Il rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di cassazione
15 Dicembre 2022
Introduzione. Un nuovo istituto con radici antiche
La cd. giurisdizione consultiva – vale a dire la funzione ermeneutica svolta da altri rispetto al giudice che deve trarne le conseguenze applicative nel caso concreto - ha radici antiche e più o meno nobili. Se si vuole dare un comune denominatore alla gran parte di questi esempi storici, la situazione del giudice che invece di decidere consulta altri, ad altri rivolgendo il “quid iuris”, corrispondeva all'obiettivo politico di rafforzare il monopolio apicale della giurisdizione in mano al potere sovrano ovvero, e proprio nella forma più drastica del référé législatif, di evitare che il giudice si faccia “interprete” della legge, cosa - nella concezione di quel torno di tempo - del tutto arbitraria.
Molta acqua è poi passata sotto i ponti, specie a questo ultimo riguardo: la pronta e radicale inversione di tendenza, dopo le utopie dei rivoluzionari francesi, ha visto il giudice soggetto sì alla legge, ma signore della sua interpretazione, donde semmai l'esigenza di uniformare le sparse interpretazioni giudiziali.
L'attualità europea della giurisdizione consultiva è prepotentemente occupata dal ben noto rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'UE (art. 267 TFUE) sulla interpretazione o validità di disposizioni ed atti “comunitari” (a sua volta debitore di qualche ispirazione a sistemi nazionali e da ultimo imitato, con non poche significative varianti e pochissima fortuna, dal “rinvio consultivo” alla CEDU ex Protocollo n. 16).
Un rinvio pregiudiziale interpretativo (il modello del rinvio di “validità” nel nostro sistema interno, con numerose e rilevanti differenze, è occupato della rimessione pregiudiziale alla Corte costituzionale) è ora introdotto anche nel nostro ordinamento. Sulla scia di un principio di delega (art. 1, comma 9, lett. g) della Legge 26 novembre 2021, n. 206) particolarmente dettagliato e ritenuto da molti pressoché self-executing, il legislatore delegato (art. 3, comma 27 lett. c) del Dlgs. 10. 12. 2022, n. 149) ha introdotto il nuovo art. 363-bis c.p.c.
In esso si prevede che il giudice di merito possa sospendere il giudizio innanzi a sé ed interpellare la Suprema Corte per la fissazione di un principio vincolante su di una questione di diritto, rilevante per la decisione a lui affidata, purché sussistano tre concorrenti condizioni: la “novità” della questione; la “gravità” delle “difficoltà interpretative”; la potenziale emersione della medesima questione “in numerose controversie”, condizione quest'ultima che definirò d'ora innanzi come quella della “serialità”.
Proprio quest'ultima condizione segna una comprensibile differenza funzionale rispetto al rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di giustizia. Quest'ultimo, quale elemento fondamentale di un sistema giurisdizionale integrato ma non “federale”, è stato escogitato con la prevalente ed assorbente funzione di riservare in via preventiva alla Corte di giustizia quella funzione nomofilattico-uniformatrice che la medesima Corte non può svolgere in via successiva ed “impugnatoria”. Nel rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di cassazione, che quella funzione nomofilattica-uniformatrice svolge invece normalmente per via “impugnatoria”, si aggiunge una importante colorazione deflattiva.
Perciò il termine di paragone in realtà più pregnante è rappresentato, sul piano comparatistico attuale, dalla “saisine pour avis à la Cour de cassation” prevista dall'art. 441-1 del Code de l'organisation judiciaire francese (come modificato dalla Loi nn. 91-491 del 15.5.1991) e regolata dagli artt. 1031-1 ss. del Code de procédure civile. Essa è condizionata sostanzialmente ai medesimi tre presupposti, e come per il nostro nuovo rinvio pregiudiziale alla Cassazione, ed a differenza che per il rinvio pregiudiziale “comunitario”, vi corrisponde sempre una semplice facoltà e mai un obbligo del giudice a quo. Prevedibile e tutto sommato auspicabile anche per il nostro rinvio pregiudiziale è che i casi annuali si conteranno mediamente, come è accaduto in Francia, poco più che sulle dita delle mani. La legittimazione al rinvio
La disciplina del “rinvio pregiudiziale” prevista del nuovo art. 363-bis c.p.c., ed inserita dunque in sedes dedicata alla Corte di Cassazione, si rivolge tuttavia anzitutto al “giudice di merito”, per tale dovendosi intendere qualsiasi giudice innanzi al quale sia pendente un procedimento regolato dal c.p.c. e dalle leggi ad esso collegate, contenzioso, non contenzioso, camerale, esecutivo, cautelare ecc., e non potendosi, vista la genericità della formula scientemente adottata dal legislatore, trarre argomenti impeditivi del rinvio pregiudiziale dalla circostanza che la decisione del giudice di merito, rispetto alla quale la questione di diritto rinviata alla Cassazione è rilevante, non possa poi pervenire direttamente o indirettamente al sindacato impugnatorio della stessa Corte di cassazione o sia addirittura in radice inimpugnabile di guisa che il nominale vincolo al responso pregiudiziale per il giudice a quo resti in definitiva senza sanzione o almeno senza sanzione impugnatoria.
