Lavoratore che assiste un disabile e diritto a non essere trasferito: portata e bilanciamento con specifiche situazioni oggettive

06 Dicembre 2022

Nella pronuncia in commento, giuridicamente la quaestio iuris sottesa alla vicenda, attiene alla portata della tutela prevista dall'art. 33, comma 5, laddove dispone che “Il lavoratore di cui al comma 3 […] non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”. Si tratta di una norma speciale rispetto a quella generale in ambito lavoristico, di cui all'art. 2013 c.c., in tema di esercizio del potere datoriale di disporre il trasferimento del lavoratore.
Massima

La tutela rafforzata cui ha diritto il lavoratore che assista con continuità un familiare invalido ex art. 33, comma 5, L. n. 104 del 1992 – ai cui sensi “Il lavoratore di cui al comma 3 ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede” – opera e prevale, con riguardo al profilo inerente al diritto a non essere trasferito, in riferimento alle ordinarie esigenze tecniche, organizzative, produttive aziendali (art. 2013 cod. civ.), con il limite della soppressione del posto o di altre situazioni di fatto insuscettibili di essere diversamente soddisfatte (nel caso concreto tale situazione di fatto è stata ritenuta provata dalla corte di merito, unitamente al rifiuto del lavoratore all'assegnazione a mansioni diverse in alternativa al trasferimento).

Il caso: inquadramento generale

Il lavoratore, soccombente nei giudizi di merito, ricorre in Cassazione ritenendo non conforme ai principi di diritto la pronuncia della Corte d'appello che ha affermato la legittimità del suo trasferimento ad altra sede lavorativa, nonostante la sussistenza, in suo favore, dei presupposti di cui all'art. 33, comma 5, ultimo periodo, L. n. 104/1992 e cioè il comprovato svolgimento di compiti di assistenza di un congiunto (titolato) in condizione di handicap grave e, quindi, il radicarsi, a suo vantaggio, di un diritto a non essere soggetto a trasferimento ad altra sede, senza che qui rilevino in senso ostativo le comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, richiamate invece dall'art. 2103, c.c. contenente la disciplina generale in tema di trasferimenti.

Dal contenuto motivazionale della sentenza sembrerebbe desumersi che la situazione di fatto – alla base della controversia – attenga al trasferimento del lavoratore conseguente alla soppressione della sede cui il medesimo era addetto.

Si tratta di una situazione di fatto che, assieme ad altre situazioni limite “insuscettibili di essere diversamente soddisfatte”, si pone al di là dei confini delle ordinarie ragioni alla base del trasferimento ex art. 2013 c.c. e che – a differenza di queste – assume rilevanza anche a fronte di una norma, quale l'art. 33, comma 5, che icasticamente sancisce l'inamovibilità del lavoratore che assiste il portatore di handicap.

Profili normativi

Giuridicamente la quaestio iuris, sottesa alla vicenda, attiene quindi alla portata della tutela prevista dall'art. 33, comma 5, cit. laddove dispone che “Il lavoratore di cui al comma 3 … non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”.

Si tratta di una norma speciale rispetto a quella generale in ambito lavoristico, di cui all'art. 2013 c.c., in tema di esercizio del potere datoriale di disporre il trasferimento del lavoratore.

In termini complessivi, come noto, in diritto civile, i c.d. poteri privati (alias diritti potestativi) – fra cui il potere attribuito al datore di lavoro, di disporre il mutamento del luogo della prestazione della controparte negoziale – sono considerati con circospezione in quanto alterano l'equilibrio, che in linea di principio, dovrebbe improntare i rapporti fra le parti, quanto meno nel senso della reciprocità.

D'altra parte, la collaborazione lavorativa all'altrui impresa (o, più in generale, ad attività che richiede l'apporto di energie lavorative) postula, di per sé, la necessità di attribuire al datore di lavoro – nell'ambito dello svolgimento del relativo rapporto negoziale – la facoltà di indirizzare e disporre al meglio l'utilizzo del “fattore lavoro”: ciò attraverso l'esercizio di iniziative unilaterali quale quella sostanziantesi nel potere di trasferimento.

L'art. 2013 cod. civile registra puntualmente tali presupposti e, in tal senso, chiarisce che si è di fronte a un potere intimamente funzionale alle esigenze tecniche, organizzative e produttive d'impresa, all'interno delle quali deve essere contenuto a pena d'illegittimità.

Rispetto al paradigma generale di tale norma, quella dell'art. 33, comma 5, ultimo periodo cit., contempla un sostanziale venir meno del potere di trasferimento, salvo che vi sia consenso fra le parti alla attuazione del medesimo; in pratica, si ritorna alla necessità dell'accordo per apporre modifiche alle condizioni contrattuali, con la conseguenza che, in tale fattispecie, il trasferimento perde i connotati del potere.

Tuttavia, a certe condizioni, quale extrema ratio dell'applicazione della norma, si rifluisce in una posizione di potere esercitabile dal datore di lavoro, rispetto al quale il lavoratore ritorna a trovarsi in una condizione di soggezione.

Extrema ratio che emerge non dalla norma iuris dell'art. 33, comma 5 (che, come visto, si limita a statuire, in maniera lapidaria, che il lavoratore non può essere trasferito ad altra sede), ma da una sistematizzazione delle regole giuridiche in materia e dal correlato bilanciamento degli interessi in gioco.

