L'obbligo di repêchage nel licenziamento per “motivo oggettivo”: quale tutela per il lavoratore?

17 Gennaio 2023

Il contributo si pone l'obbiettivo di ripercorrere le principali “tappe” del lungo cammino dell'obbligo di repêchage, in ambito di recesso per giustificato motivo oggettivo. Questo muovendo dalle ragioni giuridiche sottese alla sua risalente matrice giurisprudenziale e finendo col comprendere, tanto le recenti osservazioni incidentali fornite dalla Corte Costituzionale, quanto la conseguente e repentina “reazione” della Corte di Cassazione. Un'analisi di sintesi, ma complessiva, che induce anche ad alcune riflessioni conclusive, in chiave prospettica, della disciplina a tutela dei licenziamenti illegittimi.
Attualità e rilevanza del repêchage

In luce dei recenti passaggi della Corte Costituzionale e assunta la succedanea e metabolica elaborazione di Cassazione (vedi infra § L'intervento della Consulta e la “reazione” di legittimità), non può dubitarsi circa l'attualità e, forse, dell'opportunità di una “matura” e maggiormente compiuta riflessione rispetto alla notissima tematica concernente il c.d. “obbligo di repêchage”.

Anche perché, allo stato, nella fattispecie del recesso per giustificato motivo oggettivo, vuoi per volontà legislativa di “impermeabilizzare”, dal controllo giudiziale, le «valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro» (art. 30, comma 1, L. 4 novembre 2010, n. 183) e fra le quali, per giurisprudenza costante, al netto della tutt'ora preclusa ipotesi di «licenziare un dipendente solo perché è “costoso”» (Trib. Milano 16 dicembre 2021, n. 2707), è consentito annoverare una pressoché “totale” casistica dei plausibili mutamenti del contesto aziendale (per tutte, Cass. 1° luglio 2016, n. 13516: «Nel presupposto d'una scelta aziendale effettiva e non pretestuosa, in linea di massima […] la soppressione d'una data posizione lavorativa può derivare:

a) o da una diversa organizzazione tecnico-produttiva che abbia reso determinate mansioni obsolete o comunque non più necessarie o, ad ogni modo, da abbandonarsi in virtu' di insindacabile scelta aziendale […];

b) oppure dall'esternalizzazione di determinate mansioni (che, pur reputate ancora necessarie, vengano però lasciate a personale di imprese esterne);

c) o dalla soppressione d'un intero reparto o dalla riduzione del numero dei suoi addetti, rivelatosi sovrabbondante per l'impegno richiesto;

d) o - ancora - da una diversa ripartizione di date mansioni fra il personale in servizio, attuata a fini di più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che, invece di essere assegnate ad un solo dipendente, date mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà' aggiungere a quelle già espletate: il risultato finale fa emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente.), vuoi per le ampie finalità perseguibili dalla discrezionalità imprenditoriale, oggi inclusiva, non solo della “sopravvivenza” a condizioni sfavorevoli, ma anche dell'ottenimento di una maggiore profittabilità (decisiva, sull'abbandono della situazione “negativa” come pre-requisito al licenziamento, Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201), le dispute processuali sulla liceità dei provvedimenti espulsivi si concentrano, proprio e necessariamente, sul preventivo adempimento dell'istituto in parola.

L'origine giurisprudenziale del “ripescaggio”

Senza pretesa di esaustività - atteso anche lo sterminato diritto “vivente” in materia -, essenziale appare una breve ricognizione circa le origini del “ripescaggio”, se non altro, vista la sua collocazione extra-testuale (art. 3 L. 15 luglio 1966, n. 604: «Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da […] ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa») e un'origine di riconosciuto “impulso” giurisprudenziale, con intenti definitori dell'onere medesimo.

Allo scopo, si prestano e non può prescindersi, da risalenti pronunciamenti delle Sezioni Unite (in particolare, Cass. s.u. 7 agosto 1998, n. 7755) che, pur esprimendosi sulla diversa fattispecie del licenziamento per impossibilità sopravvenuta (art. 1464 c.c.), «conservano piena validità» (così si esprime successivamente la Sezione Lavoro in Cass. 13 agosto 2008, n. 21579) nonché dirimente efficacia esegetica, anche - e soprattutto - rispetto alla casistica del “motivo oggettivo”.