Nonostante la cennata genericità, quella formula esclude però, per ragioni sistematiche evidenti, e lasciando semmai l'iniziativa parallela ad altri futuri legislatori, i giudici diversi da quello civile anche quando si imbattano in questioni di diritto in ordine alle quali la Suprema Corte è in grado di esercitare la propria funzione uniformatrice. Non che nel codice di rito civile manchino occasionali menzioni al giudice diverso da quello civile anche in relazione alle funzioni della Corte di Cassazione, ma per l'appunto in assenza di un esplicito riferimento la espressione “giudice di merito” inserita in una norma del c.p.c. può alludere solo ed esclusivamente al giudice civile.
Resterebbe il problema degli arbitri rituali, i quali oltretutto emanano lodo perequato quoad effectum alla sentenza e sia pure in casi marginali controllabile anche per violazione di norme di diritto. Ammesso che i presupposti di un rinvio pregiudiziale arbitrale sussistano in astratto (il che è alquanto problematico specie riguardo alla “serialità”) la sua effettuazione e la sua ammissione non sarebbero in thesi eretiche. Sennonché esse sconteranno de facto, da un lato, la ritrosia degli arbitri (e delle parti o almeno di una di esse) rispetto alla rimessione alla giurisdizione statuale di funzione, anche quella del giudizio di diritto, che la convenzione compromissoria ha voluto esercitata da giudici privati; d'altro lato la verosimile scarsa disponibilità della Cassazione a farsi interpellare da giudici privati, sicché fra i due atteggiamenti di fronte all'arbitro quale iudex a quo, quello da ultima “aperturista” della Consulta riguardo al rinvio pregiudiziale costituzionale e quello tuttora “chiusurista” della Corte di Giustizia riguardo al rinvio pregiudiziale “comunitario”, la nostra Cassazione adotterà, sebbene per altre ragioni, probabilmente il secondo. Il contraddittorio ed il momento opportuno per il rinvio
Sebbene si tratti di Richterklage e cioè di domanda “da giudice a giudice”, il contraddittorio a riguardo è assicurato. Lo è ovviamente - come oltre si vedrà - innanzi alla Suprema Corte. Lo è ex ante perché la scelta del rinvio pregiudiziale deve essere effettuata - ai sensi del c. 1 dell'art. 363-bis conforme al principio di delega - “sentite le parti costituite” nei modi che il giudice del merito riterrà congrui (di previa “provocazione” del “contraddittorio fra le parti” discorreva la delega: la precisazione aggiuntiva che le parti sono quelle “costituite” è pressoché superflua perché a nessuno sarebbe comunque venuto in mente, visto il carattere tassativo dell'art. 292 c.p.c., che il contraddittorio dovesse essere provocato anche nei riguardi del contumace).
Il problema è se il contraddittorio debba essere necessariamente ripreso anche a valle del responso della S.C., la cui efficacia vincolante ex lege può però lasciar spazio a sottili questioni riguardo alla concreta applicazione ai fini della conclusiva definizione del giudizio a quo. Non credo si debba dare drastica risposta affermativa sul piano formale (errori nella applicazione concreta del principio di diritto saranno rimediabili per via impugnatoria), né credo che l'ordinanza di rinvio pregiudiziale comporti di per sé e sempre una successiva “rimessione in istruttoria”. Però, se non è necessitato, il contraddittorio sul responso pregiudiziale una volta che gli atti tornino al giudice di merito non può certo essere vietato. Perciò, ad esempio, nella nuova struttura del giudizio di cognizione di primo grado ed anche d'appello, posto che necessariamente si dovrà aprire il contraddittorio sul rinvio pregiudiziale al più tardi con le conclusionali e repliche, e nulla impedisce che il giudice del merito lette le une e le altre confezioni l'ordinanza di rinvio senza obbligatoriamente “andare in decisione”, alle parti sarà comunque data possibilità di interloquire sul responso della Suprema Corte, nel frattempo sopraggiunto, all'udienza di “rimessione in decisione” (se del caso postergata a seguito della sospensione e poi riscadenzata).
