Il punto di partenza più risalente e significativo della giurisprudenza di legittimità in materia di violazione del patto commissorio è rappresentato da due sentenze delle Sezioni Unite della Suprema Corte, la n. 1611 del 3 aprile 1989 e la n. 1907 del 19 aprile 1989, intese a porre fine al contrasto giurisprudenziale in merito alle fattispecie di contratti di compravendita, aventi effetti traslativi immediati, cui si accompagnassero patti di riscatto, o di retrovendita, o che contenessero condizioni risolutive (come quello della sentenza qui in commento); fattispecie, quindi, distinte da quelle espressamente rientranti nella disposizione di cui all'art. 2744 c.c. (la quale, letteralmente, fa riferimento a cose sottoposte a pegno o ipoteca, e ad una vendita successiva all'eventuale inadempimento della parte debitrice), ma che, a determinate condizioni, potessero ottenere i medesimi effetti pratici.
Le SS.UU., con le pronunce richiamate statuivano, da un lato, che “il divieto del patto commissorio è diretto ad impedire al creditore l'esercizio di una coazione morale sul debitore, spesso spinto alla ricerca di un mutuo da ristrettezze finanziarie, con facoltà di far proprio il bene oggetto di pegno, ipoteca o dato in anticresi, attraverso un meccanismo che gli permetta di sottrarsi alla fondamentale regola della par condicio creditorum”; e dunque, dall'altro lato, chiarivano che, anche nelle ipotesi in esame, “ben poco rileva che le parti sottopongano il trasferimento ad una condizione risolutiva, in quanto si realizza pur sempre un onere per il debitore, identico a quello che la legge vuole evitare, allorché detta il divieto del patto commissorio, con la conseguenza che le due situazioni impongono allo stesso modo l'intervento della tutela legislativa in favore del debitore privato della libertà di contrattare” (Cass. SS.UU. n. 1611 del 3 aprile 1989). In altre parole, secondo il Supremo Collegio, qualora la norma ex art. 2744 c.c. fosse interpretata in senso strettamente letterale, si verificherebbe un ingiustificato vantaggio in favore dei soli creditori pronti a farsi trasferire immediatamente la proprietà al solo scopo di garantire il proprio stesso credito, con il versamento del danaro che, lungi dal consistere nel pagamento del prezzo del bene compravenduto, concretizzasse, invece, l'esecuzione di un mutuo.
In questa ipotesi, pertanto, il fondamentale doppio scopo della norma, ovvero tutelare il debitore dalla coazione del creditore, e preservare la par condicio creditorum, sarebbe indubitabilmente frustrato.
La provvisorietà dell'effetto traslativo costituisce, dunque, in casi analoghi, il segno evidente della natura di garanzia di tale effetto traslativo medesimo, sicché, secondo la citata pronunzia delle SS.UU., “la vendita, in sé lecita e non puramente formale, costituisce un negozio-mezzo, perché tende ad eludere il contenuto di una norma ed assume la figura di un contratto in frode alla legge, con ogni relativa conseguenza”. Di qui il fondamentale insegnamento secondo cui, “lungi dal poter identificare in astratto una categoria di negozi soggetti alla nullità, perché contrastanti con il divieto di patto commissorio, e limitare ad essi l'efficacia di tale divieto, occorre riconoscere che qualsiasi negozio può incorrere nella sanzione di nullità, quale che ne sia il contenuto, nell'ipotesi in cui venga impiegato per conseguire i risultati sopra detti, vietati dall'ordinamento giuridico”.
Nello specifico caso in esame, la Suprema Corte decideva in relazione ad una compravendita di un immobile, con patto di riscatto in favore del debitore alienante, accompagnata da contestuale concessione in locazione dell'immobile medesimo dal creditore acquirente in favore del debitore alienante stesso.
Seguendo il solco delle citate S.S.U.U. del 1989, la giurisprudenza di legittimità, mantenendo il medesimo orientamento per diverso tempo, (ex plurimis, si citino Cass. nn. 1273/2005, 5438/2006, 2725/2007, 6769/2007, 437/2009, 5426/2010, 5740/2011), ha statuito la nullità di qualsiasi tipo di strumento negoziale, comunque concepito, la cui causa fosse illecita in quanto in contrasto con lo spirito della norma che vieta il patto commissorio. In relazione ai sintomi oggettivi che possano evidenziare, in concreto, l'esistenza di una fattispecie fraudolenta, la stessa giurisprudenza ha indicato “la presenza di una situazione credito-debitoria preesistente o contestuale alla vendita, la sproporzione tra entità del debito e valore del bene alienato in garanzia (…) costituente significativo segnale di una situazione di approfittamento della debolezza del debitore da parte del creditore” (Cass. civ. n. 10805 del 16 ottobre 1995).
Più segnatamente, la Suprema Corte ha chiarito che “in caso di operazione complessa, i singoli atti vengano valutati alla luce di un loro potenziale collegamento funzionale e che a tal fine venga apprezzata ogni circostanza di fatto relativa agli atti compiuti, e, non ultimo, il risultato concreto (la funzione) che, al di là delle clausole negoziali ambigue o non vincolanti, l'operazione nel suo complesso era idonea a produrre ed ha in concreto prodotto” (Cass. Civ. n. 5740 del 10 marzo 2011, che statuiva la violazione del divieto di patto commissorio in ordine ad una procura a vendere, conferita dal mutuatario al mutuante, contestualmente al contratto di mutuo, tra il quale e la detta procura esisteva, quindi, evidentemente, un nesso funzionale teso ad aggirare il divieto predetto). In particolare, persino laddove alcuni degli anzidetti elementi indicativi non ricorrano, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che sussiste l'illiceità dell'operazione negoziale quando vi sia “snaturamento della causa tipica del contratto di compravendita, essendosi alla funzione tipica di scambio sovrapposta, assumendo prevalenza, quella di garanzia dell'adempimento dell'obbligazione pecuniaria (…), indipendentemente dalla congruità o meno del prezzo del previsto trasferimento di proprietà” (Cass. civ. n. 437 del 12 gennaio 2009 resa in tema di anticresi).
