Esibizione delle prove nel processo civile riformato
21 Dicembre 2022
Introduzione
La riforma del processo civile (di cui al d.lgs. n. 149/2022) ha inciso su taluni profili dell'istruzione della causa; in particolare, innovando il testo degli artt. 210 e 213 c.p.c. (come pure rinnovando l'istituto della querela di falso, disponendo che la decisione della causa sul falso documento sia di competenza del “tribunale in composizione monocratico”, in luogo del collegio; artt. 225 e 226 c.p.c., novellati). Le innovazioni avranno effetto a partire dal 28 febbraio 2023 per i processi successivamente instaurati (art. 35 d.lgs. n. 149/2022). L'intervento novellatore, qui come altrove, si è risolto introducendo talune modifiche accessorie ad istituti preesistenti e tradizionali, nell'ottica dell'eliminazione o dell'attenuazione di talune problematiche applicative. Le modifiche sono pienamente attuative del criterio di delega (“prevedere conseguenze processuali e sanzioni pecuniarie nei casi di rifiuto non giustificato di consentire l'ispezione prevista dall'art. 118 del c.p.c. e nei casi di rifiuto o inadempimento non giustificato dell'ordine di esibizione previsto dall'art. 210 c.p.c.” (art. 1, comma 21, lett. b), l. n. 206/2021; nonché, “prevedere la fissazione di un termine non superiore a sessanta giorni entro il quale la pubblica amministrazione, cui sono state richieste informazioni ai sensi dell'art. 213 c.p.c., deve trasmettere o deve comunicare le ragioni del diniego” (art. 1, comma 21, lett. c), l. cit.). Il nuovo testo dell'art. 210 c.p.c., nei novellati commi quarto e quinto, dispone: “se la parte non adempie senza giustificato motivo all'ordine di esibizione, il giudice la condanna a una pena pecuniaria da euro 500 a euro 3.000 e può da questo comportamento desumere argomenti di prova a norma dell'articolo 116, secondo comma. Se non adempie il terzo, il giudice lo condanna a una pena pecuniaria da euro 250 a euro 1.500”. Tradizionali sono le nozioni di “produzione” (di documenti) e di “esibizione”. Con la prima espressione si indica che il documento prodotto viene posto a disposizione del giudice e delle parti che possono prenderne visione, estrarne copia ed invocarlo a sostegno del proprio assunto, cosìcchè lo stesso resta acquisito al processo. Viceversa, con la seconda locuzione, si indica l'acquisizione al processo di un documento necessario, “quale oggetto di un ordine di presentazione in giudizio impartito dal giudice a chiunque ne abbia il possesso o la materiale detenzione e che spontaneamente non abbia provveduto ad assicurarne la disponibilità all'autorità giudiziaria che procede” (Comoglio, 374). Si impone così ope judicis a carico di chi detiene la prova di un fatto di presentare, in modo coatto o forzato, il documento che la contiene, depositandolo presso l'ufficio giudiziario richiedente. Un volta acquisito il documento al processo le parti possono utilizzarlo in corso di giudizio ed il giudice, a sua volta, su di esso può fondare la pronunzia. Sinteticamente, i presupposti dell'esibizione, oltre all'istanza di parte, sono molteplici, in particolare, presupponendo: 1) l'indispensabilità del documento al punto che la prova non possa essere altrimenti fornita; 2) la prova della sua materiale esistenza e del possesso presso colui al quale l'ordine dovrebbe essere impartito; 3) la specifica indicazione del suo contenuto; 4) l'esibizione non deve recare grave danno al soggetto passivo dell'esibizione; 5) e non devono essere violati i segreti professionale o d'ufficio. Il punctum dolens della disciplina dell'ordine di esibizione dettata dal codice di rito, che non aveva permesso di garantire piena ed adeguata tutela al diritto alla prova per la parte che l'abbia invocata, si rinveniva nel profilo della coercibilità dell'ordine esibitorio. Al punto che erano stati evidenziati “i gravi fattori di inefficienza o di ineffettività dell'istituto esibitorio” (Comoglio, 405). A questo riguardo, è pacifico che l'ordine impartito dal magistrato non sia coercibile mediante l'esecuzione forzata prevista per la consegna di beni mobili in attuazione di obblighi di fare o non fare (artt. 605-611 c.p.c.), dato che l'ordinanza non è qualificata titolo esecutivo (La China, 708; Comoglio; Mandrioli, Carratta, 207). Nè l'inottemperanza può dare