Resta su tutto che, come per il rinvio pregiudiziale al Lussemburgo, il giudice a quo è tendenzialmente libero di scegliere il momento opportuno per interpellare la Corte, dovendosi oltretutto ipotizzare che accanto a interrogativi riguardanti norme applicabili al merito della lite, altri possano esservi, forse meno frequenti, riguardanti questioni di rito o di disciplina della prova. Ma certamente il momento di regola più opportuno, sempre nella nuova struttura del giudizio di cognizione di primo grado, sarà subito dopo o contemporaneamente alla prima udienza, e con contraddittorio sulla rimessione svolto nelle memorie precedenti a seguito di provocazione del giudice contenuta nella pronuncia sulle “verifiche preliminari” di cui al nuovo art. 171 bis c.p.c., purché la questione di diritto affiori già con sicura rilevanza dagli atti introduttivi; ovvero, ed in caso contrario, dopo la chiusura della trattazione e dell'istruttoria ed in luogo della fissazione dei termini finali di cui ai novellati artt. 189 e 352. Per contro, sebbene non spetti alla Suprema Corte, come non spetta alla Corte di Giustizia, sindacare la scelta del “momento”, un rinvio pregiudiziale talmente prematuro da essere puramente ipotetico ed incerto nella sottoposizione della questione rischierà di non essere ammesso dal Primo presidente. Che l'ordinanza di rinvio pregiudiziale debba essere motivata è cosa piuttosto ovvia. La Legge di delega era silente in proposito, e il Decreto attuativo altro non ha fatto che specificare tale ovvietà. Altrettanto ovviamente la motivazione si incentrerà sulla rappresentazione sintetica della sussistenza delle tre condizioni concorrenti.
a) La condizione della “serialità” (n. 3 dell'art. 363-bis, comma 1) è quella ove maggiore può essere l'apporto informativo del giudice rimettente, supportato eventualmente dall'ufficio del processo o dalle interlocuzioni con altre sezioni e tribunali. Ma conformemente alle funzioni della giurisdizione consultiva e ad un suo certo grado di elasticità non si può escludere che la Suprema Corte, rectius il Primo presidente, supportato a sua volta dall'Ufficio del Massimario o dalla Procura Generale, ravvisi indizi di possibile “serialità” non indicati dalla ordinanza ed ammetta il rinvio, ma anche ed al contrario che non trovi plausibili quelli indicati dal giudice del merito.
La condizione della “serialità” affida al Primo presidente un indubbio margine di discrezionalità (staremo a vedere come esso sarà esercitato) e ben esprime la fondamentale intentio legislativa: il rinvio pregiudiziale non deve essere solo un modo per disimpegnare il singolo giudice dalle difficoltà interpretative, ma deve giovare tangibilmente pro futuro.
b) La condizione di cui al n. 1 del comma primo è in realtà duplice: “rilevanza” e “novità” della questione.
La motivazione della ordinanza dovrà dunque enunciare o rendere percepibile anzitutto il profilo di rilevanza della questione e cioè che essa sia effettivamente “necessaria alla definizione anche parziale del giudizio”. Questo profilo condizionante (esso pure scontato ad evitare consultazioni semplicemente accademiche) non era appositamente enunciato come tale nella Legge di delega ed era semmai esplicitato in termini più generici nell'esordio del principio (lett. g) e quale etichetta funzionale del nuovo istituto: “il giudice del merito quando deve decidere una questione”. La maggior specificità della enunciazione attuativa, quale apposita condizione di ammissibilità del rinvio, non deve ovviamente indurre a limitazioni che tradiscano la evidente funzionalità del meccanismo: perciò per “definizione anche parziale del giudizio” dovrà intendersi la decisione non solo su qualunque questione di merito anche non parzialmente definitoria (ad es. una decisione sulla legge applicabile o sull'efficacia della prova), ma anche la decisione di questione di rito.
