Legittimazione al voto dei creditori interessati nel concordato preventivo e modalità di pagamento dei creditori privilegiati

Filippo Lamanna
03 Gennaio 2023

L'Autore svolge un esame su alcuni aspetti – e su alcune criticità - del diritto di voto dei creditori nel concordato preventivo come disciplinato nell'art. 109 del Codice della crisi d'impresa, diritto che compete in generale ai creditori che subiscono un pregiudizio in base alle previsioni del piano e della proposta concordatari e quindi, di norma, ai creditori chirografari, essendo essi i naturali destinatari della falcidia concordataria, ma, a certe condizioni, peraltro non del tutto chiaramente precisate dal Codice, ai creditori muniti di diritto di prelazione.
Il diritto di voto nel concordato preventivo

La norma che nel Codice della crisi disciplina il diritto di voto dei creditori nel concordato preventivo è l'art. 109.

Tale norma pone specifiche regole di calcolo delle maggioranze nei commi 1 e 2 e nei primi tre periodi del comma 5; invece nei commi da 3 a 7 (ma solo limitatamente agli ultimi tre periodi del comma 5) regola il diritto di voto.

Quanto a quest'ultimo, cui intendo in particolare dedicare qualche breve riflessione, come ben si sa esso compete in generale ai creditori che subiscono un pregiudizio in base alle previsioni del piano e della proposta concordatari e quindi, di norma, spetta per tale ragione ai creditori chirografari, essendo essi i naturali destinatari, secondo l'id quod plerumque accidit, della falcidia concordataria.

Prima delle riforme fallimentari degli anni '80, la falcidia dei chirografari poteva realizzarsi (soltanto) in un duplice senso, quantitativo e temporale, risolvendosi in un pagamento parziale in denaro, ossia quantitativamente minore rispetto al credito originario, oltre che non immediato (con conseguente possibile pregiudizio di carattere finanziario per il creditore, dovuto allo slittamento dei tempi di soddisfacimento del credito).

Da quando l'art. 160 l. fall. è stato modificato ampliandosi il possibile contenuto dei piani e delle proposte concordatarie prevedendosi la possibilità di soddisfacimento dei creditori anche con mezzi diversi dal denaro, la falcidia può essere non più solo quantitativa o temporale, ma anche “qualitativa”, per il possibile pregiudizio derivante dalla modificazione oggettiva del credito pecuniario, quando ne sia prevista, con il piano e la proposta, la sua sostituzione con una prestazione alternativa (datio in solutum, attribuzione di azioni, quote, titoli partecipativi ecc.).

La falcidia concordataria dei chirografari e il diritto di voto

Proprio in quanto naturaliter destinatari di tale triplice possibilità di falcidia, dunque, i creditori chirografari hanno diritto ad interloquire con il voto, accettando o meno la proposta del debitore.

La proposta si considera accettata se approvata a maggioranza, non essendo necessaria l'unanimità.

Il legislatore ha finora variamente articolato i quorum necessari per l'approvazione, arricchendo la disciplina del voto anche alla luce della prevista possibilità di suddivisione dei creditori in classi.

Va peraltro rimarcato che, se la possibilità di costringere un creditore chirografario a subire obtorto collo la triplice possibilità di falcidia del suo credito nei termini suindicati (quantitativa, temporale e qualitativa), subendo il diktat della maggioranza, si pone in evidente deroga alla regola consensualistica, ciò è possibile, e in ipotesi giuridicamente legittimo, in quanto il creditore chirografario è, per definizione, titolare di un diritto relativo privo di garanzie, ed è quindi pienamente soggetto al rischio d'inadempimento-insolvenza del debitore.

È dunque anche possibile costringerlo nella sede concorsuale a subire la falcidia prevista da piano concordatario se questo sia approvato a maggioranza e non all'unanimità, ma ferma restando comunque una condizione legittimante sine qua non: che cioè il concordato consenta (secondo una prognosi ragionevole da svolgersi necessariamente ex ante) un soddisfacimento almeno non deteriore rispetto a quello che il creditore potrebbe ottenere in sede liquidativa, in ispecie all'esito di una procedura fallimentare (ovvero di liquidazione giudiziale).

