Prescrizione dei crediti retributivi nella successione di contratti a termine
01 Dicembre 2022
Massima
In caso di successione di contratti a tempo determinato, la prescrizione dei crediti retributivi che sorgono nel corso del rapporto lavorativo decorre dal giorno della loro insorgenza, quello dei crediti che maturano alla cessazione del rapporto decorre, invece, dal termine del rapporto, in quanto i crediti scaturenti da ciascun contratto sono autonomi fra loro e gli intervalli di tempo fra un contratto e l'altro non possono assumere efficacia sospensiva della prescrizione stante la tassatività delle ipotesi previste dagli artt. 2941-2942 c.c. Il caso
Un ex dipendente INAIL (ex Ispesl) assunto a far data dal 1° ottobre 1999 con plurimi contratti a tempo determinato quale ricercatore III livello e stabilizzato in data 18 febbraio 2008, conviene in giudizio l'Istituto al fine di ottenere il riconoscimento di anzianità giuridica ed economica precedente la stabilizzazione e la conseguente condanna al pagamento di differenze retributive.
L'INAIL eccepisce la prescrizione quinquennale relativa alle differenze retributive asseritamente maturate. Il Tribunale accoglie le pretese del lavoratore. La Corte d'Appello di Roma riforma parzialmente la decisione di primo grado escludendo il cumulo di interessi e rivalutazione, ferma la decisione nel merito; respinge nuovamente l'eccezione di prescrizione ritenendo che il lavoratore versasse in una situazione di oggettiva debolezza che impediva il decorso della prescrizione in corso di rapporto.
L'INAIL ricorre in Cassazione per violazione e falsa applicazione dell'art. 2948, n. 4, c.c., deducendo che la sentenza d'appello avrebbe errato nell'argomentare in punto di metus del lavoratore in relazione ai rapporti a termine, sia perché trattasi, nel caso concreto, di rapporti garantiti dal CCNL applicato, sia perché tale concetto sarebbe inconcepibile nel settore pubblico. Reitera, l'INAIL, l'eccezione di prescrizione quinquennale maturata in pendenza dei singoli contratti a termine.
La Corte di Cassazione accoglie il ricorso. La questione
In ipotesi di successione di contratti a tempo determinato da quando decorre la prescrizione dei crediti retributivi? Le soluzioni giuridiche
La Corte richiama i termini prescrizionali relativi ai crediti retributivi disposti dagli artt. 2948, n. 4 (prescrizione quinquennale per “gli interessi e, in generale, per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”), 2955 n. 2 (prescrizione annuale per i diritti dei “prestatori di lavoro per le retribuzioni corrisposte a periodi non superiori al mese”), 2956 n. 1 (prescrizione triennale per i diritti “di prestatori di lavoro per le retribuzioni corrisposte a periodi superiori al mese”) e, quindi, opera distinzione fra i crediti che sorgono in costanza del rapporto di lavoro e quelli che maturano alla sua cessazione. Per i primi (ad es. le differenze retributive richieste nella causa definita con la sentenza in commento), il termine di prescrizione decorre dal giorno della loro insorgenza, per i secondi dalla cessazione del rapporto: dunque, in entrambi i casi, da quando il diritto sorge e può essere fatto valere.
Gli intervalli fra i contratti di lavoro, precisa la Corte, non possono essere considerati quali cause di sospensione della prescrizione, in quanto non compresi nell'elenco tassativo di cui agli artt. 2941-2942 c.c.
Il giudice di legittimità, poi, ribadisce che nel caso concreto non gioca alcun ruolo il cd. metus del lavoratore, cioè il timore di essere licenziato come ritorsione per aver tentato di rivendicare i propri diritti e tale da indurlo a rinunciare a eventuali rivendicazioni prima della cessazione del rapporto: tale concetto, infatti, presuppone l'esistenza di un rapporto a tempo indeterminato non assistito da stabilità ai sensi dell'originario art. 18 St. lav.
Nel contratto di lavoro a termine che sia legittimamente stipulato il lavoratore ha diritto al mantenimento del rapporto sino alla scadenza; in caso di recesso del datore prima del termine apposto, il lavoratore non è in ogni caso assistito dalla tutela reintegratoria, ma ha il diritto di richiedere risarcimento pari alle retribuzioni che avrebbe percepito sino alla scadenza del contratto. La scadenza del contratto non è, insomma, un evento incerto, come è nel diverso caso di rapporto a tempo indeterminato.
Come osservato da giurisprudenza consolidata (Cass., sez. un., 16 gennaio 2003, n. 575; Cass., 5 agosto 2019, n. 20918), il contratto a tempo determinato è di per sé precario, la rinnovazione è demandata a una decisione del datore di lavoro, quindi la posizione psicologica del lavoratore a termine non è paragonabile a quella del dipendente a tempo indeterminato. Nel contratto a tempo indeterminato la risoluzione può intervenire anche immediatamente dopo l'assunzione, con particolari ripercussioni sull'atteggiamento psicologico del lavoratore.
Quanto a dire che, paradossalmente, pur con riferimento alla durata pattiziamente convenuta, il contratto di lavoro a tempo determinato è assistito da stabilità anche a prescindere dal requisito dimensionale di parte datoriale.
