Eccezione di rito disattesa dal giudice di primo grado e rilevabilità della questione in appello
06 Dicembre 2022
Massima
Con riguardo alle eccezioni di rito, qualora esse siano state disattese espressamente o indirettamente dal primo giudice, non è dubbio che la parte soccombente su di esse, ma vittoriosa quanto all'esito finale della lite, si trovi in posizione di soccombenza. Ne deriva che se essa vuole ottenere che l'eccezione sia riesaminata dal giudice del gravame, investito dell'appello principale sul merito della controparte, deve farlo proponendo appello incidentale, non bastando la mera riproposizione dell'eccezione ai sensi dell'art. 346 c.p.c. (fattispecie relativa all'eccezione di tardività della domanda riconvenzionale). Il caso
Instaurato giudizio di divisione dell'eredità ricevuta dai propri genitori, una delle parti instaurava un separato giudizio nei confronti di uno dei fratelli per ottenere il rilascio di un immobile rientrante nel compendio ereditario assumendo che esso era detenuto sine titulo dal convenuto; quest'ultimo proponeva a sua volta domanda riconvenzionale per il rimborso delle migliorie apportate all'immobile. Le cause venivano riunite. Il Tribunale adito, con sentenza non definitiva, dichiarava cessata la materia del contendere in relazione a questa seconda causa e rigettava le domande riconvenzionali di usucapione nel frattempo proposte in riferimento alla prima causa. Veniva disposta la prosecuzione del giudizio e un supplemento di CTU per la predisposizione di un progetto divisionale. Pronunciata sentenza definitiva di divisione del compendio, era proposto appello avverso entrambe le sentenze (non definitiva e definitiva) e appello incidentale avverso la sentenza definitiva. La Corte territoriale, per quanto di rilievo in questa sede, riformava la pronuncia non definitiva dichiarando - in accoglimento dell'eccezione sollevata dalla controparte nella comparsa di costituzione in appello - l'inammissibilità della riconvenzionale di usucapione formulata dagli appellanti, osservando che sebbene l'eccezione di decadenza dalla proposizione della riconvenzionale non fosse stata sollevata in primo grado dalle parti interessate, né rilevata d'ufficio dal giudice di prime cure, era stata tempestivamente proposta in sede di appello ai sensi dell'art. 345, comma 2 c.p.c. dagli appellati/appellanti incidentali, per cui era idonea ad impedire la formazione del giudicato interno sul punto. Avverso tale decisione, i convenuti in primo grado proponevano ricorso per cassazione lamentando, tra l'altro, l'erronea declaratoria di inammissibilità della domanda di riconvenzionale di usucapione formulata in primo grado, giacché la relativa eccezione di inammissibilità della domanda riconvenzionale sollevata da controparte avrebbe dovuto, a loro avviso, essere formulata non in via di semplice eccezione, ma - al contrario - avrebbe dovuto essere introdotta come motivo di appello incidentale ex art. 343 comma 2 c.p.c. avverso la sentenza non definitiva. La questione
Tra le numerose questioni sottoposte al Supremo Collegio, particolare rilievo rivestono quella relativa al potere-dovere del giudice di appello di rilevare d'ufficio la tardività di una domanda riconvenzionale che il giudice di primo grado abbia rigettato nel merito senza, tuttavia, pronunciarsi sulla tempestività della medesima, nonché quella attinente alle modalità di introduzione in appello dell'eccezione di tardività pure sollevata dalle controparti in primo grado, ma non introdotta dalle stesse in appello se non in via di mera eccezione. Le soluzioni giuridiche
La Cassazione, partendo dalla premessa che dall'esame del fascicolo d'ufficio risulta che l'eccezione di tardività della domanda riconvenzionale non aveva formato oggetto di decisione, avendo il giudice di primo rigettato tale domanda per carenza di prova, senza prendere posizione sulla questione della relativa tempestività, osserva che il silenzio del giudice sull'eccezione di tardività della domanda riconvenzionale dà luogo ad un error in procedendo, giacché il giudice ha violato la regola secondo cui si può passare all'esame del merito solo in caso di infondatezza dell'eccezione di rito; essendosi in presenza di un vizio che inficia la validità della sentenza, occorre far valere tale nullità tramite l'appello incidentale, non bastando la riproposizione dell'eccezione di rito, essendo necessario che «essa venga espressa con un'attività di critica del modus procedendi del giudice di