Responsabilità degli amministratori per gestione non conservativa: il comma 3 dell'art. 2486 c.c. tra consolidamento e innovazione

16 Gennaio 2023

Il CCII ha innovato anche il diritto commerciale, modificando numerose disposizioni contenute nel libro V c.c.: gli Autori si soffermano in particolare sull' art. 2486 c.c., che delinea una responsabilità risarcitoria in capo agli amministratori colpevoli di non aver posto in essere una gestione conservativa del patrimonio sociale, e sul nuovo comma 3, inserito dall'art. art. 378 CCII, approfondendo le novità introdotte.
Premessa

Il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza ha profondamente innovato il nostro ordinamento giuridico, specie il diritto commerciale, modificando numerose disposizioni contenute nel libro V del codice civile, con effetto già dal mese successivo alla promulgazione (15 febbraio 2019).

Al riguardo può richiamarsi l'obbligo imposto agli imprenditori di dotarsi di adeguati assetti organizzativi, ma in questa sede si vuole evidenziare il rilievo che assume la novellazione dell'art. 2486 c.c. al quale, in perfetta armonia rispetto quanto disposto dall'art. 14 Legge delega n. 155/2017, è stato aggiunto un terzo comma.

Dalla lettura della Relazione illustrativa al CCII risulta piuttosto agevole individuare le ratio alla base dell'intervento normativo di cui sopra.

Da un lato emerge l'esigenza di risolvere, in un'ottica deflattiva, il contrasto giurisprudenziale esistente in materia, mentre dall'altro la necessità di quantificare il danno nei casi, non infrequenti nella pratica, in cui mancano le scritture contabili o sono state tenute irregolarmente.

Inquadramento giuridico

L'art. 2486 c.c. delinea una responsabilità risarcitoria in capo agli amministratori colpevoli, una volta accertata una causa di scioglimento, di non aver posto in essere una gestione conservativa del patrimonio sociale.

Tuttavia, spesso la definizione del quantum dei pregiudizi riconducibili agli atti di gestione realizzati dall'organo amministrativo si è rivelata particolarmente critica.

Nella prassi, infatti, risultava particolarmente difficoltoso parametrare l'atto compiuto dall'amministratore e il danno arrecato dal compimento dell'atto stesso con l'appurata e insita dinamicità dell'impresa cui lo stesso atto è sotteso.

In altri termini, il principio cardine della “Business Judgment rule” dato dall'insindacabilità delle scelte gestorie rappresentava uno scoglio non facilmente superabile.

A tal proposito, giova ricordare che una tra le condotte dannose realizzabili dagli amministratori può consistere in atti/attività gestorie protratte nel tempo.

Anzi, si tratta indubbiamente della fattispecie maggiormente diffusa dalla quale derivano innumerevoli criticità, specie in tema di quantificazione del danno.

Questo in ragione della implicita e conseguente difficoltà di identificazione e separazione delle condotte (tra dannose e non dannose).

La giurisprudenza ha, dunque, elaborato alcuni criteri di quantificazione del danno, i più accreditati dei quali sono stati:

  1. il criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare che fa coincidere il danno con la differenza tra l'attivo e il passivo accertati nell'ambito della procedura concorsuale;
  2. il criterio della differenza dei netti patrimoniali che fa coincidere il danno con la differenza tra il patrimonio netto della società al momento in cui gli amministratori avrebbero dovuto accorgersi del verificarsi della causa di scioglimento e il patrimonio netto della società al momento della messa in liquidazione, entrambi stimati secondo criteri liquidatori (Monti S., Il Codice della crisi e la disciplina civilistica in tema di impresa: novità ed “eterno ritorno”, in questo portale, 13 febbraio 2019).

Il primo dei due era stato però già stato scartato dall'orientamento giurisprudenziale maggioritario (Cass. Sez. Un. n. 9100/2015) in quanto inadatto a quantificare il danno senza considerare il nesso causale tra la condotta dell'amministratore e l'effetto effettivamente provocato.

Dal che rischiava di far coincidere le performance negative dell'impresa con il pregiudizio arrecato.

A prevalere è stato il secondo criterio (cfr. Cass. 20 aprile 2017, n. 9983; Trib. Milano 28 novembre 2017; Trib. Milano 5 giugno 2018 n. 6324), con la conseguenza che l'applicazione di quello basato sulla differenza tra attivo e passivo fallimentare veniva considerato meramente residuale e limitato ai casi estremi, ove non fossero rinvenibili o fossero totalmente inattendibili le scritture contabili.

L'indirizzo dottrinaleper cui“il danno non può consistere nella mera differenza tra attivo e passivo fallimentare, ma deve valutarsi in concreto quanta parte del patrimonio sociale perduto sia causalmente imputabile alla condotta dell'amministratoreha dunque trovato un importante alleato nella giurisprudenza maggioritaria, la quale ha accolto e sviluppato il o criterio dei netti patrimoniali.

Il nuovo terzo comma dell'art. 2486 c.c.

Il residuo contrasto giurisprudenziale è stato risolto per effetto dell'art. 378 CCII, a mente del quale: “All'art. 2486 del codice civile dopo il secondo comma è aggiunto il seguente: <<Quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo, esalva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l'amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all'articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell'irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura>>”.

In prima analisi, emerge l'introduzione di una presunzione “semplice” (“salvo la prova di un diverso ammontare”) per effetto della quale il danneggiato viene esonerato dall'onere di dimostrare analiticamente il danno patito.

Ciò ha l'effetto di avvantaggiare la Curatela, qualora la società incorra nella liquidazione giudiziale, e la compagine sociale, nel caso in cui dovesse risultare ancora in bonis.

Secondariamente, rileva il criterio di “normalità” in forza del quale la determinazione del quantum viene determinata dalla differenza tra la quantificazione del patrimonio netto in presenza di scritture contabili ed i costi che in ogni caso dovrebbero essere sostenuti tra lo scioglimento e la liquidazione.

Infine, rileva come l'applicazione del criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare sia solamente residuale, ossia a ciò si ricorra solamente nel momento in cui “mancano le scritture contabili o se a causa dell'irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati”.

Tirando le somme, ci si può trovare in due diverse situazioni a seconda che l'imprenditore abbia o non abbia tenuto regolarmente le scritture contabili.

Nel primo caso è pacifico che se venisse dichiarata l'apertura della liquidazione il danno potrebbe essere quantificato tramite presunzioni o, comunque, verrebbe qualificato ad una stregua di “perdita incrementale”.

Il quantum coinciderebbe con la differenza tra il patrimonio netto alla data di apertura della procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento, detratti i costi cosiddetti inevitabili (dipendenti, locazioni, utenze) sostenuti (e da sostenere) dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione (Trib. Torino 15 giugno 2020).

Nella seconda ipotesi il danno verrebbe liquidato come differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura (tematica già oggetto di dibattito della Cassazione nella sentenza n. 9100/2015; cfr. Trib. Firenze 13 maggio 2020).

Fermo restando che l'art. 2486 c.c. così integrato, stante la sua natura di jus superveniens, trova applicazione nei confronti di quei procedimenti introdotti dopo la sua entrata in vigore (App. Catania 16 gennaio 2020).

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