Trasferimento di (ramo di) azienda in crisi e tutela dei lavoratori: la recente giurisprudenza della CGUE e il nuovo Codice della crisi d'impresa

Emanuele Licciardi
06 Dicembre 2022

Il principio per cui i dipendenti di un'azienda debbano mantenere i diritti acquisiti nel corso del proprio rapporto di lavoro, nonché i medesimi trattamenti ricevuti sino a quel momento a seguito di trasferimento del ramo di azienda a cui gli stessi siano assegnati, è uno dei capisaldi giuslavoristici del nostro ordinamento. Esso, tuttavia, fa riferimento a situazioni in cui tale passaggio non avvenga in contesti patologici: tale variabile, infatti, è in grado di attenuare i corollari che da tale principio derivano. La Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha avuto modo di esprimersi sul tema, precisando alcuni dei requisiti che la normativa comunitaria di riferimento indica al fine di concedere condizioni di favore alla cedente che si trovi in stato di crisi, al pari di quanto recepito nel relativo Codice italiano (anche all'esito delle modifiche allo stesso apportate negli ultimi mesi).
Contesto normativo europeo e italiano in tema di trasferimento d'azienda

Uno degli obiettivi che l'Unione Europea si prefigge è quello del ravvicinamento delle legislazioni dei propri Stati Membri e l'ambito della gestione dei rapporti di lavoro nel contesto delle crisi aziendali non fa eccezione.

In questo senso, la Direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001 mira, in contesti di tal sorta, al mantenimento dei diritti dei lavoratori nei casi di trasferimento di imprese, stabilimenti o di parti di imprese o stabilimenti ad un nuovo imprenditore, anche a seguito di cessione di contratto o di fusione aziendale, prevedendo - tra le altre cose - anche un regime di responsabilità solidale tra il cedente e il cessionario in relazione ai crediti dei lavoratori trasferiti. In generale, le singole previsioni contenute nella Direttiva hanno lo scopo di tutelare i diritti già maturati dai dipendenti nel caso in cui la titolarità del loro rapporto passi in capo ad un nuovo datore di lavoro.

In Italia, la disciplina di riferimento in materia di mantenimento dei diritti del lavoratore in caso di trasferimento di azienda è dettata dall'art. 2112 cod. civ.

Tale disposizione si occupa principalmente di assicurare che, sotto la nuova direzione lavorativa, ai dipendenti siano assicurati gli stessi livelli di tutela dei quali godevano alle dipendenze del cedente. Il legislatore si prefigge di raggiungere tali obiettivi attraverso l'obbligo, in capo al datore cessionario, di garantire i trattamenti economici e normativi di cui al CCNL applicato sino in quel momento al lavoratore, con la possibilità che esso venga sostituito con quello in uso presso il nuovo datore, purché di medesimo livello. Inoltre, il cedente ed il cessionario sono solidalmente obbligati tra loro per i crediti di lavoro maturati dal dipendente in costanza del rapporto originario, salvo i casi di espressa rinuncia alla solidarietà del cedente da parte del lavoratore, sottoscritta in sede protetta ai sensi degli artt. 410 e 411 c.p.c.

Come desumibile dal testo della norma in esame, è consentita liberamente solo la modifica in melius delle preesistenti condizioni di lavoro. Diversamente, dipendente e nuovo datore saranno chiamati alla conclusione di un accordo individuale stipulato in sede protetta ex art. 2113 c.c.

La disciplina di riferimento per le aziende in stato di crisi

Se quanto appena descritto si applica alle aziende datrici di lavoro in bonis, appare opportuno approfondire cosa accadrebbe nel caso in cui l'azienda sia in stato di crisi, contesto che renderebbe di certo più complesso il contemperamento tra l'obbligo di mantenimento delle condizioni dei lavoratori e la sopravvivenza dell'azienda stessa.

In generale, ai sensi della normativa oggi applicabile in materia, se ricorre un accertato stato di difficoltà (i.e., amministrazione straordinaria, concordato preventivo o omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti), allora la disciplina testécitata è soggetta ad alcune limitazioni.

