Licenziamento illegittimo: al trattamento pensionistico non si applica la detrazione dell'aliunde perceptum
05 Gennaio 2023
Massima
Nel caso di pronuncia di illegittimità del licenziamento con ricostituzione de iure del rapporto, ai fini della quantificazione dell'importo risarcibile non rilevano – in detrazione al danno emergente (corrispondente, anzitutto, alle retribuzioni altrimenti spettanti per il periodo) – a titolo di aliunde perceptum, i ratei di pensione di cui l'interessato ha beneficiato nel periodo medesimo, potendosi considerare compensativo del danno arrecato dal licenziamento non qualsiasi reddito percepito, ma solo i redditi conseguiti attraverso l'impiego della medesima capacità lavorativa, nella qualità di incrementi patrimoniali del danneggiato valutabili quali conseguenza immediata e diretta del licenziamento stesso e quindi rilevanti in termini di compensatio lucri cum damno.
D'altra parte, a seguito della ricostituzione del rapporto di lavoro (sebbene de iure, ma non de facto), vengono meno i presupposti che hanno giustificato la corresponsione del trattamento pensionistico, con conseguente ripetibilità da parte dell'INPS delle somme erogate, divenute ormai prive di giustificazione causale. Il caso: inquadramento generale
La vicenda concerne il recesso dal rapporto di lavoro, esercitato da una pubblica Amministrazione nei confronti di un proprio dirigente, il quale – alla data prevista per il collocamento a riposo (65 anni di età) – era stato, in un primo momento, trattenuto, a richiesta, in servizio (ex art. 16 D.lgs. n. 503/1992), ma, poco dopo, licenziato sulla base della normativa nel frattempo subentrata, che aveva introdotto, a fini di razionalizzazione dell'organizzazione amministrativa e di contenimento dei costi, la possibilità, per il datore pubblico, di risolvere il rapporto di lavoro nei confronti dei lavoratori trattenuti in servizio che avessero una anzianità contributiva di almeno 40 anni (art. 72, comma 11, D.l. n. 112/2008).
L'interessato aveva impugnato il provvedimento di licenziamento, evidenziando, fra l'altro, che la nuova normativa (art. 72, comma 8, D.l. n. 112 cit.), faceva comunque salvi i trattenimenti in servizio già in essere alla data della sua entrata in vigore e che, quindi, il richiamato potere di recesso non era legittimamente esercitabile nei suoi confronti; conseguentemente, l'interessato chiedeva il pieno ristoro dei danni subiti corrispondente, anzitutto, alle retribuzioni che gli sarebbero spettate se non (illegittimamente) allontanato dal posto di lavoro.
Soccombente nei due gradi di merito, l'interessato aveva visto poi riconosciute le proprie ragioni davanti giudice di legittimità (Cass. n. 22790/2013), il quale, nel cassare la impugnata sentenza d'appello, aveva rinviato il giudizio ad altra Corte d'appello; la decisione di quest'ultima – ritenuta non pienamente soddisfacente dall'interessato – veniva nuovamente impugnata davanti alla Corte di cassazione, che si è pronunciata conclusivamente, nella sentenza che si commenta, in senso favorevole all'ex-lavoratore pubblico per i profili di seguito indicati. Profili normativi
Della (piuttosto intricata) vicenda interessa, invero, in questa sede il solo profilo afferente alla quantificazione della somma spettante a titolo di risarcimento del danno per licenziamento illegittimo: pacifica la identificazione del danno emergente con le retribuzioni che l'interessato avrebbe percepito se non pretermesso dal posto di lavoro nel biennio per il quale era disposto il trattenimento in servizio, si trattava di stabilire, nel caso di specie, se dalle spettanze risarcitorie andasse detratto un importo pari al trattamento pensionistico che l'interessato aveva iniziato a percepire a seguito della risoluzione del rapporto di lavoro.
La tematica degli “attivi e passivi” che rilevano ai fini del risarcimento del danno per illegittimo licenziamento, assume normalmente rilievo, nella giurisprudenza in materia di lavoro, in termini di detrazione dell'aliunde perceptum, da intendersi tuttavia questo – secondo anche quanto consacrato nell'art. 18 l. n. 300/1970, come modificato dalla l. n. 92/2012 – nel senso di deduzione, dall'importo risarcitorio, delle somme che il lavoratore ha percepito per lo svolgimento di altra attività lavorativa (nonché, in taluni casi, di quelle che avrebbe potuto percepire in una nuova confacente occupazione).
