La sentenza in commento rappresenta uno dei più classici interventi della giurisprudenza volto a fornire giustizia sostanziale quando, al contrario, le fattispecie sono normate sono contradditorie, e possono risultare lacunose nella loro applicazione.
Come noto infatti, il recesso di cui all'art. 2110 comma 2 c.c. rappresenta una fattispecie autonoma e svincolata rispetto alle ben più note tipologie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo e per giusta causa. Secondo la fattispecie descritta dall'art. 2110 c.c., non è ammesso il licenziamento connesso al ripetersi di assenze per malattia che non superino il periodo di comporto determinato dai contratti collettivi. In ogni caso, è conformemente riconosciuto che non concorrono fini del comporto di giorni di assenza, per malattia e/o infortunio, eziologicamente derivanti da un inadempimento datoriale, rispetto alle previsioni dell'art. 2087, a tutela dell'integrità psico fisica del lavoratore all'interno dei luoghi di lavoro.
Sulla tematica inerente alla nullità del licenziamento per superamento del periodo di comporto, come tra l'altro richiamato dalla stessa Corte d'Appello di Torino, sono intervenite le Sezioni Unite nel 2018, con sent. nr. 12568, che hanno graniticamente affermato come illegittimità di questa tipologia di recesso datoriale dovrà essere qualificata come nulla, rimettendo poi al giudice di merito l'applicazione della tutela richiesta.
Ed è proprio questo il punto su cui è chiamata a decidere la Corte di Torino, alla luce della declaratoria di nullità del recesso già comunque riconosciuta in prime cure.
La Corte d'Appello di Torno nella sua attenta analisi ha ritenuto quindi applicabile alla fattispecie la tutela reale (c.d. reintegratoria) attenuata, con reintegra del lavoratore presso il luogo di lavoro e la correlativa condanna del datore ad una indennità risarcitoria decorrente dal recesso fino all'effettiva reintegrazione.
L'iter logico della Corte muove il suo spunto dalla ormai certa giurisprudenza che vede la tutela reale dell'art. 18 comma 7 l. n. 300/1970, applicata in tutti i casi in cui il licenziamento per superamento del periodo di comporto viene dichiarato nullo. Orbene, l'art. 18 comma 7, nella formulazione successiva alla l. n. 92/2012, ratione temporis, per quanto d'interesse nella fattispecie in esame, prevede che “il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4 e 10, comma 3 della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente dell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'art. 2110, secondo comma, del codice civile”.
Infatti, nel richiamare le Sezioni Unite del 2018, il Giudice del Gravame aderisce nella qualificazione giuridica di nullità, e non di inefficacia, nel licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto. Le Sezioni Unite, infatti, confermano la tesi della nullità, mantenuta dal Giudice di Torino anche alla luce della teoria generale del negozio giuridico. Invero, se l'art. 2110, comma 2 c.c. stabilisce che il datore di lavoro può recedere dal rapporto solo dopo che sia scaduto il termine di comporto fissato dalla contrattazione collettiva, ha sostanzialmente voluto escludere che il reiterare di assenze costituiscano, per un determinato motivo di tempo, una giustificazione tesa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ex art. 32 l. n. 604/1966. Sicché ammettere la validità del licenziamento durante questo periodo significherebbe autorizzare un licenziamento sprovvisto di causa, poiché non sussumibile di alcuna fattispecie prevista dalla legge. In altri termini, si andrebbe a creare un genus di licenziamento acasuale, oltre quelle cause già previste dalla legge, violativo del brocardo dell'art. 32 Cost. che tutela la salute del lavoratore. Risulta quindi confermata la natura imperativa dell'artt. 2110 c.c., volta a garantire valori sociali e morali propri di un ordinamento giuridico. Non è quindi ammissibile alcuna deroga, poiché significherebbe smentire il valore che la disposizione mira a garantire, quale un periodo di tempo volto alle proprie cure e a tutela del proprio posto di lavoro, optando senza ulteriori induci sulla nullità del licenziamento, con la rispettiva tutela reale c.d. attenuata.
A parere dello scrivente, il contrasto giurisprudenziale sorto sull'interpretazione della natura dell'illegittimità del licenziamento (tra nullità ed inefficacia) poggiava le sue radici su di un equivoco. La tesi della provvisoria esecutività, era frutto di una giurisprudenza minoritaria che, sostanzialmente riprendeva un'interpretazione della Corte di Cassazione (4 febbraio 1988, n. 1151), che però in realtà si occupava di ben altra questione. Quindi, si dovrà di certo procedere alla qualificazione di nullità del licenziamento illegittimo intimato prima del periodo di comporto, poiché sostanzialmente vietato dalla legge.
Il ragionamento sopra esposto ho portato alla tutela riconosciuta dalla Corte d'Appello di Torino, in modifica del disposto del Tribunale. Infatti, le Sezioni Unite del 2018, hanno consolidato che detto licenziamento, qualora ricorrano gli elementi, è da considerarsi nullo se viola la disciplina del Codice Civile, e sanzionabile con la reintegrazione c.d. attenuta. I Giudici hanno infatti riconosciuto che “ben può il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione”, “in considerazione d'un minor giudizio di riprovazione dell'atto assunto in violazione della norma imperativa”. Questa previsione, dunque, conferma la riduzione della tutela a c.d. attenuta prevista per gli assunti post marzo 2015, rispetto a quella tutela forte in regime di nullità nel sistema anteriore alla riforma del 2015.
Su questa tematica è stata anche importante l'innovazione apportata recentemente dalla Corte di Cassazione, con sentenza n. 27344/2022, che ha altresì ampliato la tutela reale c.d. attenuata, a prescindere dal carattere dimensionale del datore di lavoro. Osservano i Giudici come l'escludere la tutela reintegratoria in caso di licenziamento senza superamento del periodo di comporto per i datori di lavoro che non presentano i requisiti dimensionali per l'applicazione dell'art. 18 l. n. 300/1970, oltre a negare la sanzione prevista da una norma imperativa e per un espresso caso di nullità, creerebbe un'ingiustificata disparità di trattamento con le altre categorie di lavoratori.
Si cita, per completezze espositiva, un, seppur minoritario, orientamento interpretativo che si allontana dal disposto delle Sezioni Unite, della Corte d'Appello di Firenze (sent. n. 352/2021), che al contrario ancora ritiene applicabile il requisito dimensionale alle tutele sancite dall'art. 18 comma 4 e 7 della l. n. 300/1970.