In brevis, fornendo uno dei primi esempi di “penetrazione”, nel contratto subordinato, dei principi di “correttezza” e “buona fede” ex artt. 1175 e 1375 c.c. (su “armonizzazione” e “integrazione” del contenuto contrattuale in ambito lavoristico, Cass. 25 gennaio 2011, n. 1699), il supremo collegio, attingendo anche da un pregresso fervore giurisprudenziale - evidenziato nella parte motiva -, rilevava come, nel peculiare sinallagma, «l'oggetto della prestazione coinvolge la stessa persona umana e [che i] valori costituzionali impongono una ricostruzione dei rapporti d'obbligazione nell'ambito dell'organizzazione d'impresa e secondo la clausola generale di buona fede, tale da attribuire con diversi criteri gli obblighi di cooperazione all'imprenditore» (Cass. s.u. 7 agosto 1998 cit., “motivi della decisione”, sub 11).

Con l'effetto di ricavarne un dovere di (ri)equilibrare i contrapposti interessi delle parti e che, quasi a paradosso, le sezioni unite fondavano proprio su uno dei “poteri” tipici ascritti al titolare del rapporto ossia lo ius variandi delle mansioni originariamente assegnate al lavoratore, in particolare osservando che «l'evento impeditivo […] dev'essere valutato, quanto alle sue conseguenze, in relazione agli obblighi di cooperazione dell'imprenditore-creditore, cosi tenuto non soltanto a predisporre gli strumenti materiali necessari all'esecuzione del lavoro ma anche ad utilizzare appieno le capacità lavorative del dipendente nei limiti dell'oggetto del contratto, ossia nei già detti limiti posti dall'art. 2103 cod. civ.» (Ibidem).

Muovendo da queste “alte” considerazioni, la giurisprudenza successiva, abbracciando il concetto di giustificazione del recesso solo come extrema ratio (ex plurimis, Cass. 11 ottobre 2016, n. 20436), meglio circostanziavano i termini per adempiere all'incombenza del repêchage, specificando che «sul datore di lavoro incombe la prova sia della concreta riferibilità del licenziamento a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo - organizzativo, sia della impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell'attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito» oltreché di aver «prospettato al lavoratore, ove compatibile con il suo bagaglio professionale specifico e con il nuovo assetto aziendale, la possibilità di un'utilizzazione in mansioni inferiori» (Cass. 13 agosto 2008 cit., “motivi della decisione”, sub 6 e 9 e successive).

L'insussistenza del fatto e la tutela reintegratoria “attenuata”

Sicché, in un contesto normativo pensato ed edificato sulla “tutela unica” (under 15, “indennitaria” art. 8 L. 15 luglio 1966, n. 604; over 15 “reintegratoria” art. 18 L. 20 maggio 1970, n. 300 ante Fornero), il vaglio giudiziale, in ipotesi di censura del licenziamento, si è per lungo tempo raccolto attorno allo specifico segmento della “prova” (art. 5 L. 15 luglio 1966, n. 604; art. 2697 c.c.) ovvero angustiandosi nel definire se l'onere del datore di “ricollocazione” ossia di dimostrare l'impossibilità di una differente utilizzazione del prestatore, fosse - o meno - condizionato alla collaborazione di quest'ultimo, mediante sua indicazione di altri “posti” disponibili all'interno del “perimetro” aziendale.

Contrasto nomofilattico risolto, anche per logiche ragioni di “vicinanza della prova” (Cass. 5 gennaio 2017, n. 160), in favore del soggetto estromesso, il quale «una volta provata l'esistenza d'un rapporto di lavoro a tempo indeterminato risolto dal licenziamento intimatogli, deve solo allegare l'altrui inadempimento, vale a dire l'illegittimo rifiuto di continuare a farlo lavorare oppostogli dal datore di lavoro in assenza di giusta causa o giustificato motivo, mentre su questi incombe allegare e dimostrare il fatto estintivo, vale a dire l'effettiva esistenza d'una giusta causa o d'un giustificato motivo di recesso [nel quale] rientra pure l'impossibilità del c.d. repêchage» (per esaustività argomentativa, Cass. 13 giugno 2016, n. 12101).