Quanto all'altro profilo condizionante, riconducibile al n. 1, l'ordinanza potrà limitarsi semplicemente enunciare che la questione “non è stata ancora risolta dalla Corte di Cassazione”; pretendere di più sarebbe pretendere dal giudice del merito una asseverazione negativa e spetta invece al Primo presidente (sempre con il supporto di cui sopra) constatare il contrario. Piuttosto vi è che il d.lgs. ha sostituito con “risolta” l'aggettivo “affrontata” contenuto nella Legge di delega. È un veniale e tollerabilissimo correttivo o se si vuole un chiarimento di ciò che era solo impreciso. Ma è un chiarimento non da poco sul piano concreto: il giudice del merito potrà - e questa volta dovrà motivare con maggior precisione indicando i riferimenti alla pregressa giurisprudenza della Cassazione - ben rimettere questione nominalmente “affrontata” ma tutt'altro che “risolta” perché oggetto di perdurante contrasto all'interno della Suprema Corte; e se particolarmente consapevole, ed ancor qui adeguatamente motivando, potrà attraverso il rinvio riferito a fattispecie concreta segnalare i dubbi che tuttora permangano perfino dopo una pronuncia delle Sezioni Unite, a causa della oscurità intrinseca della medesima o della oggettiva questionabilità riguardo alla riconduzione della nuova fattispecie a quel principio di diritto. L'ultima parola, prima che si avvii la funzione consultiva della Corte, spetterà del resto al Primo presidente.
Vi sono - sempre riguardo alla condizione in discorso - altre due divergenze lessicali fra il testo dell'art. 1, c. 9, lett. g) della Legge di delega (il quale dunque non si è rivelato affatto integralmente self-executing come all'indomani della sua emanazione si è detto) ed il nuovo art. 363-bis. È scomparso in quest'ultimo il requisito della “particolare importanza” della questione. Ma si tratta di soppressione più apparente e formale che reale: si è evidentemente preso atto che almeno di regola la “particolare importanza” o coincide con la stessa “serialità” potenziale della questione, ovvero coincide con la “gravità” delle “difficoltà interpretative” e cioè con l'ulteriore condizione di cui al n. 3 dell'art. 363-bis, comma primo. In realtà la vera ragione della soppressione formale - tutt'altro che disinvoltamente adottabile, visto che la espressione soppressa era contenuta nella delega - risiede in ciò che la sua conservazione da un lato avrebbe rimesso al Primo presidente un potere di selezione dei rinvii fin troppo discrezionale, e soprattutto, in caso di ammissione del rinvio, ne avrebbe comportato, per coerenza rispetto al criterio ex art. 374 c.p.c., la immancabile destinazione alle Sezioni Unite; mentre il legislatore, vuoi il delegante che il delegato, ha inteso, come fra breve vedremo, lasciare aperta anche l'assegnazione alla sezione semplice.
Meramente apparente è anche la scomparsa dalla condizione di cui al n. 1 del carattere “esclusivamente di diritto” della questione (così l'art. 1, c. 9, lett. g), 1.1 della Legge di delega). Questo connotato è giustamente riportato letteralmente in apicibus, e cioè all'inizio dell'art. 363-bis, al momento in cui si definisce l'oggetto del rinvio. È naturale che alla Cassazione non possano essere rinviate questioni di fatto, bensì solo quaestiones iuris, comprese quelle di qualificazione giuridica dei fatti. E la Cassazione assumerà tal quale la situazione di fatto che il giudice di merito le avrà rappresentato nella ordinanza di rinvio siccome necessaria o utile alla stessa posizione e comprensione della quaestio, ed in mancanza di ciò nei congrui casi il Primo presidente potrà ritenere inammissibile il rinvio per incomprensibilità o indeterminatezza della domanda. Si tratta della medesima dinamica che caratterizza il rapporto fra giudice nazionale e Corte di Giustizia, ove la riserva al giudice nazionale è estesa oltre che alla rappresentazione ove necessario della situazione di fatto anche alla rappresentazione della situazione di diritto interno.