In tal senso, nella sentenza che si annota è contenuto un excursus dei vari aspetti afferenti al potere di trasferimento del lavoratore ex art. 33, comma 5, sulla base del richiamo agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in materia.

Al riguardo, la Cassazione, in riferimento alla norma indagata, evidenzia anzitutto come la stessa si articoli sostanzialmente in due parti distinte, contemplanti diversi gradi di tutela: nella prima parte, viene previsto che il lavoratore che assiste un congiunto in condizioni di handicap “ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere”; nella parte successiva è previsto, invece, tout court, il diritto del medesimo a “non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”.

Si tratta di un differente bilanciamento degli interessi in gioco, in relazione alle distinte posizioni soggettive contemplate: rileva la Corte che “l'assenza dell'inciso ove possibile, per l'ipotesi di trasferimento esprime una diversa scelta di valori che è collegata alla diversità delle due situazioni, e specificamente ai riflessi negativi per il portatore di handicap di un trasferimento del congiunto a fronte di una situazione assistenziale già consolidata”.

Pertanto, mentre in fase di prima assunzione il diritto a scegliere la sede è condizionato (“ove possibile”) alla insussistenza di comprovate ragioni tecniche organizzative produttive di segno contrario; quando sia consolidata, da parte del lavoratore in questione, l'acquisizione di una data sede lavorativa, tali comprovate ragioni non rilevano, cioè non giustificano di per sé stesse una iniziativa datoriale al trasferimento.

Soluzione giuridica

La sentenza sottolinea, sul punto, che la scelta operata dal legislatore significa che, in questa ipotesi, l'interesse della persona disabile, ponendosi come limite esterno del potere datoriale di trasferimento (quale disciplinato in via generale dall'art. 2103 c.c.), prevale sulle ordinarie esigenze produttive e organizzative del datore di lavoro, ma non esclude che il medesimo interesse, pure prevalente rispetto alle predette esigenze, debba conciliarsi con altri rilevanti interessi, diversi da quelli sottesi alla mobilità ordinaria, che possono entrare in gioco nello svolgimento del rapporto di lavoro, in considerazione di principi costituzionali che, nel concreto, possono determinare un limite alla prescrizione di inamovibilità.

Già precedenti pronunce (Cass. n. 24915/2017 e Cass. n. 2969/2021) avevano chiarito come l'applicazione dell'art. 33, comma 5, cit. postuli, di volta in volta, un bilanciamento di interessi nel quadro di una sua interpretazione costituzionalmente orientata, alla luce dell'art. 3, secondo comma, Cost., delle norme della Carta dei diritti fondamentali della UE e consimili.

La Cassazione in commento sottolinea, al riguardo, come l'evoluzione della giurisprudenza di legittimità abbia individuato situazioni di fatto riconducibili, in via sistematica, all'art. 2103 c.c., che si distinguono dalle ordinarie esigenze di assetto organizzativo, quali la soppressione del posto (o anche l'incompatibilità ambientale), per le quali il mutamento della sede corrisponde alla necessità obiettiva – da accertare rigorosamente – di conservare al lavoratore il posto, ove risulti l'impossibilità della prosecuzione del rapporto nella precedente sede.

Situazioni fattuali di cui la corte di merito, nel caso di specie, ha accertato la effettiva sussistenza, unitamente al rifiuto del lavoratore all'assegnazione a mansioni diverse in alternativa al trasferimento.

Viene conseguentemente rigettato il ricorso, risultando confermato che la tutela rafforzata cui ha diritto il lavoratore che assista con continuità un familiare invalido, prevale sì sulle ordinarie esigenze tecniche, organizzative e produttive (legittimanti la mobilità), ma non su situazioni di fatto “ulteriori” – extra ordinem – quali la soppressione del posto o altre situazioni di fatto insuscettibili di essere diversamente soddisfatte.

Osservazioni

Merita di essere evidenziato che la difesa del lavoratore ha fatto leva in sede di giudizio di legittimità su una prospettazione della fattispecie per così dire “estrema” e cioè sul rilievo che il trasferimento senza consenso del titolare della tutela può lecitamente avvenire – nell'ipotesi ex art. 33, comma 5 – solo quale alternativa alla risoluzione del rapporto, con conseguente necessità di prova dell'impossibilità di ricollocarlo altrove, nella stessa sede dove si è verificata la soppressione del posto o in sede più prossima, anche in posizioni professionalmente diverse o deteriori, quindi con onere della prova dell'impossibilità di c.d. repêchage incombente sul datore di lavoro.

In pratica, ad avviso di parte ricorrente, nel caso di specie, alla luce della norma richiamata, le possibilità di trasferimento ad altra sede del lavoratore andrebbero vagliate alla stregua degli stessi presupposti, ed entro gli stessi limiti, richiesti per il caso in cui si trattasse di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore per soppressione del posto di lavoro in cui è occupato.

Sulla base di tale affermazione il ricorrente contesta, sostanzialmente, la sentenza di merito per non aver vagliato il comportamento datoriale, nella vicenda, alla stregua dello stringente regime probatorio incombente sul datore di lavoro in tema di repêchage.

Al riguardo, la Cassazione in esame osserva che la tesi “non è condivisibile nel suo automatismo perché trasferimento e licenziamento del lavoratore rimangono fenomeni ontologicamente diversi, per natura e per portata” e la stessa non trova riscontro nella giurisprudenza di legittimità in materia, che dà rilievo a un più ampio bilanciamento degli interessi in gioco, secondo i criteri sopra richiamati.

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