luogo ad applicazione di una sanzione penale (art. 650 c.p.). Premesso ciò, appariva discusso se la violazione o l'inottemperanza dell'ordine di esibizione potesse determinare conseguenze processuali a carico delle parti o del terzo inottemperante. Secondo Satta (161) la disciplina in materia di esibizione “non comporta sanzioni di nessun genere per l'eventuale rifiuto di esibire, sia da parte del terzo che della controparte”. In dottrina vi è invece chi ha richiamato l'applicabilità delle sanzioni previste dall'art. 118 c.p.c. in tema di ispezione, con possibilità di desumere dal rifiuto di esibire “argomenti di prova” in danno della parte; mentre, in ipotesi di rifiuto da parte del terzo, lo stesso potrebbe essere sanzionato con l'irrogazione di una pena pecuniaria, sempre in forza della medesima disposizione normativa (ex ultimo comma) (Redenti, 210; Andrioli, 134, per la sanzioni a carico del terzo). Per quanto l'opinione prevalente in dottrina (Andrioli, 134; La China, 707; Comoglio 406; Mandrioli, Carratta) ed in giurisprudenza (Cass. civ. 12 gennaio 1996, n. 188; Cass. civ. 9 ottobre 1998, n. 10063; Cass. civ. 27 gennaio 2017, n. 2148. Nella giurisprudenza di merito, da ultimo App. Perugia 29 marzo 2021, in dejure) ritiene che il richiamo ai ”limiti” dell'art. 118 c.p.c. (contenuto nel 1° comma dell'art. 210) non possa estendersi, in forza di analogia, alle sanzioni colà previste dalla prima norma. Per via di interpretazione, si ritiene invece maggiormente corretto richiamare l'art. 116, capoverso, c.p.c., laddove permette al “giudice di desumere argomenti di prova dal contegno delle parti nel processo”. Ed èindubbio che la parte che non ottemperi all'ordine di esibizione integri “un contegno processuale” (di ostruzionistica non collaborazione) da cui sia possibile trarre argomenti di prova a fini decisori. Con riguardo, invece, alla renitenza del terzo ad esibire in giudizio il documento o la cosa ordinata dal giudice ai sensi dell'art. 210 c.p.c., si ritiene inapplicabile la sanzione pecuniaria dettata in tema di ispezione (art. 118, ultimo comma, c.p.c.). Si argomenta che, per le pene pecuniarie previste dal codice di rito civile, vige il principio generale “nulla poena sine lege” (La China, 709; Comoglio, 408). In ogni caso, l'esiguità della pena pecuniaria è talmente modesta da rendere risibile il relativo deterrente. Consegue che, a carico del terzo inottemperante, non sono ravvisabili sanzioni a suo carico onde garantire effettività dell'ordine esibitorio (Satta, 161). Appariva pertanto corretto la conclusione cui era giunta la processualistica secondo cui l'istituto dell'esibizione è caratterizzato da “scarse ed incerte garanzie da cui l'applicazione dell'istituto è assistita” (La China, 706). Innovazioni della riforma: sanzioni processuali ed argomenti di prova
Per risolvere gli evidenziati profili di ineffettività dell'istituto dell'esibizione, comprensibili sono le innovazioni recate dal d.lgs. n. 149/2022, che hanno riguardato la disposizione processuale nell'ottica di “rafforzarne l'efficacia” (come testualmente si esprime la Relazione Illustrativa). In pratica, con riguardo alla renitenza della parte a dare corso all'esibizione del documento, la riforma ha confermato l'approdo cui era giunto l'orientamento interpretativo dominante (in precedenza ricordato). Per quanto la possibilità di trarre “argomenti di prova” dalla condotta processuale renitente di controparte non costituisca sanzione particolarmente significativa, in grado di convincere l'inottemperante; ad essa è aggiunta l'introduzione della novellata sanzione pecuniaria (da € 500 ad € 3000). Tale condanna è opponibile avanti al medesimo giudice che l'ha irrogata (art. 179 c.p.c.). Con riguardo al terzo, la costrizione all'adempimento dell'ordine di esibizione viene garantito dall'applicazione, anche in tal caso, di una sanzione pecuniaria, da € 250 ad € 1500. La sanzione è reclamabile ex art. 179 c.p.c. L'art. 213 c.p.c. prevede una particolare forma di esibizione che si distingue da quella degli artt. 210 e 211 per il suo carattere reale ed obiettivo che è ammessa perchè giustificata dalla “garanzia di imparzialità e di veridicità delle informazioni così provenienti dalla p.a.” (Cass. civ. 31 gennaio 1952, n. 286, in Foro it., Mass., 63). Il codice