E come in quel caso – lo si è già rilevato - spetta al giudice che effettua il rinvio stabilire quale sia il momento opportuno per effettuarlo, perfino prima di aver raggiunto un definitivo convincimento sull'accertamento dei fatti; tanto più vista la frequente compenetrazione fra le due ideali premesse del sillogismo giudiziale e la necessità sovente che la previa definizione della quaestio iuris orienti l'indagine compiuta sui fatti (da soggiungere nuovamente però che difficilmente la Suprema Corte sarà disposta ad accettare rinvii pregiudiziali puramente astratti ed ipotetici). Conseguenza di ciò - ed in definitiva della circostanza che il nostro processo di merito non avanza a compartimenti stagni e fino alla sentenza definitiva il giudicante è sempre libero, salva la Selbstbindung connessa alle pronunce non definitive e parziali, di cambiare idea - è che in linea di principio, e nuovamente come mutatis mutandis può accadere in caso di pronuncia pregiudiziale della Corte di Giustizia, il responso pregiudiziale della Suprema Corte potrebbe rivelarsi, una volta che il processo di merito sia ripreso, vincolante solo in astratto ed in realtà divenuto privo di rilevanza a seguito del mutato convincimento sul quadro fattuale.
c) Quanto alla condizione di cui al n. 2 dell'art. 363-bis, comma 1 - “la questione presenta gravi difficoltà interpretative” - il legislatore delegato ne arricchisce il contenuto, rispetto al wording della Legge delegante, manovrando nel comma seguente proprio sull'obbligo motivazionale e precisando che esso deve in proposito estendersi alla “specifica indicazione delle diverse interpretazioni possibili”. Posto che la “gravità” della difficoltà interpretative è predicato eminentemente relativo e idoneo semmai a respingere in limine rinvii pregiudiziali puramente capricciosi che ben raramente - speriamo - si verificheranno, la richiesta di specificazione delle alternative interpretative è più che altro una superfetazione, intesa semmai appunto a richiamare i giudici di merito a rinviare non a cuor leggero ma dopo riflessione accurata. Ma non è ovviamente il mancato esplicito rispetto di quell'obbligo motivazionale che potrà impedire al Primo presidente di ammettere il rinvio quando l'alternativa interpretativa è implicitamente percepibile (ad esempio attraverso il richiamo di un contrasto di giurisprudenza o attraverso l'obbligato aut-aut fra due soluzioni ermeneutiche in relazione al profilo di rilevanza segnalato dal giudice a quo); né potrà impedire alla Suprema Corte di rispondere al rinvio imboccando nei congrui casi una terza via ermeneutica. Come nel caso del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia anche in questa ipotesi di Richterklage, e cioè di domanda da giudice a giudice, la corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato si atteggia insomma in modo del tutto peculiare. Il procedimento davanti la suprema corte: la fase di ammissione del rinvio pregiudiziale
La cancelleria del giudice a quo trasmetterà l'ordinanza a quella della Suprema Corte e contestualmente la comunicherà alle parti (art. 363-bis, comma secondo).
La mancanza anche di una sola delle condizioni predette - constatabile dalla motivazione o dalla mancanza di motivazione della ordinanza ovvero, e nei termini sopra segnalati, anche aliunde - indurrà il Primo presidente, entro 90 giorni dalla trasmissione della ordinanza di rinvio, a dichiarare con decreto la “inammissibilità della questione” (rectius: del rinvio pregiudiziale).