Se non ricorresse tale minimale condizione legittimante, infatti (fermo restando ovviamente che il legislatore, volendo, potrebbe esigere anche un quid pluris: ossia che il trattamento realizzabile in sede concordataria fosse anche migliore di quello realizzabile in sede fallimentare, e non già semplicemente non deteriore), la soluzione concordataria sarebbe immeritevole di tutela, e quindi illegittima, poiché finirebbe per consentire al debitore di sottrarsi – quanto meno parzialmente – alla responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c., in base alla quale il debitore è tenuto a rispondere dei propri debiti con “tutto” il suo patrimonio, presente e futuro, e ciò perché, offrendo ai creditori meno di quanto potrebbero ottenere in sede fallimentare, finirebbe per conservare lui, a proprio vantaggio, quel quantum differenziale tra l'uno e l'altro esito satisfattivo (quello minore realizzabile nel concordato e quello maggiore realizzabile nel fallimento).

La caratteristica inversione logica rinvenibile anche nella nuova disciplina di cui all'art. 109 CCII: il diritto di voto dei chirografari è dato per scontato

Nel regolare il diritto di voto l'art. 109 compie, peraltro, una singolare inversione logica.

Il legislatore, infatti, anziché attribuire espressamente il diritto di voto ai creditori chirografari, dà in certo senso per scontata, per implicita, tale attribuzione e si concentra invece sui limiti cui soggiace il diritto di voto dei creditori muniti di diritto di prelazione (ossia dei creditori privilegiati o garantiti da pegno o ipoteca).

E a questo riguardo l'art. 109 ripropone il tradizionale principio, già contenuto nella legge fallimentare, secondo cui il creditore munito di diritto di prelazione non ha il diritto di voto solo quando ed in quanto anch'egli non sia interessato – ovvero sia indifferente - alle sorti del concordato, avendo diritto ad essere pagato integralmente ed immediatamente.

Il diritto di voto dei creditori muniti di prelazione: condizioni

La norma considera peraltro la previsione del pagamento integrale come una mera eventualità, e non come un dato ineluttabile (diversamente dal creditore chirografario, per il quale non è previsto alcun caso di esclusione dal voto, sì che è come se tale creditore fosse implicitamente sempre considerato interessato in quanto normalmente soggetto a falcidia; il che, peraltro, lascia irrisolta la questione – di recente alquanto dibattuta - del se il creditore chirografario debba essere escluso o meno dal voto anche quando, per ipotesi, il piano ne preveda l'integrale pagamento).

Tale variabile è stata introdotta con le riforme degli anni '80, poiché, anteriormente, il pagamento integrale ed immediato dei creditori muniti di prelazione era un indefettibile duplice requisito di ammissibilità del concordato.

La necessaria ricorrenza di tale duplice requisito è stata parzialmente superata introducendosi una modifica nel comma 2 dell'art. 160 l.fall. (cui corrisponde ora, con alcune specificazioni aggiuntive, l'art. 84, comma 5, CCII), in ragione e per effetto della quale i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca possono essere soddisfatti anche non integralmente, purché in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione dei beni o dei diritti sui quali sussiste la causa di prelazione.

L'utilizzo della congiunzione “anche” (non integralmente) fa comprendere come il pagamento non integrale, quando il bene oggetto della prelazione sia in tutto o in parte incapiente, sia una mera facoltà rimessa alla libera determinazione del debitore, poiché egli – in presenza di situazioni che lo rendano opportuno o conveniente - potrebbe comunque proporre il pagamento integrale del creditore prelazionario anche in caso di incapienza totale o parziale.

In altri termini: l'incapienza totale o parziale del bene non modifica eo ipso la natura del credito prelazionario, che resta ancora potenzialmente tale nella sua interezza, potendo degradare in tutto o in parte in credito chirografario soltanto quando il debitore decida di avvantaggiarsi della facoltà di pagarlo nei limiti della capienza, inserendo tale previsione nel piano (ed anche adottando a suo piacimento criteri diversi per questo o quel creditore prelazionario, pagando alcuni integralmente, anche se incapienti, ed altri no).

