Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e violazione dell'obbligo di repêchage

Francesca Giordano
05 Gennaio 2023

La Corte di cassazione esamina le seguenti questioni: i) la disciplina riguardante l'onere di allegazione dell'impossibilità dell'obbligo di repêchage del dipendente licenziato; ii) l'applicabilità della tutela reintegratoria nel caso di violazione dell'obbligo di repêchage da parte del datore di lavoro che ha intimato il licenziamento.
Il caso

Nell'ambito di un giudizio promosso con Rito Fornero da un lavoratore avente ad oggetto l'impugnativa di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi della legge n. 223 del 1991, la Corte di Appello di Salerno, con sentenza del 25 febbraio 2019, in riforma della decisione pronunciata dal tribunale oggetto di reclamo, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato al ricorrente, limitando le conseguenze a carico della società datrice di lavoro alla tutela risarcitoria stabilita dall'art. 18, comma settimo dellal. n. 300 del 1970.

La decisione di secondo grado, dichiarando l'illegittimità del licenziamento in quanto non era stata fornita la prova sull'impossibilità di ricollocare il lavoratore (c.d. “obbligo di repêchage”), aveva tuttavia confermato la risoluzione del rapporto di lavoro, in quanto ritenuto provato il giustificato motivo oggettivo posto a base del recesso e conseguentemente condannato la società al pagamento dell'indennità risarcitoria ai sensi dell'art. 18, comma settimo, l.n. 300del 1970 secondo la disciplina vigente al momento della pronuncia (febbraio 2019).

Il lavoratore ha pertanto proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Salerno.

La Società datrice di lavoro ha resistito con controricorso eccependo l'inammissibilità del ricorso principale e proponendo a sua volta ricorso incidentale avverso il capo di sentenza che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento per mancato assolvimento dell'obbligo di repêchage a suo carico.

Il giudizio di legittimità si è concluso con il parziale accoglimento del ricorso principale e il rigetto del ricorso incidentale.

La Corte di Cassazione infatti cassando la sentenza di secondo grado in relazione al motivo accolto, ha rinviato alla Corte di Appello di Salerno per verificare quale fosse la tutela applicabile in concreto a seguito dell'intervento della Corte Costituzionale che, con pronuncia n. 125 del 2022, ha dichiarato incostituzionale l'art. 18, comma settimo,l. n. 300 del 1970 (come modificato dall'art. 1, comma 42, lett. b) legge 28 giugno 2012, n. 92) limitatamente alla parola “manifesta” con effetto limitativo delle conseguenze reintegratorie applicabili ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.

Le questioni

Con la decisione in commento la Corte di Cassazione esamina le seguenti questioni: i) la disciplina riguardante l'onere di allegazione dell'impossibilità dell'obbligo di repêchage del dipendente licenziato per giustificato motivo oggettivo; ii) l'applicabilità della tutela reintegratoria nel caso di violazione dell'obbligo di repechage da parte del datore di lavoro che ha intimato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La soluzione giuridica

Sulla prima questione, la Suprema Corte ha confermato la decisione impugnata richiamando il principio generale espresso di recente dalla giurisprudenza di legittimità in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo secondo cui l'onere di allegazione e la prova dell'impossibilità di ricollocare il dipendente licenziato (c.d. obbligo di repêchage) spetta al datore di lavoro e non al lavoratore, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale (fra le decisioni richiamate: Cass., 22 marzo 2016, n.5592, Cass. 13 giugno 2016, n. 12101 e, successivamente, Cass. 20 ottobre settembre 2017, n. 24882).

Tali decisioni infatti avevano superato quell'orientamento che, seppure minoritario (espresso ad esempio in Cass. 8 novembre 2013, n. 25197), aveva attribuito al lavoratore licenziato un dovere di “collaborazione” nell'individuare i posti di lavoro che avrebbe potuto ricoprire in alternativa a quello soppresso.

In tale panorama giurisprudenziale la Suprema Corte definitivamente superando predetto orientamento ha confermato che sul datore di lavoro incombe l'onere di dimostrare il fatto negativo costituito dall'impossibile ricollocamento del lavoratore anche attraverso la prova di uno specifico fatto positivo contrario o tramite presunzioni dalle quali possa desumersi quel fatto negativo (cosi Cass. 24 settembre 2019, n. 23789).

Sulla questione della reintegrazione del lavoratore per violazione dell'obbligo di repechage la Corte rileva che nelle more del giudizio oggetto di reclamo è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale n. 125 del 2022 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 18 comma settimo, l. n. 300 del 1970 (come modificato dall'art. 1 , comma 42, lett. b), legge 28 giugno 2012, n. 92) limitatamente alla parola “manifesta” riferita all'insussistenza del fatto posto a base del recesso con effetto sulle conseguenze reintegratorie applicabili ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.

Pertanto, sul presupposto che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge incide anche sulla decisione che la Corte di legittimità è chiamata ad assumere, la sentenza in commento ha cassato la pronuncia impugnata nella parte in cui ha negato la tutela reintegratoria del lavoratore sulla base del previgente testo del menzionato art. 18, comma settimo Stat. Lav., ciò in quanto fondata su un parametro normativo oramai espunto dall'ordinamento (nello stesso senso le ordinanze di Cass. espressamente richiamate 6 luglio 2022 nn. 21470 e 21468).

Osservazioni

In sostanza, par di comprendere che la Corte di Cassazione, a seguito dell'eliminazione del criterio della “manifesta insussistenza” della circostanza fattuale posta a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, abbia inteso, ancorché implicitamente, estendere la tutela reintegratoria anche ai casi di violazione dell'obbligo di repechage (che ricordiamo essere di conio giurisprudenziale e non di fonte legale) asseverando tali tipologie di recesso all'interno di un concetto di insussistenza non apprezzabile prime facie dal giudice e quindi non “manifesta”.

Pertanto l'eliminazione dell'aggettivo manifesta dovrebbe comportare, secondo i supremi Giudici, la conseguenza reintegratoria in tutti i casi di discrepanza tra le ragioni sottese al giustificato motivo oggettivo e quelle emerse nel corso del giudizio, con particolare riferimento al mancato assolvimento dell'obbligo di repechage.