richiede alla p.a. una forma di collaborazione all'amministrazione della giustizia, “giustificata dalla comune appartenenza all'organizzazione complessiva dell'ordinamento, tale da differenziare la posizione dell'amministrazione da quella di altri soggetti” (Luiso, 491). Il potere inquisitorio esercitabile ex officio da parte del giudice, che non può sostituirsi al principio dell'onere della prova (Cass. civ. 29 gennaio 2005, n. 287; Cass. civ. 11 giugno 1998, n. 5794), può riguardare unicamente atti e documenti già formati e nel possesso dalla P.A.; non potendo estendersi all'espletamento di particolari indagini sui fatti della causa, dato che altrimenti sarebbero “delegati alla p.a. veri e propri atti di istruttoria, che soltanto il giudice può compiere con l'osservanza delle forme di legge “ (Cass. civ. 28 febbraio 1964, n. 455, in Foro it., Mass, 194; Cass. civ. 11 luglio 1968, n. 2438, in Giust. Civ., Mass., 1263; Cass. civ. 25 ottobre 1982, n. 5557). La richiesta può essere accolta quando la stessa riguardi l'acquisizione di “documenti pubblici necessari” e, in particolare, afferendo “atti e fatti propri della p.a. che non potrebbero provarsi altrimenti” (Cass. civ. 18 luglio 1980, n. 4722).. Si ritiene che. nel fornire le informazione richieste la p.a. incontri quantomeno tre limiti (analoghi a qualli ex art. 210 c.p.c.): la stessa non deve violare segreti d'ufficio (Andrioli, 140. In giurisprudenza, Cass. civ. 18 aprile 1968, n. 1153 in Foro it., 1968, I, 1147 ), neppure deve divulgare atti meramente interni e sempre che la richiesta non esponga la P.A. al rischio di un “grave danno” (Cass. civ. 18 aprile 1968, n. 1153 cit.). Rifiuto o omissione di risposta
Se l'amministrazione risponde all'ordine giudiziale deve fornire informazioni sugli atti in suo possesso è tenuta a depositare nel fascicolo d'ufficio la relativa “nota (scritta) contenente le informazioni” richieste dal giudice (art. 96 att. c.p.c.). Il problema emerge quando la p. a. non risponda, dato che l'ordine giudiziale risulta “non coercibile” (Luiso, 489). E' discusso se l'omissione di risposta o la risposta incompleta o lacunosa integrino atti amministrativi discrezionali (Redenti, 211), come tali insindacabili da parte del giudice ordinario (Andrioli, 140. In giurisprudenza, Cass. civ., sez. un., 18 aprile 1968, n. 1153, cit.). Si esclude che il rifiuto sia insindacabile da parte del giudice che, al contrario, potrebbe verificare le guistificazioni del rifiuto (Luiso, 489), in presenza, ad es., di un segreto d'ufficio indivulgabile. Oltre alla possibilità di reiterare la richiesta allo stato disattesa (Cass. civ. 10 luglio 1984, n. 4034; Cass. civ. 4 febbraio 1985, n. 737), non sarebbe da escludere la configurabilità di un reato a carico del funzionario responsabile, quando l'omissione o il rifiuto non siano giustificati da validi motivi (artt. 323 e 328 c.p.) (Comoglio, 418-419). Il giudice civile potrebbe così trasmettere gli atti al P.M. per l'esercizio dell'azione penale. Dando attuazione alla legge delega, il nuovo testo del capoverso dell'art. 213 c.p.c. prevede in capo all'amministrazione un preciso“dovere di trasmissione” delle informazioni richieste; in particolare, disponendo che “l'amministrazione entro sessanta giorni dalla comunicazione dei provvedimenti di cui al primo comma trasmette le informazione richieste o comunica le ragioni del diniego”. A questo riguardo, l'innovazione normativa pare avere introdotto una previsione di garanzia, nell'ottica di fornire maggiore effettività nell'attuazione della previsione normativa in tema di richiesta di informazioni all'aministrazione, in funzione dell'obiettivo di “speditezza del giudizio di primo grado” (art.1, comma 1, l. delega). Trattasi di opportuno completamento di una disposizione processuale che appariva monca, in quanto si limitava semplicemente a precisare il contenuto della richiesta giudiziale da rivolgere alla p.a. Ora, invece, la prescrizione si completa, precisando che l'amministrazione è tenuta a darvi esecuzione, così formalmente rafforzando l'efficacia del comando giurisdizionale. L'attività di trasmissione delle informazioni richieste pare essere attività vincolata, non agevolmente eludibile, se non in presenza di giustificativi motivi (segreto d'ufficio, atti interni, etc.). Riferimenti
|