Ricorso per cassazione improcedibile: è dovuto il raddoppio del contributo unificato?
12 Dicembre 2022
Massima
La Corte di legittimità rimette gli atti al Primo Presidente della Corte di cassazione per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite Civili, in ragione e per la soluzione della questione – ritenuta di particolare importanza ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c. – riguardante l'applicazione al caso di specie, in cui il ricorso è stato dichiarato improcedibile e non è avvenuta l'iscrizione a ruolo del ricorso ad opera del ricorrente, del disposto di cui all'art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115/2002, nel testo introdotto dalla l. n. 228/2012, art. 1, comma 17, ai sensi del quale, quando l'impugnazione, anche incidentale, è dichiarata improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a nonna dello stesso art. 13, comma 1-bis. Il caso
Il contribuente - come si evince dal controricorso dell'Agenzia delle entrate, unico atto depositato nel fascicolo processuale - in data 13 dicembre 2021 proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell'Abruzzo resa nei suoi confronti; nondimeno, questi ometteva il deposito in Cancelleria e la conseguente iscrizione a ruolo del fascicolo, come da certificazione negativa della Cancelleria centrale civile in atti del 26 marzo 2022, ex art. 369 c.p.c. ai sensi del quale il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte, a pena di improcedibilità - art. 375, 387 c.p.c. - nel termine di giorni venti dall'ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto. La questione
Si discute, nella giurisprudenza di Legittimità, se nel caso in cui il ricorso per cassazione sia stato dichiarato improcedibile per non esser avvenuta l'iscrizione a ruolo del ricorso ad opera del ricorrente, trovi o no applicazione il disposto di cui all'art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115/2002, nel testo introdotto dalla l. n. 228/2012, art. 1, comma 17, ai sensi del quale, quando l'impugnazione, anche incidentale, è dichiarata improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a nonna dello stesso art. 13, comma 1-bis. Il Collegio si chiede quindi se trovi applicazione al caso di specie, in cui parte ricorrente, dopo aver notificato il ricorso all'Agenzia delle entrate, non ha provveduto al deposito dello stesso presso la cancelleria di questa Corte nei termini di cui all'art. 369 c.p.c., il disposto di cui all'art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115/2002, nel testo introdotto dalla l. n. 228/2012, art. 1, comma 17, ai sensi del quale, quando l'impugnazione, anche incidentale, è dichiarata improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a nonna dello stesso art. 13, comma 1-bis. L'ordinanza, nel ricostruire i due orientamenti giurisprudenziali che si fronteggiano, con dovizia di particolari, premette come secondo un primo orientamento, che qualifica come “ampiamente maggioritario” (ex multis, Cass., sez. un., 18 ottobre 2022, n. 30702; Cass., sez. un., 4 marzo 2016, n. 4250; Cass., sez. I, 5 ottobre 2022, n. 28898; Cass., sez. II, 3 ottobre 2022, n. 28588; Cass., sez. III, 28 marzo 2022, n. 9869; Cass., sez. lav., 23 settembre 2022, n. 27884; Cass., sez. trib., 31 agosto 2022, n. 25620; Cass., sez. VI-I, 22 luglio 2022, n. 22990; Cass., sez. VII, 8 marzo 2022, n. 7538; Cass., sez. VI-IV, 26 luglio 2022, n. 23310; Cass., sez. VI-V, 1° settembre 2022, n. 25787, il pagamento del contributo unificato è in questo caso dovuto. Opportunamente, l'Estensore precisa che tali pronunce, sul punto specifico, “non motivano”. Quindi, nel dar conto dell'opposto orientamento, la Corte lo definisce “cospicuo ma nettamente minoritario e sviluppatosi all'interno della sola sottosezione tributaria della sezione sesta”; in particolare, condividono questo secondo orientamento, svariate pronunce (Cass., sez. VI-V, 17 marzo 2022, n. 8728; Cass., sez. VI-V, 18 marzo 2022, n. 8890; Cass. sez. VI, 9 settembre 2022, n. 26309 (che richiama Cass. n. 8728/2022 cit.); Cass., sez. VI-V, 4 ottobre 2022, n. 28696 (che richiama Cass. n. 8728/2022 cit.); Cass., sez. VI-V, 14 settembre 2022, n. 27048; Cass., sez. VI-V, 1° agosto 2022, n. 23834; Cass., sez. VI-V, 25 maggio 2022, 16959; Cass., sez. VI-V, 25 maggio 2022, n. 16945; Cass., sez. VI-V, 26 aprile 2022, n. 13024; Cass., sez. VI-V, 16 marzo 2022, nn. 8538, 8539 e 8540). Le soluzioni giuridiche
Centrale, nell'argomentare del Collegio, che conclude per la particolare importanza e meritevole di disamina e soluzione in sede di Sezioni Unite, risulta quella decisione (Cass. civ., sez. VI, 17 marzo 2022, n. 8728) che più di altre ha sviluppato un ampio ragionamento, sul punto oggetto di interesse al fine dell'ordinanza di rimessione, partendo proprio dal principio di cui alla sentenza a Sezioni Unite n. 4315/2020. Essa osserva che «in tale pronuncia si è affermato che "l'obbligo di versare un importo "ulteriore" del contributo unificato (c.d. "doppio contributo") presuppone l'obbligo di versare il "primo" contributo unificato" (par. 7.1 della citata pronuncia), posto che "l'aggettivo "ulteriore", espressamente utilizzato dal Legislatore nel d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, primo periodo (c.d. T.U.G.S.), "significa che l'importo da versare si aggiunge e corrisponde a quello dovuto a titolo di contributo unificato per il giudizio di impugnazione, ex art. 13 T.U.S.G., comma 1-bis, al momento dell'iscrizione della causa a ruolo". Secondo detta pronuncia, "il carattere "ulteriore" dell'importo dovuto a titolo di contributo unificato non implica soltanto che l'entità di tale importo corrisponde all'entità del contributo iniziale, che perciò è "raddoppiato". Da ciò deriva che l'obbligo di versare un importo "ulteriore" del contributo unificato è - nella formula dell'art. 13 T.U.S.G., comma 1-quater - "normativamente e logicamente dipendente" dalla sussistenza del precedente obbligo della parte impugnante di versare inizialmente, al momento dell'iscrizione della causa a ruolo, il contributo unificato"; "In altre parole, l'obbligo di corresponsione di un ulteriore importo del contributo unificato è "normativamente condizionato" alla debenza del contributo unificato iniziale e può sorgere solo a condizione che tale contributo sia dovuto: la debenza del contributo unificato iniziale costituisce, dunque, il presupposto sostanziale della debenza del raddoppio". Osservazioni
Alla luce di tali premesse, ritengo del tutto inattaccabile la considerazione secondo la quale mentre spetta al giudice accertare e dare atto della sussistenza del primo dei due presupposti individuati dal art. 13 T.U.S.G., comma 1-quater, primo periodo, per il sorgere dell'obbligo di versare il doppio contributo, ovvero che sia stata adottata una pronuncia corrispondente ad uno dei tipi (integrale rigetto o inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione) previsti dalla legge, trattandosi di presupposto che appartiene al campo del diritto processuale, compete, invece, in via esclusiva all'amministrazione giudiziaria, vale a dire alla Cancelleria, appartenente funzionalmente alla struttura del Ministero delle Giustizia (e, solo in caso di contestazione, alla giurisdizione tributaria) accertare la sussistenza del secondo presupposto, che "appartiene al campo del diritto sostanziale tributario" e che è "costituito dalla debenza del contributo unificato iniziale". Depone in tal senso, secondo la pronuncia in commento, il fatto che le Sezioni Unite hanno precisato la necessità per il giudice di non formulare alcuna attestazione nei casi di esclusione in radice del raddoppio del contributo unificato: così, ad es., quando dichiari l'estinzione del giudizio (Cass., sez. VI -I, 12 novembre 2015, n. 23175; Cass., sez. VI-III, 30 settembre 2015, n. 19560) o quando dichiari l'inammissibilità sopravvenuta dell'impugnazione per cessazione della materia del contendere (Cass., sez. VI-II, 2 luglio 2015, n. 13636)". Il caso in esame pare risultare analogo ai sopra citati, dal momento che non sussistendo i presupposti per il versamento del contributo (difettando l'iscrizione a ruolo che ne è ragione giustificatrice quanto a fondamento fattuale e giuridico del prelievo) mancano i presupposti per la sua duplicazione. Direbbero i matematici che la moltiplicazione di zero per un numero, dà comunque zero. L'orientamento opposto, specialmente in due pronunce citate opportunamente in motivazione (Cass., sez. V, 22 marzo 2022, n. 9206; Cass., sez. VI-III, 17 giugno 2022, n. 19651) dapprima sottolinea come la ragione del c.d. “raddoppio” andrebbe qui trovata nella natura lato sensu sanzionatoria della norma in questione («in ragione della definizione agevolata della controversia non si ravvisano i presupposti per imporre il pagamento del cd. doppio contributo siccome misura applicabile ai soli casi tipici di rigetto, inammissibilità o improcedibilità del gravame e pertanto non suscettibile, per la sua natura lato sensu sanzionatoria, di interpretazione estensiva o analogica: Cass., sez. VI-V, 5 dicembre 2018, n. 31372; Cass., sez. VI-V, 7 giugno 2018, n. 14782»). Diverso respiro e maggior ampiezza sul piano generale hanno le considerazioni che l'ordinanza propone nell'esaminare la collocazione dell'istituto in parola all'interno dell'ordinamento processuale e istituzionale. Per quanto – sul piano meramente pratico – certo il Collegio non dimentichi “il notevole arretrato tuttora pendente in Cassazione”, resta il fatto che “ancora oggi chiunque può accedere alla Corte di legittimità, quand'anche non siano in gioco diritti fondamentali ma una semplice somma di denaro e pure nell'ipotesi in cui tale somma controversa sia davvero esigua”. Eppure, come ricorda l'Estensore, tale via larga di accesso alla Corte di cassazione è del resto ritenuto conforme al dettato costituzionale, in quanto l'art. 111, comma settimo, della Costituzione, stabilisce che contro le sentenze pronunciate dagli organi giurisdizionali, ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge: la previsione è conforme al dettato di cui all'art. 24 Cost., secondo cui da un lato "tutti" (quindi non solo il cittadino ma anche lo straniero) "possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi" (quindi senza alcuna distinzione relativa all'ammontare della somma controversa) e dall'altro "la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento". Inoltre, il diritto di agire in giudizio costituisce, secondo la Corte costituzionale, un diritto "inviolabile e quindi fondamentale" (cfr. Corte cost., sent., n. 114 del 2018): tale diritto, dunque, nella gerarchia dei valori tracciata negli anni dalla Consulta, occupa una posizione di vertice, sia pur in posizione di equilibrio con altri diritti di pari rango costituzionale, e costituisce quindi un limite anche per eventuali disposizioni in senso contrario dell'Unione Europea (in questo senso la giurisprudenza della Consulta è costante fin dalla sentenza n. 170 del 1984). Proprio nella relazione di bilanciamento con altri diritti, è altrettanto vero che tale diritto fondamentale del singolo di accedere sempre e incondizionatamente alla giustizia – anche per i costi assai notevoli che comporta per il sistema, e in ultimo quindi per i cittadini contribuenti che lo finanziano con le proprie imposte – va però fatto oggetto di una sorta di bilanciamento con il diritto, altrettanto fondamentale, della collettività all'efficienza della Giustizia in genere e ad una ragionevole durata dei processi (artt. 111 Cost. e 6 CEDU). Particolarmente analitica, sotto questo profilo, è la disamina che l'ordinanza al il principio di ragionevolezza e quello del divieto di abuso del processo, quest'ultimo espressione del più generale principio del divieto dell'abuso del diritto, che ritiene di fare derivare dal principio di solidarietà, il quale, analogamente alla buona fede, impone di salvaguardare l'utilità altrui nei limiti di un non apprezzabile sacrificio e il cui appiglio costituzionale viene identificato nell'art. 2 Cost. Il rispetto di tale disposizione della Carta fondamentale va inteso, si sostiene nell'ordinanza, come dovere nei confronti dell'ordinamento giuridico, e quindi della collettività; dovere che impone di astenersi da proporre ricorsi improcedibili, in quanto la collettività non può permettersi di sopportare il costo, economico e sociale, di un numero eccessivo di cause; in particolar modo risultano prive di senso e di utilità cause che sono viziate da improcedibilità, come tali inidonee a giungere a una decisione che valuti il contenuto della domanda, la cui proposizione nasce quindi per una velleità del singolo – non a tutela di un diritto, coltivata con l'ordinaria diligenza di chi lo vanta e difende - e muore, però, a costi della collettività. Neppure, quindi, può ritenersi ossa ritenersi "giusto" il processo che costituisca esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi, mentre l'effetto inflattivo che deriverebbe dalla moltiplicazione di giudizi si pone in contrasto con la "ragionevole durata del processo", per l'evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata. Le considerazioni appena espresse, a questo punto, vengono ridimensionate dalla collocazione delle stesse – come è giusto – nel sistema processuale tributario, nel quale ciò di cui si discute è la debenza o meno di una maggiore somma per tributi, interessi e sanzioni come manifestata dall'Amministrazione Finanziaria. Richiamando con precisione la giurisprudenza della Consulta, la Corte di legittimità nota come il sistema connoti di un valore particolarmente significativo al diritto all'accesso alla Giustizia rispetto al dovere tributario; il rimando è alla recente pronuncia con la quale (Corte cost. n. 140 del 2022) si è ricordato che il legislatore, nell'ambito della grande riforma fiscale degli anni settanta del secolo scorso, ha previsto all'art. 7, numero 7), della legge delega 9 ottobre 1971, n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria), come principio direttivo, quello di eliminare «ogni impedimento fiscale al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi». L'ordinamento si è così indirizzato verso un nuovo e più proporzionato bilanciamento tra i valori costituzionali che vengono in rilievo nella previsione di oneri fiscali condizionanti l'accesso alla tutela giurisdizionale. Quindi, pur potendo esistere casi in cui il dovere tributario può sì tradursi in oneri concernenti l'esercizio dello stesso diritto alla tutela giurisdizionale, in concreto, ciò può avvenire solo nel rispetto del principio di proporzionalità e in particolare della stretta necessità, risultando costituzionalmente legittimo, quindi, solo quando l'adempimento di tale dovere non possa essere adeguatamente tutelato in altro modo. Anche la giurisprudenza della Corte costituzionale, dunque, sembrerebbe suggerire – secondo l'ordinanza in nota – una lettura di stretta interpretazione dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002. Neppure, a sommesso avviso dello scrivente, invalida tali conclusioni la considerazione secondo la quale l'Amministrazione avrebbe comunque svolto attività processuale concretamente inutile, provvedendo essa alla iscrizione a ruolo; s tratta invero di una circostanza di mero fatto, che peraltro può verificarsi come non verificarsi, e che se valorizzata in questa sede provocherebbe una interpretazione del sistema normativo tale da risultare eteroclita secundum eventum, in violazione di ogni regola di certezza del diritto. |