Tuttavia, il radicale mutamento della disciplina rimediale ex art. 18 L. 20 maggio 1970 cit., attuato per mano della c.d. Riforma Fornero (art. 1, comma 42, l. 28 giugno 2012, n. 92) e determinante un controllo giurisdizionale “bifasico”, teso ad accertare, non solo «la sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo di recesso», ma anche «nel caso in cui lo escluda, […] il grado di divergenza della condotta datoriale dal modello legale e contrattuale legittimante”» (Cass. 27 maggio 2021, n. 14777), ha scaturito un rinnovato interesse rispetto ai “connotati” giuridici dell'onere in questione.

In particolare, assunta la previsione di una tutela reintegratoria “attenuata” (art. 18, comma 4, l. 20 maggio 1970 cit.) anche in occasione di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo» (art. 18, comma 7, l. 20 maggio 1970 cit.), la giurisprudenza post Riforma si è dovuta, quindi, cimentare, sulle conseguenze “sanzionatorie” del mancato assolvimento, come detto, versante datoriale, dell'obbligo di “ripescaggio”.

In questo senso, dirompente la “breccia” aperta dalla notissima Cass. 2 Maggio 2018, n. 10435 (richiamata in seguito, per il tramite delle confermative Cass. 11 novembre 2019, n. 29102 e Cass. 12 dicembre 2018, n. 32159, anche dalla Corte Costituzionale. V. infra.), la quale sanciva, in funzione nomofilattica a risolvere questione di diritto di particolare importanza (art. 384 c.p.c.), che «il riferimento legislativo alla “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie [considerata l']espressione lessicale utilizzata dal legislatore, il "fatto", sganciata da richiami diretti ed espliciti alle "ragioni" connesse con l'organizzazione del lavoro o l'attività produttiva previste dalla L. n. 604 del 1966, articolo 3 […]. Quindi, una volta accertata l'ingiustificatezza del licenziamento per carenza di uno dei due presupposti […], il giudice di merito, ai fini dell'individuazione del regime sanzionatorio da applicare, deve verificare se sia manifesta ossia evidente l'insussistenza anche di uno solo degli elementi costitutivi del licenziamento, cioè della ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa […] ovvero della impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse».

L'intervento della Corte Costituzionale e la “reazione” della Cassazione

Accolto tutt'altro che all'unanimità (sulle perplessità rispetto all'applicazione della tutela reale “attenuata”, A. Maresca, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento negli approdi nomofilattici della cassazione, in Mass. Giur. Lav., 2019, III), l'orientamento testé ha tuttavia trovato il favore, seppur incidenter tantum, della Corte Costituzionale, la quale, per mezzo delle “connesse” sentenze del 1° aprile 2021, n. 59 e del 19 maggio 2022, n. 125, si è pronunciata proprio sulla conformità ai “perimetri” tracciati dalla Carta dell'art. 18 art. 18, comma 7, l. 20 maggio 1970 cit.

Per vero, dall'osmotica lettura delle decisioni, concluse, come noto, con l'espunzione testuale del «può altresì applicare» e del «manifesta», emergono rilevanti passaggi a conferma della natura “portante”, rispetto alla fattispecie del GMO, dell'obbligo di repêchage e dei suoi “effetti”, in termini di tutela da accordare al lavoratore illegittimamente “espulso”.

Dapprima, richiamando il supra citato formante giurisprudenziale di Cassazione, la Consulta suffraga la tesi per cui l'insussistenza del fatto posto a base del recesso, quale conseguenza diretta della sua natura pretestuosa, «si correla strettamente ai presupposti di legittimità del licenziamento […] che è onere del datore di lavoro dimostrare [e che] Tali sono da intendersi le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine, l'impossibilità di collocare altrove il lavoratore» (Corte cost. 1 aprile 2021 cit., considerato in diritto, sub 5).

