Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e repêchage: rileva anche la posizione che richiede una formazione professionale

Teresa Zappia
24 Gennaio 2023

I principi di buona fede e correttezza implicano la valutazione di una riqualificazione professionale del lavoratore licenziabile per g.m.o.
Massima

Nei casi in cui la professionalità del lavoratore sia considerata obsoleta a seguito di una riorganizzazione dell'azienda, l'applicazione dei principi di buona fede e correttezza implica che il datore, prima di risolvere il rapporto, valuti l'impossibilità non solo del repêchage, ma anche della riqualificazione professionale, eventualmente mediante l'affiancamento ad altri colleghi. La possibilità di una ricollocazione del lavoratore in seno all'azienda comporta l'applicabilità dell'art. 18, co. 7, St. Lav.

Il fatto

La società-datrice, ai sensi dell'art. 1, co. 51, L. n. 92/2012, impugnava l'ordinanza con la quale era stata accertata l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o. del lavoratore, dichiarando risolto il rapporto intercorso tra le parti e condannando la ricorrente a corrispondere al dipendente – che ne aveva fatto richiesta – l'indennità sostitutiva della reintegra, oltre all'indennità risarcitoria, dedotto l'aliunde perceptum.

La società opponente ribadiva quanto già esposto nella fase sommaria, assumendo di aver dimostrato il giustificato motivo di licenziamento, sia con riferimento al riassetto organizzativo esistente al momento della comunicazione del recesso ed al nesso causale con la posizione del lavoratore, sia in relazione al rispetto dei principi di correttezza e buona fede nella scelta del dipendente da licenziare e dell'obbligo di repêchage. Chiedeva, pertanto, di accertare e dichiarare la legittimità del recesso e la restituzione di quanto corrisposto.

La questione

Quale tutela è riconosciuta al lavoratore qualora sia violato l'obbligo di repêchage?

La soluzione del Tribunale

Il Tribunale di Lecco ha rammentato, innanzitutto, la posizione espressa dalla Corte Costituzionale (sent. n. 125/2022), la quale ha dichiarata l'illegittimità dell'art. 18, co. 7, St. Lav. (come modificato dalla L. n. 92/2012), limitatamente alla parola “manifesta”. Ciò, ad avviso del giudice di merito, corroborava l'impianto argomentativo sulla base del quale, all'esisto della fase sommaria, era stata ritenuta sussistenze l'ipotesi di “evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento”. La Corte Costituzionale, nella medesima sentenza precitata, aveva anche chiarito che il fatto all'origine del licenziamento per g.m.o. include non solo le ragioni giustificative dello stesso ed il nesso causale con la posizione del licenziato, ma anche l'impossibilità di collocare altrove il lavoratore, pur non potendo il giudice sconfinare in un sindacato di congruità ed opportunità.

Alla luce di quanto sopra il Tribunale ha rigettato il ricorso, ribadendo che, in caso il licenziamento per g.m.o. il contenuto dell'onere probatorio gravante sul datore consiste non solo nell'effettiva sussistenza delle ragioni aziendali e del nesso causale tra queste e la posizione del lavoratore, ma altresì nell'inutilizzabilità aliunde di quest'ultimo.

Il giudice di merito ha, quindi, ritenuto ricorrente un'ipotesi di insussistenza del fatto posto alla base del recesso datoriale non solo quando il nesso tra riassetto organizzativo e soppressione del posto di lavoro occupato dal dipendente sia stato eliso da una condotta datoriale obbiettivamente artificiosa, in quanto diretta all'esercizio di un potere di selezione arbitraria del personale da licenziare, ma anche quando sia possibile una diversa utilizzazione del lavoratore.

Nel caso di specie la società-datrice non aveva fornito la prova dell'effettiva riorganizzazione dell'azienda, avendo fatto riferimento alla situazione del settore di mercato in generale e non alla propria situazione specifica.

Mancante è stata ritenuta anche la prova che dall'asserita riorganizzazione sarebbe conseguita l'inutilizzabilità del licenziato, non avendo la ricorrente prodotto le schede di lavorazione dell'interessato le quali sarebbero state decisive per illustrare il calo o anche solo il mutamento del tipo di interventi affidatigli nel corso degli anni.

Il Tribunale ha evidenziato che, nel caso esaminato, non trattandosi di soppressione della posizione lavorativa, l'onere della prova in ordine all'asserita sopravvenuta inutilità del lavoratore si presentava particolarmente rigoroso. Nel caso di un licenziamento per g.m.o., infatti, gli interessi delle parti coinvolte devono essere bilanciati, anche nel rispetto dei principi fondamenti di buona fede e correttezza, tenendo conto dello “sforzo” compiuto dal datore nella valutazione di riutilizzabilità in seno all'azienda, eventualmente tramite reimpiego in mansioni diverse, prima di ricorrere all'extrema ratio del recesso.

La società-datrice non avrebbe potuto limitarsi ad affermare che il dipendente non fosse qualificato per il tipo di interventi richiesti e conseguenti alla riorganizzazione.

Nel comparare la posizione del lavoratore con quella degli altri dipendenti, la società avrebbe dovuto spiegare per quale ragione essi fossero da considerare più qualificati del licenziato e, quindi, avrebbe dovuto individuare gli elementi caratterizzanti le diverse professionalità.

Ha precisato il Tribunale che, sebbene in linea generale non rientri tra gli obblighi del datore la cura della formazione professionale del dipendente per permettergli di eseguire correttamente le sue mansioni, nei casi in cui la professionalità del lavoratore sia considerata obsoleta a seguito di una riorganizzazione dell'azienda, l'applicazione dei sopra richiamati principi di buona fede e correttezza implicherebbe che il datore, prima di risolvere il rapporto, valuti l'impossibilità non solo del repêchage, ma anche della riqualificazione professionale, eventualmente mediante l'affiancamento ad altri colleghi.

Pertanto il giudice di Lecco ha ritenuto non provato il giustificato motivo di licenziamento, con conferma della dichiarazione di illegittimità.

Osservazioni

L'adempimento dell'obbligo di repêchage, come condizione di legittimità del licenziamento per g.m.o., non è esplicitamente menzionato dalla legge, che vi fa riferimento solo in relazione ai lavoratori divenuti parzialmente inabili in caso di malattia e infortunio (art. 4, co. 4, L. n. 68/1999). Tuttavia, partendo dall'idea del licenziamento quale extrema ratio, la giurisprudenza ha esteso l'obbligo del tentativo di ricollocamento del lavoratore, facendo leva sul necessario bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti coinvolte, parimenti dotati di copertura costituzionale, ossia la tutela del lavoro (art. 4 Cost.) e la libertà d'impresa (art. 41 Cost.).

In relazione a tale argomento, la sentenza del Tribunale di Lecco offre l'occasione per affrontare, seppur brevemente, due questioni di particolare rilievo: l'inclusione dell'obbligo di repêchage nel “fatto” posto alla base del licenziamento per g.m.o. e determinante il riconoscimento della tutela reale; la formazione del lavoratore da licenziare ai fini della sua rioccupazione quale applicazione dei principi di buona fede e correttezza.

Con riferimento al primo punto, il Tribunale equipara il mancato tentativo di repêchage ad un elemento costitutivo del “fatto estintivo” del rapporto di lavoro. La possibilità, in concreto, di adibire il lavoratore ad una diversa posizione, analogamente all'ipotesi di mancanza delle ragioni organizzative e/o produttive ovvero del nesso causale tra l'intervento sull'azienda e la posizione del lavoratore licenziato, configurerebbe un'ipotesi di “insussistenza del fatto” e non di mera illegittimità del recesso. Sempre secondo questo orientamento, l'obbligo di repêchage, quale criterio di integrazione delle ragioni poste a fondamento del recesso datoriale ed espressione delle necessità di assicurare un bilanciamento tra gli interessi coinvolti, sarebbe derogabile (soltanto) quando il licenziamento sia stato motivato sull'esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile (Cass. n. 1508/2021, n. 21715/2018, n. 5592/2016, n. 12101/2016 e n. 3175/2013). Le conseguenze sul piano della tutela applicabile è palmare.

La dottrina che ha condiviso tale posizione ermeneutica ha osservato che il controllo della possibilità di utilizzazione aliunde il dipendenterientrerebbe nell'ambito dell'accertamento della sussistenza del fatto in quanto il repêchage si configurerebbe quale attributo sostanziale nella definizione del g.m.o. In altri termini, l'impossibilità di ricollocazione sarebbe “consustanziale al fatto”.

Diversa è l'opinione di chi ha sostenuto che l'obbligo di repêchage non rientrerebbe tra gli elementi costitutivi della fattispecie de qua in quanto esso costituirebbe, piuttosto, un elemento esterno al giustificato motivo e non potrebbe essere ricondotto alla formulazione impiegata dal legislatore nell'art. 3 L. n. 604/1966. Tale orientamento si rinviene espresso anche in alcune pronunce giurisprudenziali nelle quali si è affermato che l'impossibilità di ricollocazione non rientrerebbe nel fatto posto alla base del recesso dal momento che esso rappresenterebbe solo una conseguenza dello stesso o, meglio, un quid pluris rispetto alle esigenze datoriali che condizionano la legittimità del licenziamento nell'ambito di un bilanciamento con l'interesse del lavoratore alla conservazione della propria occupazione (Tribunale di Roma 13 settembre 2017). Si è parlato anche di gerarchia degli elementi costitutivi della fattispecie, individuandone il nucleo nelle ragioni addotte e nel nesso causale tra esse e la posizione del dipendente – cui è collegata l'inesistenza del "fatto" – collocando, invece, all'esterno il repêchage ed i criteri di scelta, dalla cui violazione scaturirebbe solo la tutela indennitaria.

Ad avviso di chi scrive, sebbene la generalizzazione dell'obbligo di repêchage sia connotata da un substrato sostanziale meritevole di condivisione, difficilmente potrebbero porsi sul medesimo piano la possibilità di una ricollocazione del licenziato in seno all'azienda e l'insussistenza delle ragioni giustificative del recesso datoriale o il difetto del nesso causale con la posizione del lavoratore licenziato. In tali ultime fattispecie, infatti, si riscontra una scelta datoriale priva di fondamento giustificativo ovvero di carattere arbitrario, in quanto diretta nei confronti di un dipendente la cui individuazione è avvenuta in assenza di un criterio selettivo obbiettivo. Diversamente qualora, ad esempio, il datore abbia concretamente proceduto ad una modifica organizzativa incidente sulla posizione del lavoratore, il fatto che quest'ultimo avrebbe potuto essere addetto a mansioni differenti in seno all'azienda non potrebbe configurare l'ipotesi di “insussistenza del fatto” posto a fondamento del licenziamento per g.m.o., ma piuttosto una violazione dei principi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto alla quale la legge non collega l'ormai eccezionale tutela reintegratoria.

Al fine di poter meglio cogliere la diversità tra le situazioni sopra esposte, ad avviso di chi scrive sembra utile richiamare la distinzione giurisprudenziale tra norme di validità e norme di comportamento-responsabilità, riconducendo a queste il generale obbligo di repêchage in quanto espressione dei principi di buona fede e correttezza di cui all'art. 1375 c.c. Solo nei casi indicati dal legislatore, quale quello indicato all'art. 2 L. n. 23/2015 in relazione all'art. 4, co. 4, L. n. 68/1999, tale “regola di responsabilità” può ritenersi espressamente elevata a regola di validità, con le relative conseguenze.

In merito alla seconda questione, la posizione della giurisprudenza non è univoca. Non sono mancate voci contrarie alla possibilità di addossare sul datore l'obbligo di procedere alla formazione del lavoratore da licenziare, sul presupposto che debba tentarsi tutto il possibile per evitare il licenziamento, tenuto anche conto della normativa applicabile, sub specie l'art. 3, D.lgs. n. 81/2015 ove è previsto che, nelle sedi indicate, le parti “possono” ma non “devono” stipulare accordi di modifica delle mansioni nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione.

È stato osservato che, qualora la possibilità di ricollocazione del dipendente si ritenesse sussistente ogniqualvolta il datore possa procedere ad una sua riqualificazione professionale, si rinverrebbe una rilevante limitazione della libertà di iniziativa economica, in quanto si finirebbe con il devolvere in ultima analisi al giudice - senza la preventiva prescrizione di adeguati parametri valutativi - il compito di stabilire fino a che punto possa addossarsi sul datore, in alternativa al licenziamento, il costo economico della necessaria formazione.

Il datore dovrebbe considerare la presenza di posizioni con riferimento alle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore, senza limitarsi a quelle indicate in sede di assunzione, ma dovrebbe anche accertare la disponibilità di posizioni per la cui copertura il dipendente debba essere specificamente formato, rischiando altrimenti la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato per g.m.o. Anche una parte della dottrina, occupandosi del tema, ha ammesso la legittimità di tale opinione ritenendo, tuttavia, che i percorsi formativi dovrebbero avere una durata ragionevolmente breve, al fine di non imporre al datore un costo economico eccessivo. Tale posizione ermeneutica, tuttavia, non potrebbe ritenersi ammissibile de jure condito, non risultando tale condizione posta positivamente dalla legge applicabile ai fini della legittimità del recesso datoriale, fermo restando che grava sul datore l'obbligo di provare - in base a circostanze oggettivamente riscontrabili - che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per occupare la diversa posizione libera in azienda.

Per approfondire

L. M. Dentici, difetto del nesso causale e manifesta insussistenza del fatto nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Lavoro nella Giur., 2021, 8-9, pp. 847 ss.

M. Pirone, L'obbligo di repêchage e il principio della extrema ratio del licenziamento per g.m.o., in Lavoro nella Giur., 2020, 8-9, pp. 835 ss.

E. Villa, Fondamento e limiti del repêchage nel licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, in Dir. rel. ind., 1, 1° marzo 2020, pp. 116 ss.

S. Giubboni, Anni difficili. I licenziamenti in Italia in tempi di crisi, Torino, 2020.

G. Cavallini, l'obbligo di repêchage nei licenziamenti per motivi economici, in Lavoro nella Giur., 2019, 7, pp. 746 ss.

G. Vidiri, Art. 41 Cost.: licenziamento per motivi economici e "repêchage)" dopo il jobs act, in Corriere Giur., 2017, 5, pp. 659 ss.

F. Colella, Ripartizione degli oneri deduttivi e assertivi in tema di repêchage: punto fermo o punto interrogativo?; in Riv. giur. lav., 2017, II, pp. 245 ss.

F. Carinci, Licenziamento e tutele differenziate, in O. Mazzotta (a cura di), Lavoro ed esigenze dell'impresa fra diritto sostanziale e processo dopo il Jobs Act, 2016, pp. 122 ss.

M. Ferraresi, L'obbligo di repêchage tra riforme della disciplina dei licenziamenti e recenti pronunce di legittimità, in Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro, 2016, n. 4, pp. 846 ss.

M. Persiani, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage, in Giur. it., 2016, 5, pp. 1164 ss.

A. Perulli, Fatto e valutazione giuridica del fatto nella nuova disciplina dell'art. 18 St. Lav. Ratio e aporie dei concetti normativi, in Arg. dir. lav., 2012, pp. 800 ss.

Carinci M.T., Fatto “materiale” e fatto “giuridico nella nuova formulazione delle tutele ex art. 18 Statuto dei Lavoratori, in RDP, 2013, pp. 1326 ss.

G. Santoro Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Dir. rel. ind., 2015 n. 1, pp. 8 ss.

A. Vallebona, L'inutilizzabilità aliunde fa parte del fatto, in MGL, 2014, 4, pp. 229 ss.

R. Romei, Natura e struttura dell'obbligo di repêchage, in A. Perulli (a cura di), Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: giurisprudenza e dottrina a confronto, 2017, pp. 114 ss.

L. Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali, in Dir. lav. e rel. Ind., 2007, pp. 593 ss.

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