Altrimenti ed entro lo stesso termine la questione sarà assegnata alla sezione semplice o alle Sezioni unite (art. 363 bis, comma terzo). Si è prudenzialmente consentita, fin dalla Legge di delega, questa alternativa (senz'altro utile nel caso di un profluvio di rinvii ammissibili). Se tale profluvio non sopravverrà - come è ben immaginabile e come non vi è stato in Francia - l'intervento delle Sezioni unite sarà nella larga maggioranza dei casi senz'altro auspicabile. De iure si tratta comunque di scelta rimessa alla discrezionalità vincolata del primo presidente, orientata invariabilmente dai medesimi criteri di cui all'art. 375 c.p.c. in quanto compatibili. La trattazione e la decisione
Sulle modalità decisorie della quaestio la Legge di delega imponeva opportunamente - ed il legislatore delegato ha ottemperato (vedi l'art. 363-bis, comma quarto) - la pubblica udienza, con facoltà di memorie delle parti e discussione orale. Il legislatore delegante (v. l'art. 1, comma nono, lett g), n. 4) commetteva alla stessa Corte la fissazione del termine per la memoria. Il delegato ha semplificato - tutto sommato dunque rientrando tale innocua rettifica nei limiti del mandato alla luce del generale criterio di semplificazione e razionalizzazione ex art. 1, comma primo della Legge di delega - ed ha rinviato al termine fisso di cui all'art. 378; termine che l'art. 3, comma 27, lett. d) dello stesso d.llgs. porta ora da cinque a dieci giorni prima dell'udienza. Al termine di venti giorni prima dell'udienza, di cui al nuovo comma primo dello stesso art. 378, ci si dovrà evidentemente riferire per la “requisitoria scritta” del pubblico ministero. La quale però, nel caso di rinvio pregiudiziale, parrebbe obbligatoria e non facoltativa: vuole così il buon senso, vista oltretutto la prevedibile rarità dei casi, e pur nel dubbio aperto dal nuovo art. 363-bis, comma 4, che si limita alla espressione “con la requisitoria scritta del pubblico ministero”.
Nulla si dice della forma della decisione. Si dice solo che la Corte “pronuncia” e nel pronunciare fissa ovviamente un “principio di diritto” solutorio della questione sottopostale. Posto che la faccenda è al postutto di schietta lana caprina, non vedrei difficoltà alcuna ad immaginare che, del tutto nuovo essendo per il nostro sistema il meccanismo del rinvio pregiudiziale, la forma della pronuncia sia una forma apposita e di quarto tipo rispetto al trio sentenza-ordinanza-decreto, consistente nella sola fissazione del principio di diritto, preceduta ovviamente dagli argomenti motivazionali comprensivi della sintetica esposizione dell'accaduto processuale e cioè della sottoposizione della questione e del contesto processuale da cui essa proviene. Quanto agli effetti del principio di diritto così fissato, il comma sesto del nuovo art. 363-bis riproduce i dettami tradizionali degli art. 384 e 393 c.p.c. Il principio di diritto è così vincolante “nel procedimento nell'ambito del quale è stata rimessa la questione” e dunque per il giudice a quo e per quelli dei successivi gradi di impugnazione, Cassazione compresa. E come accade in caso di cassazione con rinvio il vincolo sarà aggirabile solo a seguito di ius superveniens, ovvero attraverso il rinvio pregiudiziale sempre possibile alla Corte costituzionale o alla Corte di Giustizia. La differenza fondamentale è che in sede di rinvio pregiudiziale la Corte fissa il principio di diritto in relazione ad un quadro fattuale concreto rappresentato nella ordinanza di rimessione ma non ancora definitivamente accertato, donde la già citata possibilità che la modifica di quel quadro, nel prosieguo del giudizio principale, comporti indiretta erosione o svilimento del principio di diritto.
In tutto identica pare invece la portata della efficacia vincolante del principio di diritto, vuoi a seguito di rinvio pregiudiziale (v. sempre il comma sesto dell'art. 363-bis) vuoi a seguito di cassazione con rinvio, ove il giudizio si estingua: nel nuovo processo reinstaurato fra le stesse parti con la riproposizione della “medesima domanda” potrà infatti ben accadere, indifferentemente nell'una o nell'altra delle due ipotesi in discorso, che il quadro degli accertamenti fattuali muti.
Erga omnes il responso al rinvio pregiudiziale varrà, come ogni altro principio di diritto fissato dalla Cassazione, per la sua maggiore o minore efficacia persuasiva di precedente. Nel caso in cui il responso provenga dalla Sezioni Unite esso rivestirà anche, per la sezione semplice della S.C. investita della medesima quaestio, la particolare efficacia “semi-vincolante”, e però de iure, prevista dall'art. 374, comma 3. Il fatto che l'art. 374, ai precedenti due commi non sia stato modificato con la menzione, fra i casi di decisione a Sezioni Unite, di quello riconducibile al nuovo art. 363-bis, non è affatto buona ragione per escludere la portata generale del terzo comma e la sua vocazione espansiva ricomprendente anche il “nuovo” principio di diritto in risposta a rinvio pregiudiziale.