In passato, quindi, la Suprema Corte stigmatizzava con la nullità qualsivoglia strumento pattizio che potesse perseguire il medesimo risultato vietato dall'ordinamento, sia in modo diretto che indiretto (ad esempio piegando lo schema causale della vendita con patto di riscatto a fini di garanzia anziché di scambio). Più di recente, invece, la Cassazione ha escluso la configurabilità del patto ove, dalla complessiva operazione negoziale, siano desumibili taluni indici, come la proporzione tra il valore del bene e quello del prezzo, il fatto che il venditore non rimanga nel godimento dell'immobile, la previsione dell'obbligo di trasferimento al medesimo prezzo pagato in origine etc.
Secondo il nuovo assetto giurisprudenziale deve essere, pertanto, esaminato l'assetto complessivo degli interessi delle parti, al fine di stabilire se il procedimento negoziale attraverso il quale venga compiuto il trasferimento di un bene dal debitore al creditore sia effettivamente collegato, piuttosto che alla funzione di scambio, ad uno scopo di garanzia (Cass. Civ., Sez. II, 20 luglio 1999, n. 7740, Cass. Civ., Sez. III, 21 luglio 2004, n. 13580; Cass. Civ., Sez. II, 16 settembre 2004, n. 18655; Cass. Civ., Sez. II 8 febbraio 2007 n. 2725, e Cass. Civ. Sez. II, 20 giugno 2008, n. 16953). In altri termini, si deve prescindere dalla natura obbligatoria, o reale, del contratto, o dei contratti, che le parti pongono in essere, ovvero dal momento temporale in cui l'effetto traslativo sia destinato a verificarsi (sul punto, cfr. ad es. Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 11924 del 23 ottobre 1999, relativa ad una ipotesi in cui le parti avevano concluso un preliminare di compravendita non prevedente il passaggio immediato del possesso del bene promesso in vendita, proprio alla luce della funzione di garanzia, che la promessa di vendita assicurava, della restituzione, entro un certo termine, di una somma in precedenza o coevamente mutuata dal promissario acquirente; conf. Cass. Civ. Sez. II, n. 13598 del 12 ottobre 2000, Cass. Civ. Sez. II, Sentenza n. 4618 del 29 marzo 2001).
Con la sentenza in commento, i giudici della Corte hanno compiuto un decisivo ed ulteriore passo in avanti verso una interpretazione restrittiva del divieto di cui all'art. 2744 c.c.
In estrema sintesi, secondo la Suprema Corte, dunque, il giudice di merito, per poter stabilire se vi sia violazione del divieto di patto commissorio, deve valutare se la causa concreta del contratto – che può essere di scambio con profili di garanzia – sia meritevole di tutela e, per poter escludere tale violazione, deve tener conto dei seguenti elementi elaborati dalla giurisprudenza: preesistenza o contestualità del debito; assenza dell'illecita coercizione del debitore al trasferimento del bene; proporzione tra il valore del bene ed il prezzo; esclusione nel godimento del bene da parte del venditore; obbligo di ritrasferimento al medesimo prezzo originariamente pagato.
Sono questi, infatti, i principi di diritto enunciati dalla Corte di Cassazione, con la sentenza in commento n, pronunciata in materia di divieto del patto commissorio, di cui all'art. 2744 c.c.
Disposizione, quest'ultima, che letteralmente prevede: "È nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell'ipoteca o del pegno".
La Corte, infatti, nel verificare la corretta applicazione degli artt. 1963 e 2744 c.c., ovvero la sussunzione dei fatti accertati dal giudice di merito nello schema del patto commissorio, secondo gli indici elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto opportuno richiamare gli elementi costitutivi del patto commissorio e il fondamento del suo divieto.
Nella corposa disamina, il Collegio di legittimità ha ricordato come, nel tempo, la portata dell'art. 2744 c.c. sia stata ampliata e sia stato sanzionato con la nullità qualsiasi strumento pattizio in grado di raggiungere il risultato vietato dall'ordinamento, sia in modo diretto che in forme elusive.
Per l'effetto, la Suprema Corte ha ricordato quella giurisprudenza che ha enucleato, ai fini dell'esclusione del patto commissorio, alcuni fattori, e, segnatamente: a) la preesistenza o la contestualità del debito; b) l'assenza dell'illecita coercizione del debitore al trasferimento del bene; c) la proporzione tra il valore del bene ed il prezzo; d) la circostanza che il venditore non rimanga nel godimento dell'immobile e l'obbligo di ritrasferimento al medesimo prezzo originariamente pagato.
Per la Cassazione, tali elementi, tuttavia, non devono necessariamente essere "compresenti" nell'ambito dell'operazione contrattuale, ma devono essere esaminati dal giudice di merito al fine di valutare se la causa concreta del contratto - che può essere di scambio con profili di garanzia - sia meritevole di tutela.
Su tali basi, nel caso di specie, veniva concluso che la Corte distrettuale aveva falsamente applicato l'art. 2744 c.c. senza procedere con la valutazione degli indici rivelatori dell'esistenza del patto commissorio; di qui la cassazione con rinvio della sentenza impugnata in sede di legittimità.