primo grado, che necessariamente avrebbe dovuto esaminare l'eccezione di rito». Per la decisione in epigrafe, pertanto, la parte soccombente sulla questione di tardività della domanda riconvenzionale ma vittoriosa nel merito si trova in posizione di soccombenza. Ne deriva che se essa vuole ottenere che l'eccezione sia riesaminata dal giudice del gravame, investito dell'appello principale sul merito della controparte, deve farlo proponendo appello incidentale e non ai sensi dell'art. 346 c.p.c. Insomma, l'impugnazione incidentale costituisce l'unico rimedio per ovviare «al rigetto (espresso oppure implicito) nonché all'omesso esame (ricomprendendosi in quest'ultima espressione tanto l'ipotesi di illegittima pretermissione quanto la violazione dell'ordine di decisione delle domande e/o delle eccezioni impresso dalla parte) di una domanda e/o di un'eccezione; la riproposizione entra in gioco nei soli casi in cui non vi è la necessità di spiegare una critica nei confronti della sentenza impugnata, ovvero nelle ipotesi di legittimo assorbimento, nelle quali la parte può limitarsi - mancando una decisione sulla domanda e/o sull'eccezione avanzata - a proporre nuovamente (per l'appunto, riproporre) l'istanza non esaminata, cioè non accolta in quanto ritualmente assorbita». La parte totalmente vittoriosa nel merito, ma soccombente su questione pregiudiziale di rito e/o preliminare di merito, allora, per devolvere alla cognizione del giudice superiore la questione rispetto alla quale ha maturato una posizione di soccombenza (teorica), deve spiegare appello incidentale. Pertanto, essa dovrà rispettare le regole di cui agli artt. 342 e 343 c.p.c. relativi alle modalità e ai termini per proporre appello, pena, in mancanza, l'inammissibilità del gravame ed il conseguente passaggio in giudicato della stessa questione ex art. 329, comma 2, c.p.c. Osservazioni
Come riportato dalla sentenza che qui si annota, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità sulla questione non è univoco. Per parte della giurisprudenza della Corte di Cassazione, la tardività della domanda riconvenzionale del convenuto, non rilevata in primo grado, non può essere rilevata d'ufficio dal giudice di appello, essendo la parte onerata di proporre appello incidentale sul punto. In tal senso si è espressa la Cass. a Sez. un. 12 maggio 2017, n. 11799, la quale per giustificare tale conclusione osserva che laddove il giudice, nel rigettare nel merito la domanda, ometta di decidere su un'eccezione di rito proposta dal convenuto, «non solo ha violato l'art. 276 c.p.c.», ma «poiché l'eccezione di rito doveva esaminarsi prima del merito […], il silenzio del giudice si risolve […] in un error in procedendo», per cui la relativa nullità deve essere censurata tramite l'appello incidentale e giammai con la riproposizione dell'eccezione di rito, essendo necessaria la «critica del modus procedendi del giudice di primo grado, che necessariamente avrebbe dovuto esaminare l'eccezione di rito» (in senso analogo si v. anche, Cass. 13 agosto 2018, n. 20718; Cass. 10 marzo 2021, n. 6762). Favorevole alla rilevabilità officiosa della inammissibilità della "domanda riconvenzionale" tardivamente proposta, non rilevata in primo grado e non dedotta con motivo di gravame, vi è un opposto orientamento giurisprudenziale, seguito di recente da Cass. 20 aprile 2020, n. 7941. A base di tale indirizzo vi è il seguente ragionamento: la decisione del giudice di primo grado nel merito senza previa statuizione su di un eventuale vizio processuale non eccepito né rilevato ex officio in primo grado, non comporta - in difetto di specifica impugnazione volta a far valere il vizio presupposto - la cristallizzazione della invalidità/decadenza attraverso il "giudicato implicito interno". Ne segue che detto vizio sarà rilevabile in ogni stato e grado del processo e quindi anche, per la prima volta, nel giudizio di legittimità. Come è evidente, in tale decisione vengono affrontati numerose questioni di notevole importanza sistematica che in questa sede non possono essere approfondite. Il riferimento è all'ordine di esame delle questioni e al primato della ragione più liquida, al rapporto tra rilevabilità d'ufficio e necessità di impugnazione della sentenza, al giudicato implicito in caso di violazione delle norme processuali. Nel caso di specie, il giudice di primo aveva deciso nel merito, rigettandola, una domanda proposta in via riconvenzionale. Ora, non pare dubbio che l'ammissibilità della