E, infatti, il nuovo Codice della Crisi d'impresa e dell'insolvenza (CCII) ha, inter alia, parzialmente modificato la legislazione italiana di riferimento, ovverosia l'art. 47, commi 4-bis, 5, 5-bis e 5-ter, della Legge n. 428/1990, nella quale erano state trasposte le previsioni della Direttiva 2001/23/CE in tema di trasferimento di azienda, considerando casi diversi a seconda dell'avanzamento della crisi aziendale e delle immediate conseguenze sui relativi rapporti di lavoro.

In particolare, nella nuova formulazione dell'art 4-bis vengono considerate le ipotesi in cui (i) l'azienda abbia subito una dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo in regime di continuità indiretta, (ii) di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti con accordi che non hanno carattere liquidatorio o, ancora, (iii) la disposizione dell'amministrazione straordinaria in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività. In tali casi, il nuovo Codice dispone che le previsioni di cui all'art. 2112 c.c., ferma restando la loro applicazione in tema di trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, possano essere fortemente limitate in virtù della salvaguardia dei livelli occupazionali sino a quel momento raggiunti: saranno concesse, pertanto, previo specifico accordo appositamente stipulato in sede sindacale, modifiche peggiorative delle condizioni applicate prima del trasferimento e destinate ai lavoratori in virtù dello stesso.

L'art. 47, comma 5 e 5-bis, L. 428/1990 fa, poi, riferimento ad altre ipotesi riguardanti uno stato ormai avanzato della condizione di crisi dell'azienda coinvolta, considerato irreversibile. Si tratta dei casi in cui vi sia stata apertura della liquidazione giudiziale o del concordato preventivo liquidatorio, ovvero emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, se la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata.

Ove ricorrano tali circostanze, nonostante la rilevanza dello stato patologico in cui la cedente si trovi, possono comunque stipularsi contratti collettivi con finalità di salvaguardia dell'occupazione e in deroga all'art. 2112 c.c. che, dunque, non viene applicato di default e il trattamento di fine rapporto è immediatamente esigibile nei confronti del cedente dell'azienda. Resta, comunque, salva la possibilità di accordi individuali ai sensi dell'art. 2113, ultimo comma, c.c.

Infine, il comma 5-ter dell'art. 47, L. 428/1990 si occupa, in maniera specifica, delle aziende sottoposte ad amministrazione straordinaria, per le quali la continuazione dell'attività sia stata esclusa dal principio (o intervenuta successivamente). In questo caso, ove sia già stato raggiunto un accordo finalizzato al mantenimento – anche parziale – dell'occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l'acquirente l'art. 2112 c.c. non viene applicato nella sua interezza, a meno che detto accordo non preveda condizioni di miglior favore; lo stesso, inoltre, può statuire che il trasferimento riguardi soltanto una parte del personale impiegato dall'azienda trasferita, rimanendo i restanti lavoratori alle dipendenze dell'alienante.

La sentenza della Corte di Giustizia europea del 28 aprile 2022, n. C-237/2020

La normativa or ora evidenziata è stata di recente applicata anche dal più alto organo giurisdizionale europeo, che ha precisato che le limitazioni di cui si è detto possano essere giustificate qualora sia in atto una procedura di insolvenza conseguente alla liquidazione dei beni della stessa, purché svolta sotto il controllo di una autorità pubblica competente (ossia il suo equivalente nazionale).

Infatti, la Corte di Giustizia europea (CGUE) è stata chiamata a esprimersi proprio su questo tema, offrendo spunti che hanno confermato la portata della Direttiva n. 23/2001, nonché la corretta applicazione dei principi sopra riportati e in vigore nel sistema italiano, anche in considerazione del nuovo Codice della Crisi d'Impresa e dell'insolvenza, vigente dal 15 luglio 2022 (anch'esso, come noto, ispirato ad una Direttiva europea – la c.d. “Direttiva Insolvency”).

Nella causa C-237/20, veniva contestata la possibilità che la procedura di c.d. “pre-pack” potesse giustificare una deroga delle condizioni applicate ai lavoratori in fase antecedente il loro trasferimento.

La citata procedura di pre-packaged insolvency sale (in breve, pre-pack) è una prassi di origine giurisprudenziale dei Paesi Bassi, la quale prevede, nell'ambito di una procedura fallimentare, una serie di interventi volti a minimizzare l'impatto della crisi aziendale sull'occupazione, nonché il maggior soddisfacimento possibile dei creditori dell'azienda stessa all'esito delle procedure di sua liquidazione; tali interventi sono gestiti da figure professionali specifiche adibite all'uopo.