In aggiunta, riaffermando che per l'operatività del «rimedio della reintegrazione, è sufficiente che la […] insussistenza riguardi uno dei presupposti appena indicati», il giudice delle leggi, con espressioni proprie, quasi a giustificare la caratura di “fatto” attribuita all'adempimento del “ripescaggio” e nell'intento di “saldarlo”, per via interpretativa, alla fattispecie ex art. 3 L. 15 luglio 1966 cit., evidenzia come «Tali presupposti, pur nel loro autonomo spazio applicativo, si raccordano tutti all'effettività della scelta organizzativa del datore di lavoro» (Ibidem).

Le anzidette deduzioni traggono poi ulteriore vigore dalla pronuncia n. 125, la quale, pur avendo margini per agire diversamente (sull'alternativa della interpretazione costituzionale del concetto di «manifesta insussistenza», M. Marazza, Diritti sociali, libertà economiche e prevedibilità nella più recente giurisprudenza della Corte cost. (nn. 125 e 183/2022) in materia di licenziamento, in Giustiziacivile.com, 7 ottobre 2022), oltre a muovere per ampi richiami della prima sentenza, puntualizza, da una parte, che «Nell'ambito del licenziamento economico, il richiamo all'insussistenza del fatto vale a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi, che investono il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale, confluita nell'atto di recesso», dall'altra e “per sottrazione”, che «Rientrano nell'area della tutela indennitaria le ipotesi in cui il licenziamento è illegittimo per aspetti che, pur condizionando la legittimità del licenziamento, esulano dal fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto [come] il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibili» (Corte cost. 19 maggio 2022 cit., considerato in diritto, sub 8).

A stretto giro e ad avvallare la ricostruzione dell'istituto del “ripescaggio” alla stregua di fatto costitutivo - “negativo” - del licenziamento, ci ha di conseguenza pensato la tempestiva “reazione” della giurisprudenza di legittimità, la quale, intervenendo su procedimenti “in itinere” e rinviando in appello la verifica della tutela applicabile di riflesso alla mancata dimostrazione, da parte del recedente, dell'impossibilità a una utile ricollocazione del prestatore, ha stabilito che la questione «deve essere decisa in conformità dell'attuale assetto normativo delineato dall'articolo 18 della L. n. 300 del 1970 quale definito dalle sentenze della Corte costituzionale n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022, successive al deposito dell'impugnazione» (da segnalare, di identico tenore, Cass. 18 novembre 2022, n. 34049, Cass. 11 novembre 2022, n. 33341, Cass. 2 dicembre 2022, n. 35496).

Stato dell'arte e prospettive di tutela

Da quanto sinteticamente precede, pare emergere una nitida ricostruzione dei propedeutici doveri datoriali di ricollocazione e che, pur continuando a incontrare dissensi (con un paragrafo rubricato “Prospettive di dissenso”, F. Manfredi, Scatta la reintegrazione anche in caso di violazione dell'obbligo di repêchage, in Guida lav., 2022, L), sembra oggi rappresentare un'ineludibile presa di posizione - ai massimi livelli - da parte della giurisprudenza in tema di repêchage.

Dunque, nell'ottica dell'operatore del diritto, si mostra utile una riassunzione dello “stato dell'arte”, muovendo proprio dalla consapevolezza del suo “lungo cammino”, il quale, in esito, da una genesi, potremmo dire, per “gemmazione” giurisprudenziale, lo ha assurto al rango di elemento costitutivo - e autonomo - della fattispecie ex art. 3 L. n. 604 del 15 luglio 1966 cit.

Nell'intento, deve innanzitutto convenirsi sul fatto che la condotta datoriale “preventiva” al licenziamento, deve oggi essere governata dal principio di massima cautela posto che, fermi i «limiti rappresentati dalla ragionevolezza dell'operazione che non deve comportare rilevanti modifiche organizzative ovvero comportanti ampliamenti di organico o innovazioni strutturali» (ex multis, Cass. 3 dicembre 2019, n. 31521), la complessità dell'esatto adempimento del “ripescaggio”, ancorché “voluto”, risulta tutt'altro che trascurabile.