La facoltà di pagare anche i prelazionari incapienti. Condizione limitatrice e sue conseguenze

La differenza tra la decisione di effettuare il pagamento integrale e quella invece di non effettuarlo per nulla (in caso di incapienza totale) o solo in parte (in caso di incapienza parziale) sta in ciò: che nel primo caso il pagamento non è soggetto ad alcuna condizione limitatrice, mentre, nel secondo, il debitore è soggetto ad una specifica condizione legittimante, giacché la misura del previsto pagamento non potrà essere comunque inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione dei beni o dei diritti sui quali sussiste la causa di prelazione.

Da tale condizione limitatrice parametrata all'alternativa ipotesi liquidatoria derivano soprattutto due conseguenze:

1) la prima è che, assunta dal debitore la decisione di avvalersi della facoltà di pagare il credito prelazionario nei limiti della capienza, dovrà stabilirsi che sorte abbia il credito relativamente alla parte incapiente; il legislatore ha stabilito, a questo riguardo, che per tale parte esso venga considerato alla stregua di un credito chirografario, sia ai fini del voto, che del trattamento-pagamento;

2) la seconda è che, nel caso in cui vi sia capienza almeno parziale del bene oggetto della prelazione, per tale quota il creditore dovrà necessariamente essere pagato in denaro, e non con mezzi diversi dal denaro, ciò perché, dovendo la misura del pagamento parametrarsi a quella realizzabile in sede liquidatoria, vale a dire – in ultima analisi - in sede fallimentare (ovvero di liquidazione giudiziale), nella quale i beni vengono venduti per essere trasformati nel loro equivalente valore liquido, ossia in denaro, sì che in tale sede non è possibile effettuare un pagamento dei crediti prelazionari con mezzi diversi dal denaro, ne deriva l'impossibilità di effettuare un raffronto tra l'uno e l'altro esito liquidativo che non sia basato – appunto - sul pagamento in denaro. In sostanza, il debitore non può proporre nel piano concordatario una soddisfazione dei crediti prelazionari, per la parte capiente, diversa dal pagamento in denaro, conservando tale facoltà, in ipotesi, solo per la parte incapiente degradata al chirografo (e sempre previo inserimento del creditore, per tale quota, in apposita classe, come previsto dall'art. 85, comma 2).

I creditori muniti di prelazione non possono essere pagati con mezzi diversi dal denaro

Tale seconda conseguenza – sulla quale, per la verità, non tutti gli interpreti concordano - s'impone a mio avviso anche su un piano generale, tenuto conto della funzione della garanzia prelatizia.

Questa serve infatti proprio per garantire che il creditore che ne sia titolare possa poi, in caso di inadempimento-insolvenza del debitore, rivalersi sul ricavato (in denaro) del bene oggetto della prelazione, una volta che esso sia stato liquidato.

Il debitore, quindi, nei casi in cui vi sia capienza, totale o parziale, o quando decida comunque di soddisfare il creditore prelazionario, non può sovvertire a suo piacimento la funzione della prelazione, sia questa consistente in un privilegio oppure in una garanzia reale, attribuendo al creditore prelazionario un bene diverso da quello (denaro) che costituisce il realizzo liquidativo destinato proprio a tutelare l'interesse satisfattivo del creditore garantito.

A meno che, naturalmente, il creditore accetti specificamente una soddisfazione alternativa, con mezzi diversi dal denaro, e quindi non un pagamento in senso stretto. Ma ciò, verosimilmente, potrà fare solo con patti extra- o para-concordatari, in ossequio al principio consensualistico, apparendo a mio parere inadeguate forme equivalenti da attuarsi con voto endo-concordatario, nemmeno, ad esempio, qualora gli si garantisse l'inserimento, anche da solo, in una classe autonoma, poiché comunque tale forma di classamento, ed il voto eventualmente contrario del creditore, comunque non impedirebbero la possibilità di approvazione del concordato secondo il criterio della maggioranza (delle classi) o secondo i criteri suppletivi previsti dal Codice in caso di mancato raggiungimento della prevista maggioranza, in tal modo non realizzando quel risultato rispettoso della volontà del creditore che si realizza in sede contrattuale.

È solo ultroneo poi osservare che una diversa conclusione non può trarsi dalla generica possibilità, prevista nell'art. 160 l.fall., e ora nell'art. 87, comma 1, lett. d), del Codice della crisi, di proporre «modalità di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito», poiché tale norma non specifica affatto - lasciando dunque impregiudicato stabilirlo alla luce di altre norme o principi - se tali modalità siano limitate alla sola soddisfazione proponibile ai creditori chirografari (o ai prelazionari degradati al chirografo) o possano valere, ed in che limiti, anche ai fini della soddisfazione dei crediti prelazionari di cui sia prevista una soddisfazione totale o parziale.