domanda riconvenzionale è condizione di decidibilità nel merito della stessa e dunque è un presupposto processuale, il cui difetto è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo. Vi è perciò da chiedersi se in caso di tardività della stessa e di conseguenza sua inammissibilità, il giudice possa esaminarla nel merito. La risposta dovrebbe essere positiva laddove si ritenesse applicabile il criterio del primato della ragione più liquida, per cui nel caso in cui la causa sia idonea ad essere subito decisa con rigetto della domanda sulla base di una questione di merito matura, ben può il giudice evitare di affrontare il profilo di rito. Per la dottrina, il primato della ragione più liquida può operare solo all'interno della stessa ‘‘categoria'' di questioni, pregiudiziali di rito o preliminari di merito, ma non nel rapporto tra rito e merito, per il quale l'ordine di esame deve essere rispettato (Luiso, Diritto processuale civile, Il processo di cognizione, Milano, 2019, 457). Tale è la conclusione cui giunge anche la decisione in commento, per la quale la violazione del rapporto di pregiudizialità tra rito e merito fa sì che la sentenza sia affetta da un vizio di nullità e come tale sia impugnabile nelle forme dell'appello principale o incidentale. Sennonché, nel caso di specie, nonostante l'eccezione di rito, il giudice ha del tutto ignorato la questione ed ha semplicemente deciso nel merito la domanda riconvenzionale; egli, pertanto, non ha scelto di pronunciare nel merito invece che affrontare e decidere pregiudizialmente la questione di rito, i.e. non ha violato l'ordine di esame tra le questioni. Se ciò è vero occorre prendere atto che il giudice ha semplicemente omesso di esaminare la questione pregiudiziale di rito; l'omesso esame della questione, allora, se può di sicuro costituire motivo di impugnazione della sentenza, lascia comunque impregiudicata la questione non esaminata, per cui se il vizio non è stato rilevato e sanato dal giudice del primo grado, ben può la questione riemergere d'ufficio in sede di impugnazione. Ben conscia di ciò, la sentenza che qui si commenta richiama i precedenti della stessa Corte di legittimità che con riguardo alla questione di giurisdizione (v. per tutte Cass. civ., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883) hanno applicato il meccanismo del c.d. giudicato implicito, al punto di giungere all'affermazione secondo cui «il potere di rilievo "anche ex officio" dei vizi relativi alla attività processuale, attribuito dalla norma del processo o desumibile dallo scopo di interesse pubblico, indisponibile dalle parti, sotteso alla norma processuale che stabilisce un requisito formale, prescrive un termine di decadenza o prevede il compimento di una determinata attività, deve essere esercitato dal giudice di merito, in difetto di espressa autorizzazione normativa alla rilevazione "in ogni stato e grado" ed escluse le ipotesi di "vizi relativi a questioni fondanti (che rendono l'attività svolta del tutto difforme dal modello legale del processo), al più tardi entro il grado di giudizio nel quale il vizio si è manifestato, rimanendo precluso tanto al giudice del gravame, quanto alla Corte di cassazione, il potere di rilevare, per la prima volta, tale vizio di ufficio (o su eventuale sollecitazione della parte interessata all'esercizio di tale potere officioso), ove la relativa questione non abbia costituito specifico motivo di impugnazione, ovvero sia stata ritualmente riproposta». La soluzione proposta, invero, lascia alquanto perplessi: come è stato condivisibilmente osservato, «il cosiddetto giudicato implicito non deve trovare cittadinanza nel nostro ordinamento processuale: solo una decisione espressa, infatti, consente l'impugnazione, tramite la contestazione delle ragioni che la fondano; senza un provvedimento ed una motivazione non è possibile impugnare la “decisione” (che non esiste) sulla questione pregiudiziale di rito» (Amadei, Questione di rito non esaminata e rilievo d'ufficio in sede di impugnazione, in Giur. it., 2020, 2453). Opinare in senso contrario significa imporre alla parte di proporre l'impugnazione al solo scopo di evitare che si formi il giudicato su una questione che peraltro non è stata mai né affrontata, né decisa, senza dunque che vi sia una decisione e soprattutto una motivazione da poter contestare, circostanza che non è logicamente, prima che normativamente, sostenibile. Riferimenti
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