Licenziamento disciplinare e abuso di permessi sindacali da parte del dirigente sindacale

14 Dicembre 2022

La Corte di Cassazione, nell'ordinanza in commento, si pronuncia sul caso di un lavoratore licenziato per l'asserita indebita fruizione del permesso sindacale ex art. 30 L. n. 300/1970, concessogli dall'azienda.
Massima

La qualificazione della condotta del dipendente in termini di abuso del diritto appare coerente con l'accertamento della concreta vicenda, venendo in rilievo non la mera assenza dal lavoro, ma un comportamento del dipendente connotato da un quid pluris rappresentato dalla utilizzazione del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali; questo esclude la riconducibilità della condotta alle richiamate norme collettive che puniscono con sanzione conservativa la assenza dal lavoro, la mancata presentazione o l'abbandono ingiustificato del posto di lavoro.

Il caso

Un lavoratore, membro del Comitato Direttivo Regionale e Provinciale dell'Organizzazione Sindacale UILTEC, veniva licenziato per l'asserita indebita fruizione del permesso sindacale ex

art. 30 L. n. 300/1970

, concessogli dall'azienda.

Questi formulava reclamo, ex art. 1 comma 58 L. n. 92/2012, avverso la sentenza di primo grado - a riforma dell'ordinanza resa nella fase sommaria che, pronunciando sul licenziamento disciplinare irrogatogli e da lui impugnato, aveva ritenuto sproporzionato tale licenziamento e, pertanto, aveva dichiarato estinto il rapporto di lavoro, condannando la società datrice di lavoro al pagamento di una indennità pari a n. 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione ed interessi legali - ha dichiarato la legittimità del licenziamento impugnato ed ha condannato, altresì, esso lavoratore al pagamento delle spese processuali. In secondo grado, la Corte d'appello, pronunziando in sede di reclamo ex lege n. 92/2012, confermava la sentenza di primo grado che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa e Cassazione, con ordinanza n. 26198/2022, rigettava il ricorso del lavoratore, confermando, anch'essa, la legittimità del licenziamento.

Le questioni

Gli aspetti sostanziali, che qui interessano, riguardano:

- la (errata) qualificazione del fatto dedotto nella contestazione disciplinare, sul presupposto che la sentenza impugnata non aveva ricondotto la concreta fattispecie all'ipotesi dell'assenza ingiustificata punita con sanzione conservativa dal contratto collettivo;

- la scelta della sanzione disciplinare, conservativa o espulsiva, in correlazione alla natura delle condotte illecite descritte nel codice disciplinare del CCNL;

- la valutazione di proporzionalità della sanzione comminata rispetto al fatto illecito contestato, con specifico riguardo al licenziamento disciplinare (per giusta causa).

Le soluzioni giuridiche

Per quanto di interesse in questa sede, occorre concentrarsi sulle argomentazioni e l'assetto degli indirizzi ermeneutici cui ricorrono i giudici di legittimità nel confrontarsi con i motivi di ricorso addotti da parte attorea.

Il ricorrente deduce violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, censurando la sentenza impugnata per non avere ricondotto la concreta fattispecie all'ipotesi dell'assenza ingiustificata punita con sanzione conservativa dal contratto collettivo; nonché violazione dell'art. 54 CCNL. Gomma e Plastica, censurando la sentenza impugnata sul rilievo che la norma collettiva puniva con sanzione espulsiva solo l'assenza ingiustificata protratta per oltre cinque giorni consecutivi o ripetuta per cinque volte in un anno nei giorni seguenti alle festività e alle ferie mentre la sanzione conservativa, della multa o della sospensione dal lavoro, trovava applicazione alla stregua delle previsioni collettive nell'ipotesi in cui il lavoratore non si presenti al lavoro o abbandoni il proprio posto di lavoro senza giustificato motivo (pag. 4, sentenza in commento).