Quando il creditore prelazionario non è “interessato”

Se si concorda con tali conclusioni, può considerarsi pertanto questa la prima ipotesi in cui non potrà applicarsi la regola di indifferenza del creditore prelazionario che ne comporta l'esclusione dal voto, essendo chiaro che una regola siffatta non può essere applicata quando venga meno il suo presupposto giustificativo, ossia il pagamento integrale ed immediato.

Tale conseguenza viene ora prevista in generale nel comma 4 dell'art. 109, a tenore del quale «I creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede la soddisfazione non integrale, sono equiparati ai chirografari per la parte residua del credito».

La previsione fa riferimento specifico al contenuto della proposta di concordato, lasciando dunque scoperto il caso in cui il pagamento non integrale trovi causa non già nella proposta, ma in eventi successivi.

A colmare questa lacuna provvede il comma 3 dell'art. 109, il quale statuisce che «I creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca (….) dei quali la proposta di concordato prevede l'integrale pagamento, non hanno diritto al voto se non rinunciano in tutto od in parte al diritto di prelazione”.

Da tale disposizione si ha conferma, da un lato, che se la proposta di concordato (di qualunque proposta si tratti, e quindi qualunque sia la tipologia di concordato) prevede l'integrale pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, essi non hanno diritto di voto, riproponendosi dunque il principio di indifferenza del creditore prelazionario rispetto alle sorti del concordato quando ed in quanto se ne preveda il pagamento integrale; e si desume, dall'altro, che, sebbene la proposta preveda il pagamento integrale del creditore prelazionario, questi abbia a sua volta facoltà di rinunciare in tutto o in parte al diritto di prelazione, sottoponendosi all'effetto di degradazione del credito al chirografo per la parte in cui opera la rinuncia alla prelazione.

La disposizione ha peraltro cura di precisare che, per la parte del credito non coperta dalla garanzia, i creditori rinuncianti «sono equiparati» ai creditori chirografari, e quindi non diventano creditori chirografari, ma sono semplicemente ad essi equiparati sia ai fini del voto che del trattamento, e che «la rinuncia ha effetto ai soli fini del concordato», con la conseguenza che se il concordato non fosse omologato e il debitore ritornasse in bonis la prelazione ritornerebbe ad operare ripristinandosi nello status quo ante.

Peraltro, le disposizioni fin qui esaminate fanno dipendere espressamente l'esclusione dal voto dal «pagamento integrale», evento connotato da un sostantivo e da un aggettivo ben specifici, nel senso che il sostantivo “pagamento” sembra presupporre che la soddisfazione non possa essere diversa – appunto, come si diceva poc'anzi - da quella realizzata con il versamento di una somma di denaro, e l'aggettivo “integrale” sembra escludere la possibilità di falcidia del credito nel quantum.

Ho utilizzato l'espressione verbale “sembra” sia per il sostantivo che per l'aggettivo, perché la norma non è del tutto chiara ed esaustiva su questi aspetti e comunque nulla specifica, in ultima analisi, quanto al caso in cui il piano preveda un pagamento non immediato.

A fugare i possibili dubbi sembra destinato il comma 5 dell'art. 109, laddove in particolare precisa che «I creditori muniti di diritto di prelazione non votano se soddisfatti in denaro, integralmente, entro centottanta giorni dall'omologazione …» (la norma prosegue statuendo: «e purché la garanzia reale che assiste il credito ipotecario o pignoratizio resti ferma fino alla liquidazione, funzionale al loro pagamento, dei beni e diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. Nel caso di crediti assistiti dal privilegio di cui all'art. 2751-bis, n. 1, c.c. , il termine di cui al quarto periodo è di trenta giorni. Se non ricorrono le condizioni di cui al primo e secondo periodo, i creditori muniti di diritto di prelazione votano e, per la parte incapiente, sono inseriti in una classe distinta»).