Il responso pregiudiziale avrà ovviamente, senza necessità di apposita previsione, la pubblicità di una qualsivoglia altra pronuncia della Suprema Corte e spetterà al competente Ufficio massimarne il contenuto con la ovvia precisazione che si tratta di un responso pregiudiziale. Sul piano del fatto l'eco mediatica, specialistica e comune, sarà verosimilmente, soprattutto nelle prime applicazioni, maggiore. Importante è segnalare che il d.lgs. (art. 4, comma 7, lett. b) introduce un nuovo art. 137-ter disp. att. c.p.c. ove è opportunamente prevista la pubblicazione “nel sito istituzionale della Corte, a cura del centro elettronico di documentazione” dei provvedimenti che dispongono il rinvio pregiudiziale e dei decreti del primo presidente “ad esso relativi” e cioè sia di quelli di assegnazione sia di quelli di inammissibilità. Per il resto è auspicabile che i singoli uffici giudiziari ed i corrispondenti uffici del processo si organizzino nel modo più opportuno per la diffusione delle informazioni relative all'applicazione del nuovo istituto. A far data dalla ordinanza di rinvio pregiudiziale e fino al decreto del Primo presidente che dichiara inammissibile il rinvio o alla pronuncia della Suprema Corte che risponde al medesimo il procedimento principale è sospeso: così espressamente ed immancabilmente la Legge di delega, all'art. 1, comma nono, lett. g), n. 5) ed il nuovo art. 363-bis, comma secondo, secondo il noto schema della cd. “sospensione impropria” comune alle ipotesi di rinvio pregiudiziale alla Consulta o alla Corte di Giustizia e ad altre. Nessuna possibilità, dunque, di impugnazione della ordinanza di sospensione, neppure mediante regolamento di competenza riservato dall'art. 42, c.p.c. ai soli provvedimenti di “sospensione propria” di cui all'art. 295 (la proposizione del regolamento sarebbe del resto pressoché demenziale perché il controllo sulla eventuale arbitrarietà del rinvio e della conseguente sospensione è comunque demandato al Primo presidente ed in tempi assai più rapidi). La sospensione non impedisce gli “atti urgenti e le attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale”: il comma secondo del nuovo art. 363-bis, nel silenzio tutt'altro che preclusivo della Legge di delega, ha opportunamente recepito il principio invalso per ogni caso di sospensione processuale e tratto dall'art. 48, comma 2 , e lo ha ampliato, del pari opportunamente, agli atti di istruzione “non dipendenti”.
Il che non esclude - come già rammentato - che proprio la prosecuzione dell'istruttoria possa dar luogo a situazione in cui muta il quadro degli accertamenti fattuali “presupposti” al rinvio, di guisa che esso appaia a posteriori al giudice rimettente come non più rilevante.
Può in tal caso - o anche nel semplice caso di ius poenitendi da parte del giudice del procedimento principale - l'ordinanza di rinvio essere revocata e con effetti sul procedimento in Cassazione? Direi proprio di sì: sul piano formale perché si tratta di ordinanza revocabile secondo il parametro generale ex art. 177 c.p.c., e sul piano sostanziale perché, alla luce dell'art. 101 Cost. e senza che possa qui giocare la risalente e sacrosanta esclusione della incostituzionalità del vincolo del giudice di rinvio al principio di diritto (è altra storia), non sembra dato alla Corte di cassazione o meglio alla semplice pendenza del procedimento ex art. 363-bis di impedire la signoria (ben inteso all'interno del grado che gli compete) del giudice di merito sul giudizio di diritto. Perciò, revocata l'ordinanza di rinvio e pervenuta l'ordinanza di revoca alla Cancelleria della Suprema Corte, quest'ultima dichiarerà estinto il procedimento, a meno che non ritenga di pronunciare comunque “nell'interesse della legge”, ma allora senza efficacia vincolante per il giudice a quo. Riterrei ammissibile - sebbene la idiosincrasia per le “direttive” a priori delle corti supreme dei paesi socialisti d'antan sia sempre dietro l'angolo - questa sobria applicazione estensiva dell'art. 363; in questo caso, o anche in quello in cui il Primo presidente o la Corte constatino ex actis e prima facie la totale irrilevanza della questione rispetto al singolo giudizio principale, ma altresì la sua evidentissima rilevanza “seriale”.