Per gli Ermellini, le censure non sono fondate per la diversa qualificazione della fattispecie concreta. Non trattavasi, infatti, di assenza ingiustificata, giacché il lavoratore aveva richiesto il permesso ex art. 30 Stat. Lav., per il quale aveva ottenuto dal datore di lavoro il consenso (peraltro, non necessario in quanto la fruizione dei permessi ex artt. 23, 24 e 30 Stat. Lav. appartengono alla categoria dei diritti soggettivi potestativi, che per il loro esercizio non abbisognano di accettazione), bensì di condotta illecita per abuso del diritto, atteso che il giudice dell'opposizione, come confermato dalla corte territoriale, con l'accertamento della concreta vicenda, aveva posto in rilievo non la mera assenza dal lavoro, ma un comportamento del dipendente connotato da un quid pluris rappresentato dalla utilizzazione del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali; questo esclude la riconducibilità della condotta alle richiamate norme collettive che puniscono con sanzione conservativa la assenza dal lavoro, la mancata presentazione o l'abbandono ingiustificato del posto di lavoro. Né viene qui in rilievo, per completezza di analisi, la questione dell'applicazione della reintegrazione nei casi di licenziamenti disciplinari intimati per “condotte punibili con sanzioni conservative” (art. 18, co. 4, L. n. 300/1970), atteso che la fattispecie fattuale integra l'ipotesi di causa giustificativa non contemplata dalla contrattazione collettiva applicata.

Ne è derivato, quindi, un uso improprio del permesso sindacale.

Parte ricorrente ha sollevato il tema del giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva, in particolare sotto il profilo della non idoneità dell'unico episodio contestato a determinare il venir meno nella parte datoriale della fiducia nella correttezza dei futuri adempimenti.

L'art. 2019 c.c., disciplina gli effetti del licenziamento ma non specifica in concreto cosa debba intendersi per giusta causa, per cui la nozione legale -causa che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro- rappresenta un concetto indeterminato e proprio per questo motivo svolgono un'importante funzione esemplificativa da una parte sia la contrattazione collettiva sia i codici disciplinari aziendali che prevedono tutta una serie di inadempimenti o di fatti tali da legittimare l'esercizio del potere di licenziare (inadempimento non previsto nel caso di specie). Nel tempo la contrattazione collettiva, così come la giurisprudenza, ha provveduto a un'opera di tipizzazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento indicando alcune situazioni che secondo la valutazione delle parti sociali da una parte, dei giudici dall'altra, possono integrarne gli estremi.

Peraltro, il concetto di giusta causa (o di giustificato motivo soggettivo) e di proporzionalità della sanzione disciplinare costituiscono clausole generali, vale a dire disposizioni di limitato contenuto, che richiedono di essere concretizzate dall'interprete tramite valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, a condizione però che la contestazione in tale sede contenga una specifica denuncia di incoerenza del giudizio rispetto agli "standards" esistenti nella realtà sociale e non si traduca in una richiesta di accertamento della concreta ricorrenza degli elementi fattuali che integrano il parametro normativo, accertamento che è riservato ai giudici di merito (Cass. n. 7426/2018, Cass. n. 25144/2010) (pag. 7 della sentenza).

Per costante giurisprudenza, il giudice di merito deve valutare se vi è proporzione tra l'infrazione commessa dal lavoratore e la sanzione irrogatagli. A tal fine deve tenere conto anche delle circostanze oggettive e soggettive della condotta e di tutti gli altri elementi idonei a verificare se il disposto dell'art. 2119 c.c. - richiamato dalla L. n. 604/1966, art. 1, - sia adeguato alla fattispecie concreta (cfr., ex aliis, Cass. n. 8456/2011; Cass. n. 736/2002; Cass. n. 1144/2000).

In altre parole, il giudice investito della domanda con cui si chieda l'invalidazione d'un licenziamento disciplinare, accertatane in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, deve controllare che l'infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta

causa o del giustificato motivo soggettivo di recesso (ossia che costituisca notevole inadempimento degli obblighi del dipendente) e, in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto (e non semplicemente in astratto) la gravità della condotta. Infatti, è pur sempre necessario che essa rivesta il carattere di grave negazione dell'elemento essenziale della fiducia e sia idonea a ledere irrimediabilmente l'affidamento circa la futura correttezza nell'eseguire la prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi che gli fanno carico (cfr., ex aliis, Cass. n. 15058/15; Cass. n. 2013/12; Cass. n. 2906/05; Cass. n. 16260/04; Cass. n. 5633/01) (Cfr. Cass. civ., sez. lav., 29 marzo 2017, n. 8131 (data ud. 13 dicembre 2016).

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo” (così Cass., sez. lav., 13 febbraio 2012, n. 2013; conf. Cass., sez. lav., 23 maggio 2018, n. 12798).