Tale disposizione indica dunque con maggiore specificità i parametri alla cui stregua un creditore munito di prelazione possa considerarsi non interessato (indifferente) alle sorti del concordato e quindi privato del diritto di voto: occorre che il piano ne preveda il pagamento integrale, in denaro, non oltre il termine di 180 giorni successivi alla data dell'omologazione (o di 30 gg. per i crediti dei lavoratori).

È peraltro previsto un ulteriore requisito, poiché è necessario che «la garanzia reale che assiste il credito ipotecario o pignoratizio resti ferma fino alla liquidazione, funzionale al loro pagamento, dei beni e diritti sui quali sussiste la causa di prelazione».

Tale requisito riguarda dunque non tutti i crediti muniti di prelazione, poiché non sono considerati i crediti privilegiati (generali o speciali), ma solo crediti muniti di garanzia reale, ossia quelli ipotecari e pignoratizi.

Limitatamente ad essi, occorre che il credito ipotecario o pignoratizio venga soddisfatto con quanto ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di garanzia (“liquidazione funzionale al loro pagamento”), fermo restando che la liquidazione deve avvenire nel predetto termine di 180 giorni successivi all'omologa e che la garanzia deve “restare ferma” fino al momento della liquidazione, espressione, quest'ultima, in verità poco tecnica, il cui significato dunque non è affatto chiaro.

Probabilmente si è inteso porre, per implicito, un divieto: il divieto, cioè, di pagare tali crediti (evidentemente con altri mezzi liquidi) prima che vengano liquidati i beni che ne costituiscono la garanzia oggettiva.

Ove tale pagamento (con altri mezzi liquidi) vi fosse, infatti, potrebbe verificarsi un duplice rischio: quello che il debitore possa conservare per sé il bene in questione (da lui evidentemente considerato strumentale alla continuazione dell'attività) libero dalla prelazione originaria (che, effettuato il pagamento con altri mezzi, ed estinto quindi il debito garantito, potrebbe non «restare ferma», eliminandosi il vincolo pignoratizio o cancellandosi l'iscrizione ipotecaria) e sottraendolo quindi ai creditori, e pagando per di più il creditore garantito con risorse che dovrebbero essere destinate ad altri creditori.

In sostanza la disposizione sembra esprimersi con una perifrasi, in modo indiretto, per dire semplicemente che il debitore deve pagare il creditore garantito con il denaro realizzato con il bene oggetto di garanzia, subito dopo la vendita, in modo che la garanzia «resti ferma» fino ad allora.

Il mancato riferimento ai crediti privilegiati sembra quindi dovuto semplicemente al fatto che in essi il privilegio viene meno per effetto immediato e diretto del pagamento senza che occorrano ulteriori attività per realizzare l'effetto purgativo della vendita (cancellazione dell'iscrizione ipotecaria ecc.).

Fatte tali precisazioni, e osservate le suddette condizioni, il creditore prelazionario dunque non voterà, ovvero, per la ragione opposta, avrà diritto di voto ove nel piano se ne preveda il pagamento in denaro, ma non integrale oppure oltre il termine di 180 giorni, come precisato (peraltro con un erroneo ed imbarazzante riferimento alle condizioni del primo e secondo periodo anziché a quelle del terzo e del quarto) dall'ultimo periodo del comma 5 («Se non ricorrono le condizioni di cui al primo e secondo periodo, i creditori muniti di diritto di prelazione votano e, per la parte incapiente, sono inseriti in una classe distinta»).

Alla luce di quanto prevede la norma non sembra possibile farle dire altro, in particolare non che il debitore possa anche prevedere nel piano per il creditore prelazionario, in quanto ritenuto in tutto o in parte capiente, un pagamento con mezzi diversi dal denaro.

Per potersi ipotizzare una tale chance, infatti, a parte ogni considerazione in termini di probabile illegittimità costituzionale, il legislatore avrebbe dovuto contemplarla esplicitamente ed in modo inequivoco, non certo lasciarla nel generico e fumoso limbo delle inferenze interpretative retraibili dalla surricordata espressione (per di più erronea) secondo cui «Se non ricorrono le condizioni di cui al primo e secondo periodo (…)», anche perché il diritto di voto non potrebbe che soggiacere in tale remota eventualità a requisiti ben precisi (in particolare sul modo per quantificare in senso equivalente la prestazione alternativa al pagamento in denaro), del tutto assenti dalla previsione normativa in esame.

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