per ritenere, tout court, superabile l'effetto giuridico voluto e perseguito dalle parti con il negozio, in virtù di una preminente considerazione degli effetti economici realizzati, benché – come noto – si tratti di effetti coerenti con la loro volontà negoziale, perseguiti in modo legittimo ed in osservanza della legge. Così facendo si potrebbe correre il rischio di restringere in misura eccessiva la libertà negoziale delle parti, favorendo, per contro, una prassi dell'Agenzia potenzialmente pericolosa, in quanto legittimante valutazioni automatiche ed indistinte, senza distinzioni di sorta, sulla sussistenza di una condotta elusiva, celata dietro atti formalmente conformi alla legge, ma in realtà conclusi al solo fine di ottenere un indebito risparmio d'imposta. Sarebbe auspicabile, quindi, che l'interprete non trascuri, piuttosto valorizzi pro-futuro, la lettera del citato art. 10-bis nel quale si registra l'intento chiarificatore del Legislatore e si pongono i limiti dell'operatività dell'abuso di diritto sul piano fiscale, scongiurando ogni propensione moralizzatrice da parte della giurisdizione. |