Tra gli obblighi che connotano rapporto di lavoro subordinato, importanza fondamentale riveste il dovere di fedeltà, che si traduce nel divieto per il lavoratore di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in contrasto con gli interessi del proprio datore di lavoro (cd. “divieto di concorrenza”) e di divulgare notizie riguardanti metodi di produzione o l'organizzazione aziendale in modo pregiudizievole per l'impresa (cd. “obbligo di riservatezza”). Ebbene, mentre tali obblighi operano ipso iure durante lo svolgimento del rapporto, nel periodo successivo alla cessazione il divieto può avere solo natura negoziale. Il patto di non concorrenza, quindi, è un contratto a titolo oneroso in forza del quale il datore di lavoro si impegna a corrispondere al lavoratore una somma di denaro o altra utilità in cambio dell'obbligo, da parte sua, di non svolgere (seppur entro certi limiti) attività in concorrenza con lo stesso datore di lavoro. Costituisce, pertanto, uno strumento di tutela del patrimonio aziendale, essendo finalizzato ad evitare che il datore di lavoro subisca un potenziale danno di natura concorrenziale da un proprio dipendente che, dopo aver cessato il rapporto, viene assunto da un'impresa concorrente ovvero decide di iniziare un'attività autonoma. Pertanto, il patto di concorrenza appare utile soprattutto per le imprese che hanno investito in innovazione, al fine di regolamentare rapporti con ex dipendenti che hanno avuto accesso a informazioni di carattere strategico. Se la parti non hanno stipulato un patto di non concorrenza, il lavoratore, una volta cessato il rapporto, sarà svincolato dagli obblighi scaturenti dal contratto di lavoro, con la conseguenza che potrà intraprendere ogni tipo di attività, sia in forma subordinata che autonoma, anche in concorrenza con quella del proprio datore di lavoro, con l'unico limite rappresentato dal divieto di divulgare notizie attinenti ai metodi di produzione o lavoro che devono rimanere comunque segrete (art. 622 e 623 c.p.).