Si pensi, per esempio, all'ampiezza territoriale “assoluta” che deve condurre la ricerca di posizioni “utili” (anche di recente, su Aziende operanti in appalti multilocalizzati su tutto il territorio nazionale, Cass. 11 novembre 2022 cit.) ovvero sull'incidenza, nella valutazione giudiziale circa la sussistenza delle medesime, di eventuali assunzioni professionalmente “compatibili” procedute post licenziamento (di recente, sulla verifica dei nuovi avviamenti, per un congruo periodo di tempo successivo al recesso, di lavoratori addetti a mansioni equivalenti, per il tipo di professionalità richiesta, a quelle espletate dal dipendente estromesso, Cass. 4 marzo 2021, n. 6085).

O ancora, assodato che il datore di lavoro non può cavarsela, a ogni modo, con una “singola” e unilaterale proposta di reimpiego (sul punto, anche Cass. 18 gennaio 2022, n. 1386), deve altresì rilevarsi l'influenza impressa dalle modifiche alla disciplina delle mansioni, operata dall'art. 3 D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, la quale, superando il concetto di equivalenza “sostanziale”, per approdare a quello di corrispondenza “formale” ossia per rinvio alle declaratorie definite dall'autonomia contrattuale collettiva, ha comportato, con tutta evidenza, un «aggravamento dell'onere della prova in tema di repechage» (Trib. Torino 13 novembre 2019, n. 1676).

Invero, secondo parte della giurisprudenza di merito, per un verso, «il datore di lavoro dovrà allegare e provare di non poter adibire il lavoratore a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte», per altro, la “ricerca” e i conseguenti assolvimenti probatori dovranno forzatamente concernere, senza dunque necessità di consenso del lavoratore, anche le «mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nelle medesima categoria» (Trib. Cosenza 23 luglio 2021, n. 1560).

Una finale riflessione deve in ultima analisi rivolgersi al frastagliato sistema di tutele a protezione dei licenziamenti contra ius e, segnatamente, all'ambito applicativo della reintegrazione, la quale, attualmente, in virtù dell'art. 18, comma 7, l. 20 maggio 1970 cit., sembra essere residualmente circoscritta ai soggetti assunti, ante 7 marzo 2015, da aziende c.d. “over 15”.

Tuttavia, a ben vedere, la stabilità di un siffatto quadro normativo sembra sempre più in discussione, con evidenti potenzialità di un futuro “allargamento” del problema.

Infatti, da una parte, la garanzia assicurata ai dipendenti delle aziende “sotto soglia” di cui all'art. 8 L. n. 604 del 15 luglio 1966 cit., ma anche all'art. 9 D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, appare oggi sempre più precaria, dopo l'esplicito monito di inadeguatezza – mediante lo strumento della “doppia pronuncia” – sancito, di recente, dalla Corte Costituzionale (v. C. Cost. 22 luglio 2022, n. 183); dall'altra, anche per gli assunti con decorrenza 7 marzo 2015 e per i quali, in caso di recesso per GMO, l'art. 3 D.lgs. 4 marzo 2015 cit. dispone un rimedio meramente indennitario, potrebbero invero realizzarsi radicali ribaltamenti di fronte, considerato che, evidenti - almeno a parere dello scrivente - profili d'incostituzionalità della norma, peraltro ben evincibili solo dall'osservare che «qualora sia insussistente il fatto materiale posto alla base del licenziamento, che quest'ultimo sia qualificato arbitrariamente dal datore di lavoro come per motivo soggettivo o oggettivo poco importa: non può esservi, nel nostro ordinamento giuridico, una diversificazione delle tutele sanzionatorie che dipenda esclusivamente dalla volontà datoriale (che “etichetta” un licenziamento per motivo soggettivo o oggettivo a suo piacimento, poiché sempre di “insussistenza” del fatto si parla)», sono già stati formalmente mossi e processualmente incardinati (estratto della formulazione di eccezione d'incostituzionalità sollevata nei ricorsi promossi in Trib. Roma, RG 21803/2022).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario