Si parte dall'errore dei giudici di merito nell'applicazione della fattispecie di responsabilità invocata dal ricorrente il quale, nell'azione svolta in giudizio, aveva in realtà attivato la responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. e non quella aquiliana derivando, conseguentemente, un assetto totalmente diverso degli oneri probatori e di allegazione.
Pur ribadendo il consolidato principio secondo cui “Il lavoratore che agisca ai sensi dell'art. 2087 c.c. ha l'onere di provare l'esistenza del danno subito, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro”(ex multis, Cass. 15 aprile 2014, n. 8804; Cass. 8 maggio 2014, n. 9945), la Corte di Cassazione adotta un criterio “elastico” affermando che “tale assetto va peraltro calibrato rispetto ai casi, come quello di specie riguardante il verificarsi di un c.d. superlavoro ed in cui la nocività addotta consiste nello svolgimento stesso della prestazione”.
Di particolare pregio è l'analisi dei giudici di legittimità sulla natura del “superlavoro”, fattispecie giurisprudenziale introdotta nel diritto vivente dalla nota pronuncia della Cassazione, 1 settembre 1997, n. 8267 (si rimanda a Tambasco, Il danno da superlavoro e da usura psico-fisica nella giurisprudenza, in questa Rivista, 9 giugno 2022).
Come accennato, il fulcro è individuato nella modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, che consente di distinguere:
a) lo svolgimento di attività lavorativa consentita dalla legge, eseguita secondo le modalità ordinarie, che abbia tuttavia prodotto un pregiudizio alla salute coperto in via indennitaria dall'assicurazione pubblica (cd “equo indennizzo”);
b) lo svolgimento di un'attività lavorativa in sé legittima ma “in concreto svolta secondo modalità devianti da quelle ordinariamente proprie di essa”, da cui sia eziologicamente derivato un danno psico-fisico, tutelato dalla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro (responsabilità contrattuale).
In modo ancor più pregnante, l'ordinanza specifica come il proprium del “superlavoro” sia l'azione non di fattori “esogeni” aventi fonte nell'ambiente lavorativo, bensì di fattori “endogeni” alla prestazione stessa, consistenti nella violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo di garantire che lo svolgimento della prestazione lavorativa non sia fonte di pregiudizi indebiti, ovvero eccedenti la normale usura psico-fisica connaturata all'esecuzione di quella attività.
Come si articola, concretamente, l'obbligo di garanzia datoriale?
In modo duplice: sia con “componenti positive” (cd. obblighi di fare), dovendo il datore positivamente intervenire con forme di prevenzione o impedimento di situazioni dannose, sia attraverso “componenti lato sensu negative” (cd obblighi di non fare), che si sostanziano nell'obbligo per il datore di evitare la richiesta di prestazioni lavorative con modalità improprie.
Ecco il punto in cui l'elegante elaborazione teorica si salda all'effettività della tutela giurisdizionale: nello specifico ambito del “superlavoro”, significa affermare non solo l'obbligo di astensione dal richiedere lo svolgimento della prestazione lavorativa “oltre la normale tollerabilità”, ma anche il dovere positivo di impedire che il lavoratore –anche spontaneamente- esegua il lavoro con modalità nocive per la propria salute.
Si tratta, in quest'ultimo caso, di un'importante dichiarazione contro il principio volenti non fit iniuria, ovvero rispetto a quell'orientamento giurisprudenziale chetende ad escludere la responsabilità datoriale nel caso in cui il superlavoro dipenda dalla spontanea assunzione, da parte del lavoratore, di ritmi di lavoro eccessivi (cfr. Cass., 2 settembre 2015, n. 17438, caso di dipendente il cui superlavoro era stato frutto della spontanea assunzione di oneri e carichi di competenza altrui, integrando in questo modo l'interruzione del nesso eziologico (1).
Appare pertanto coerente con questa impostazione teorica il filone giurisprudenziale che, ai fini della sussistenza della responsabilità ex art. 2087 c.c., ha considerato irrilevante l'assenza di doglianze mosse dal lavoratore, così come l'ignoranza delle particolari condizioni in cui erano state prestate le mansioni affidate ai dipendenti, che, salvo prova contraria, si devono presumere come conosciute dal datore di lavoro in quanto espressione ed attuazione concreta dell'assetto organizzativo adottato dall'imprenditore (ex multis, Cass., 27 gennaio 2022, n. 2403, cit.; Cass., 8 giugno 2017, n. 14313, cit.; Cass., 8 maggio 2014, n. 9945, cit.).
Conseguentemente anche il fatto che il lavoratore, per la sua posizione apicale, avesse la possibilità di modulare da un punto di vista organizzativo la propria prestazione, anche in relazione ai carichi di lavoro, alle modalità di fruizione delle ferie e dei riposi, non costituisce comunque fattore di esclusione della responsabilità datoriale, residuando pur sempre in capo al datore di lavoro –come abbiamo visto- un obbligo positivo di vigilanza in ordine al rispetto delle misure atipiche di sicurezza ex art. 2087 c.c. (Cass., 27 gennaio 2022, n. 2403, cit., caso relativo al superlavoro di un dirigente, con nota di Capurro, Recenti arresti di giurisprudenza sul dialogo tra libertà e diritti, nel rapporto di lavoro dirigenziale, in Labor Rivista, 4 giugno 2022).