Il Giudice territoriale, ispirando il proprio incedere argomentativo agli insegnamenti sopra delineati, sostanzialmente condivisi dalla sentenza in commento, ha affermato “che, ai fini della valutazione di proporzionalità tra la sanzione e il fatto addebitato, il giudice non possa limitarsi a considerare solamente il dato quantitativo - nella specie quello dei giorni di indebita fruizione del permesso (come anche per i casi di pochezza del danno patrimoniale causato dalla mancanza del lavoratore) - dovendo invece valorizzare tutti gli elementi soggettivi e oggettivi caratterizzanti la condotta incriminata, in particolare l'intensità del dolo e le effettive conseguenze della condotta medesima” (App. L'Aquila, 11 luglio 2019, n. 516).

In genere la giusta causa di licenziamento, quale clausola generale, viene integrata valutando una molteplicità di elementi fattuali, la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., solo ove si denunci che la combinazione ed il peso dei dati fattuali, come definiti ed accertati dal giudice di merito, non ne consentono la riconduzione alla nozione legale; al contrario, l'omesso esame di un parametro, tra quelli individuati dalla giurisprudenza, avente valore decisivo, nel senso che l'elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia, va denunciato come vizio di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ferma, in tal caso, la possibilità di argomentare successivamente che tale vizio avrebbe cagionato altresì un errore di sussunzione per falsa applicazione di legge (V. Cass. 23 settembre 2016, n. 18715, in Riv. it. dir. lav., 2017, 2, II, con nota di J. Mugneco, La giusta causa di licenziamento tra tecnica del precedente e certezza del diritto).

Sul punto della corretta applicazione dell'art. 2119, c.c., con riguardo in particolare alla valutazione di proporzionalità tra gravità del fatto addebitato e provvedimento espulsivo, il giudice di secondo grado ricorre al consolidato principio, peraltro accolto sostanzialmente anche nella sentenza ivi commentata, per il quale in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza (Cass. 2013/2012 cit.).

Pertanto, secondo il Giudice di merito, citando alcuni arresti della S.C., il giudice non può limitarsi a considerare solamente il dato quantitativo - nella specie quello dei giorni di indebita fruizione del permesso (come anche per i casi di pochezza del danno patrimoniale causato dalla mancanza del lavoratore) - dovendo invece valorizzare tutti gli elementi soggettivi e oggettivi caratterizzanti la condotta incriminata, in particolare l'intensità del dolo e le effettive conseguenze della condotta medesima. L'indebita utilizzazione dei permessi non si traduce in un inadempimento ma rivela l'inesistenza di uno degli elementi costitutivi del diritto. “Non si è realizzato, quindi, un mero inadempimento, ma un vero e proprio abuso del diritto, in quanto il lavoratore ha approfittato della propria posizione ricoperta nella Uiltec per estorcere al datore di lavoro un permesso (peraltro retribuito) che, ai sensi dell'art. 30 Stat. Lav., certamente non poteva essergli negato, costringendo l'azienda a riorganizzare i turni di lavoro”.

Non va sottaciuto, infine, che secondo giurisprudenza consolidata, anche i comportamenti estranei al “rapporto” assumono rilevanza, nelle ipotesi in cui siano tali da far venir meno l'elemento fiduciario che connota il rapporto di lavoro (v. Cass. 8 febbraio 1993, n. 1519, in R. Ciavarella, L'abusivo utilizzo dei permessi ex art. 24 St. lav. integra una condotta disciplinarmente rilevante, in Riv. it. dir. lav., 2, 2020).

Minimi riferimenti bibliografici

I. Fedele, Il licenziamento disciplinare, AA.VV., Il Licenziamento, Milano, 2019.

P. Ferrari, licenziamento disciplinare, reintegrazione, e tipizzazione collettiva anche in presenza di “clausole generali”, in ADL n. 5/2022.

Per una critica degli indirizzi interpretativi della Corte di Cassazione sul rapporto di Clausole generali, clausole elastiche e valutazione fattuale, S. De Matteis, Il sindacato della Cassazione sulle clausole generali, tra fatto e diritto, in Giust. Civ., 2, 2022.

V. Ferrante, Clausole generali, buona fede e contratto di lavoro, in DRI, 1, 2021.

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