Ogni rapporto a termine è dunque da considerarsi a sé, e così i relativi crediti retributivi.
In ambito di impiego pubblico contrattualizzato laddove la conversione a tempo indeterminato del contratto in ipotesi di nullità del termine è impedita per legge, si applica la medesima regola dell'autonomia dei singoli contratti quanto alla decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi (Cass. civ., sez. lav., 28 maggio 2020, n. 10219). Per di più, la giurisprudenza rimarca che nel rapporto pubblico, anche per le assunzioni temporanee, non è configurabile alcuna soggezione psicologica che potrebbe indurre il lavoratore a non avanzare le proprie pretese retributive. Osservazioni
Doveroso collegare la sentenza in oggetto al più ampio dibattito giurisprudenziale cui sembra aver posto un punto la recentissima Cass., sez. lav., sent., 6 settembre 2022, n. 26246, affermando che la prescrizione dei crediti da lavoro decorre dalla conclusione del rapporto di lavoro anche per i rapporti garantiti da stabilità reale.
Ricapitoliamo brevemente. In origine la disciplina era costituita esclusivamente dalle richiamate norme del codice civile (artt. 2948 n. 4, 2955 n. 2 e 2956 n. 1). Tali norme sono state dichiarate incostituzionali limitatamente alla parte in cui consentono la decorrenza della prescrizione del diritto alla retribuzione durante il rapporto di lavoro (Corte cost., 10 giugno 1966, n. 63). Successivo intervento della Corte Costituzionale (Corte, 12 dicembre 1972, n. 174) ha stabilito che tale principio non trova applicazione nei rapporti di pubblico impiego e in quelli garantiti dall'art. 1 l. n. 604/1966 e dall'art. 18 St. Lav.
Per essere più chiari, quindi, per i lavoratori dipendenti di datori con più di 15 addetti (e dunque garantiti dalla reintegrazione, ex art. 18 St. lav. nella sua formulazione originaria, in caso di licenziamento illegittimo) la prescrizione decorreva in corso di rapporto, mensilmente. Per i lavoratori impiegati in aziende con meno di 15 addetti (tutelati solo con indennità risarcitoria) la prescrizione decorreva, invece, alla cessazione del rapporto di lavoro. Ciò a causa della particolare situazione psicologica del dipendente della piccola azienda, timoroso di avanzare qualsivoglia legittima richiesta di differenze retributive per paura di essere oggetto di ritorsioni o addirittura di licenziamento.
Avendo la Riforma Fornero ridotto le ipotesi di reintegrazione, i tribunali di merito hanno affrontato la questione in due modi.
Secondo orientamento minoritario, la prescrizione quinquennale decorre in corso di rapporto se questo è tutelato dall'art. 18 St. Lav., in quanto resta comunque assicurata la reintegra nelle ipotesi più gravi di recesso datoriale (Trib. Napoli, sez. lav., 12 novembre 2019, n. 7343).
Secondo orientamento maggioritario, dal momento che la reintegrazione è stata fortemente ridimensionata e destinata a ipotesi residuali, la prescrizione decorre dalla cessazione del rapporto stesso, in virtù della condizione psicologica del lavoratore, incerto circa la tutela applicabile in caso di licenziamento illegittimo e dunque a prescindere dal fatto che al rapporto di lavoro in questione si applichi o meno il nuovo art. 18 St. lav. (ex multis, App. Milano, sez. lav., 25 ottobre 2021, n. 1352; App. Milano, sez. lav., 30 aprile 2019, n. 376).
Con la sentenza n. 26246/2022 la Corte di legittimità ha confermato la tesi maggioritaria, dando rilevanza alla posizione di debolezza oggettiva del lavoratore e al fatto che “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92/2012 e del d.lgs. n. 23/2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa della fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della l. n. 92/2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro.”.
La decorrenza della prescrizione in corso di rapporto si applica esclusivamente “quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione contro ogni illegittima risoluzione nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell'art. 18, anteriore alla l. n. 92/2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava”. La Corte non ritiene, dunque, sufficiente il mantenimento della tutela reintegratoria per il licenziamento ritorsivo nonostante costituisca il tipico caso di recesso in ipotesi di repressione di rivendicazioni del lavoratore. Per i giudici di legittimità l'individuazione del regime di stabilità sopravviene a una qualificazione del rapporto operata dal giudice, caso per caso: dunque del tutto incerta.
La posizione della Cassazione tenta di rispondere a un'esigenza di certezza dei rapporti giuridici: la chiara, semplice e predeterminabile individuazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione serve sia al lavoratore, che deve poter sapere quando e fino a quando può far valere i propri diritti, sia al datore che deve poter conoscere le tempistiche delle possibili rivendicazioni dei dipendenti.
Tempistiche che per parte datoriale si dilatano, a quanto pare, sempre di più.
Ciò, nonostante la giurisprudenza sempre più recente sia nel senso di dilatare progressivamente l'operatività della tutela reintegratoria rimasta di natura residuale solo nelle intenzioni del legislatore della Riforma Fornero, prima, della riforma Renzi, in seguito. |