Va tuttavia considerato che l'art. 18 St. Lav., si inserisce all'interno del più ampio alveo dell'art. 1223 cod. civ., norma base in tema di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, nella quale la giurisprudenza rinviene la fonte di un principio generale della materia, quello della compensatio lucri cum damno (“il risarcimento del danno deve comprendere … così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”). Soluzione giuridica
In applicazione di tale principio, la Corte d'Appello del rinvio aveva disposto venissero decurtate dal complessivo importo riconosciuto a titolo risarcitorio le somme che l'interessato “aveva comunque percepito come pensione d'anzianità, e ciò in quanto, mancando nella specie un dictum giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro che avrebbe reso ripetibili le somme erogate dall'INPS, si sarebbe verificata, in difetto di detrazione dell'aliunde perceptum, un'indebita locupletazione del ricorrente”.
Tale capo della sentenza del giudice del rinvio veniva impugnato dall'interessato sulla base del rilievo che solo il compenso da lavoro può comportare la riduzione del risarcimento per il principio della compensatio lucri cum damno, mentre il trattamento pensionistico non è in alcun modo ricollegabile al licenziamento illegittimo e non è detraibile anche qualora vengano, come nella fattispecie, a cristallizzarsi gli effetti del licenziamento per effetto della mancata reintegra in servizio.
Tale impugnazione è stata accolta dalla Cassazione n. 32130 che, allineandosi al consolidato orientamento di legittimità, ha, appunto, ribadito l'esclusione, dall'aliunde perceptum, del trattamento pensionistico “potendosi considerare compensativo del danno arrecato dal licenziamento non qualsiasi reddito percepito, ma solo quello conseguito attraverso l'impiego della medesima capacità lavorativa (cfr., fra le tante, Cass. n. 16136/2018, Cass. n. 16143/2014, Cass. 13871/2007, Cass. n. 6906/2009, Cass. 13715/2004, Cass. n. 11758/2003)”.
Nella parte motivazionale della sentenza vengono approfonditi taluni profili della vicenda evidenziandosi, in particolare, che la dichiarazione di illegittimità del licenziamento aveva comportato una ricostituzione de iure del rapporto di lavoro (non essendo quindi necessario un apposito dictum giudiziale a tali effetti) con la conseguenza che si era determinata “unitamente alla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro (sul quale permane l'obbligo contributivo), la ripetibilità da parte dell'INPS delle somme erogate … a titolo pensionistico, queste ultime divenute, sia pure ex post e per effetto dell'accertamento contenuto nella sentenza rescindente, prive ormai di giustificazione causale”.
Quest'ultimo rilievo, del giudice di legittimità, rende ancor più manifesta la infondatezza della richiesta di portare in detrazione dal risarcimento, quale aliunde perceptum, i ratei di pensione percepiti nel periodo successivo alla risoluzione del rapporto (poi ricostituito in via giudiziale): ciò proprio perché tali ratei – una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione – possono e devono essere chiesti in restituzione dall'Istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti.
In altre analoghe occasioni (Cass. n. 18687 del 2006), il giudice di legittimità aveva già rilevato che ritenere altrimenti (cioè considerando i ratei pensionistici detraibili quale aliunde perceptum) significa esporre il lavoratore ad una duplice perdita, quella conseguente alla detrazione dell'importo pensionistico dal risarcimento che gli spetta e quella della restituzione della somma all'Istituto previdenziale. Osservazioni
La sentenza evidenzia un valore aggiunto laddove – richiamando taluni contenuti di Sez. Un. n. 12564 del 2018 (pur riferentesi a fattispecie non coincidente con quella in esame) – approfondisce l'appartenenza del risarcimento del danno per illegittimo licenziamento al più ampio genus del risarcimento per inadempimento contrattuale di cui all'art. 1223 cod. civ., esaminando altresì i presupposti costituitivi ai fini della quantificazione del danno risarcibile.
La già richiamata formula codiciale (1223) correla, come noto, il risarcimento alla sussistenza di un nesso di derivazione causale immediato e diretto fra comportamento lesivo e danno patrimoniale, stabilendo, altresì, che tale conseguenzialità immediata e diretta rileva anche per la determinazione dell'importo risarcibile che presuppone il tener conto sia della demenutio patrimoniale del danneggiato, sia del “mancato guadagno”.
Questo secondo elemento può assumere, fra l'altro, rilevanza in termini di riduzione dall'entità economica riconosciuta a titolo di danno, quante volte si producano, quale conseguenza del fatto lesivo, incrementi economici a vantaggio del danneggiato, rilevanti anch'essi solo se derivino in via immediata e diretta dal fatto stesso (v. Bianca, Diritto civile, V, II ed., Milano, 2012, 167).
In tale prospettiva, la richiamata giurisprudenza delle S.U. sottolinea che “quando la condotta del danneggiante costituisce semplicemente l'occasione per il sorgere di un'attribuzione patrimoniale che trova la propria giustificazione [altrove] … allora non si riscontra quel lucro che, unico, può compensare il danno e ridurre la responsabilità”.
Da ciò appare evidente, in generale, che la prospettiva non è quella della coincidenza formale dei titoli, ma quella del collegamento funzionale fra causa dell'attribuzione patrimoniale e obbligazione risarcitoria. |