Nel caso di specie, la Società originariamente datrice di lavoro era stata dichiarata fallita e, nel corso delle procedure volte alla liquidazione della stessa, in base a un accordo di cessione del suo patrimonio, due nuove società olandesi ne rilevavano la maggior parte delle attività commerciali, compresi i contratti di lavoro di circa due terzi dei dipendenti, prevedendo negli accordi di acquisizione che le condizioni lavorative degli stessi avrebbero subito una diminuzione delle tutele sino a quel momento apprestate ma che, tuttavia, i livelli occupazionali sarebbero stati mantenuti (e, dunque, non ci sarebbero stati licenziamenti dovuti al trasferimento del ramo di azienda in crisi).

Dinanzi a tale prospettiva, i lavoratori coinvolti lamentavano l'applicazione di condizione lavorative modificate in pejus e, conseguentemente, adivano la CGUE, la quale decideva, nondimeno, in favore della Società datrice, ritenendo che i requisiti per la limitazione delle tutele di cui alla Direttiva n. 23 fossero tutti rispettati dal caso di specie (i.e., la pendenza di una procedura di insolvenza della cedente e la previsione della liquidazione della stessa e dei suoi beni sotto il controllo di una autorità pubblica competente).

Secondo i giudicanti, infatti, l'avanzamento – ormai inarrestabile – dello stato di crisi della Società cedente rappresentava un elemento sufficiente a giustificare, nella prospettiva del mantenimento dei livelli occupazionali, le significative limitazioni concesse riguardo ai diritti dei dipendenti, in tali casi, dalla Direttiva 2001/23/CE.

Conclusioni

Analizzata nella prospettiva del diritto italiano (seppur esso sia più specifico nel distinguere tra i diversi momenti della crisi aziendale) la decisione resa dalla Corte di Giustizia conferma i principi di cui all'art. 47 della L. n. 428/1990, anche a seguito delle novità introdotte dal nuovo Codice della Crisi d'impresa e dell'insolvenza. La normativa italiana, pertanto, risulta essere effettivamente aderente a quella europea in tema di trasferimento di (ramo di) azienda, e di salvaguardia dei diritti dei lavoratori colpiti da tale trasformazione.

Il triplice apparato derogatorio all'art. 2112 c.c. introdotto dal Codice continua a essere, invero, anche più garantista di quello offerto dalla Direttiva 2001/23 nella misura in cui richiede l'accordo collettivo (ovvero l'accordo individuale da sottoscriversi in sede protetta) quale condizione necessaria per la riduzione o disapplicazione delle tutele altrimenti applicabili ai rapporti di lavoro nell'ambito delle procedure concorsuali con finalità liquidatoria. Inoltre, con la nuova formulazione del comma 4 bis, il semplice “stato di crisi aziendale”, a differenza che in passato, non esime più dalla integrale applicazione delle tutele di cui all'art. 2112 c.c. (e.g., la conservazione delle condizioni di lavoro, la continuità del rapporto, il principio di responsabilità solidale di cedente e cessionario).

Ad ogni modo, il riconoscimento di tali tutele appare chiaro laddove si consideri l'importanza riconosciuta al mantenimento dei livelli occupazionali nell'ambito della gestione dei momenti patologici della vita dell'impresa. La salvaguardia della continuità dell'impiego arriva addirittura a consentire modifiche in peius delle condizioni lavorative dei dipendenti già in forze (seppur solo a determinate e specifiche condizioni).

Tale concessione è riconosciuta in virtù del principio del favor lavoratoris che – da sempre – contraddistingue il nostro ordinamento e che, traslata nel contesto della crisi aziendale, antepone alle tutele dei diritti acquisiti dal singolo lavoratore in caso di trasferimento di azienda la protezione di un contesto generale più ampio, finalizzato al raggiungimento di altri obiettivi – ossia il mantenimento, anche parziale, dell'occupazione - capaci di tutelare i lavoratori in una prospettiva più collettiva e di lungo periodo.

La normativa analizzata, in altre parole, consente (e, anzi, invita a effettuare) una rinuncia individuale in previsione della generale contropartita offerta dalla conservazione dei rapporti di lavoro stessi – senza i quali, peraltro, i diritti che dagli stessi derivano sarebbero comunque perduti.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.