Esaurita la ragione sospensiva, il processo principale riprende con la “restituzione degli atti” dalla Suprema Corte al giudice di merito (così, ancora nel silenzio “aperto” della delega, il nuovo 363-bis, comma 5) e perciò a seguito di iniziativa prosecutoria officiosa di quest'ultimo che fisserà l'udienza o incombente necessario. La soluzione, che esclude la riassunzione ad istanza di parte, è estremamente opportuna rispetto ad una fattispecie sospensiva fortemente connotata da discrezionalità giudiziale e che comporta la rimessione alla Cassazione di questione di diritto che il giudice di merito dovrebbe altrimenti decidere senza indugi, rientrando ciò fra i suoi doveri fondamentali nei riguardi dei justiciables.
Resta da dire della entrata in vigore e della utilizzabilità ratione temporis del nuovo meccanismo. E qui soccorre disposizione transitoria (l'art. 35, comma 8 , del d.lgs.), che tuttavia, di per sé considerata, detiene forse la palma del dettato più equivoco tra quelle degli ultimi decenni: “Le disposizioni di cui all'art. 363-bis del codice di procedura civile si applicano ai procedimenti di merito pendenti alla data del 30 giugno 2023".
Niente paura. Basta ipotizzare, nella nebbia, i possibili significati che abbiano un qualche aggancio letterale con la disposizione transitoria e scartare quelli palesemente irrazionali rispetto al contenuto ed alla funzione del nuovo istituto. Si scarta subito, perché manifestamente incongrua, l'interpretazione per così dire ultra-letterale, secondo cui il rinvio pregiudiziale sarebbe effettuabile solo nel corso di un giudizio di merito già pendente alla data del 30 giugno 2023: se così fosse il nuovo istituto sarebbe destinato a morire giovane come Violetta al terzo atto della Traviata.
Da scartare anche la diversa, e pur semplificatoria, interpretazione secondo cui il rinvio pregiudiziale potrebbe essere effettuato solo nel corso di giudizi di merito divenuti pendenti successivamente alla data del 30 giugno 2023: non si intenderebbe allora perché il legislatore abbia sentito la necessità di dettare il comma ottavo e non si sia accontentata della piana e semplice, nonché consueta, espressione del comma primo del medesimo art. 35, valevole come regola generale secondo cui le nuove disposizioni processuali introdotte dal decreto, “salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 30 giugno e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data”.
Non resta che la terza via, che è quella di leggere il comma ottavo proprio come integrativo-derogatorio del comma primo (il risultato finale si sarebbe potuto ottenere ovviamente in modo molto più semplice): ai sensi del comma primo, dunque, le nuove norme sul rinvio pregiudiziale – come, salve deroghe, ogni altra del d.lgs. - saranno sicuramente applicabili a partire dal 30 giugno 2023 nel corso di giudizi che diverranno pendenti dopo quella data; il comma ottavo tuttavia - rappresentando deroga non a siffatta portata del comma primo bensì al suo complementare disposto secondo il quale “ai procedimenti pendenti alla data del 30 giugno 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti” - fa sì che il rinvio pregiudiziale possa essere effettuato, sulla base delle nuove norme e purché sempre e solo a partire dal 30 giugno del 2023, anche nel corso di un giudizio di merito instaurato prima di quella data ed ancora pendente.
Inteso in tal modo il combinato disposto fra i due commi è anche conforme all'impostazione di massima della regolazione transitoria voluta dall'art. 35, rispetto questa volta ad un singolare istituto che coinvolge sia il giudice di merito sia la Corte di cassazione. Da un lato, infatti, la novellazione della disciplina dei procedimenti innanzi alla Suprema Corte è vocata ad una più immediata operatività (fin dal 1° gennaio 2023: v. i commi sesto e settimo dell'art. 35) ed è dunque comprensibile che la stessa Suprema Corte possa essere coinvolta, sia pure non per via impugnatoria, da regole nuove anche in relazione ad un giudizio di merito “vecchio” e cioè governato in generale da quel che sarà il suo “vecchio rito”. D'altro lato, però, l'iniziativa del rinvio pregiudiziale è assunta anzitutto dal giudice del merito e con effetti immediati sul giudizio di merito ed è dunque comprensibile che essa, sulla base delle nuove norme, possa essere assunta solo dopo il fatidico 30 giugno e cioè solo dopo che tutte le altre nuove norme sul giudizio di merito diverranno operative.
Il tutto a meno di sorprese natalizie circa l'entrata in vigore della novella nel suo complesso.
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