La prescrizione consiste nell'estinzione di un diritto nel caso in cui esso non venga esercitato entro un determinato termine previsto dalla legge. Di norma, le contribuzioni di previdenza ed assistenza sociale obbligatoria si prescrivono nel termine di cinque anni.
Nell'ambito del diritto civile, il giudice non può rilevare d'ufficio la prescrizione, che costituisce così una “eccezione in senso proprio” e deve essere sollevata dalle parti (art. 2938 c.c.). Il soggetto che intenda valersi del detto istituto ha l'onere di allegare in giudizio l'elemento costitutivo della prescrizione dato dall'inerzia del titolare del diritto per il periodo previsto e di manifestare la volontà di profittare dell'effetto estintivo che scaturisce dal protrarsi dell'inattività (Cass., sez. un., 13 giugno 2019, n. 15895).
Detto e premesso ciò, il giudice può individuare un termine più esiguo o più ampio anche in divergenza da quello indicato originariamente dalle parti in quanto la determinazione della durata necessaria per il verificarsi dell'estinzione si configura come una quaestio iuris connessa all'identificazione del diritto stesso e del regime prescrizionale delineato dalla legge (Cass., sez. III, 7 maggio 2021, n. 12182).
A maggior ragione, come quaestio iuris, si atteggia anche l'individuazione del momento iniziale della prescrizione. Il giudice è chiamato a valutare d'ufficio il detto momento, senza essere vincolato dalle deduzioni delle parti (di recente, Cass., sez. VI-L, 10 novembre 2021, n. 33169, punto 10).
Al punto 21 della recentissima Cass. n. 24047 del 3 agosto 2022 si riscontra che: “Secondo l'orientamento consolidato di questa Corte, la individuazione del termine di prescrizione applicabile, ovvero del momento iniziale o finale di esso, costituisce quaestio iuris, su cui il giudice non è vincolato dalle allegazioni di parte (v. Cass. n. 15631/2016; Cass. n. 17066/2013; n. 21752/2010; n. 11843/2007; n. 16573/2004), con l'unico limite della "non necessità di accertamenti di fatto" (così, di recente, Cass. n. 21404/2021; Cass. n. 24260/2020; nello stesso senso già Cass. n. 9993/2016 e Cass. n. 4238/2011).”
La rilevabilità d'ufficio è d'altronde funzionale alla salvaguardia della giustizia della decisione (Cass., sez. un., 7 maggio 2013, n. 10531) e ciò è vero soprattutto nella materia previdenziale, permeata da interessi che travalicano i diritti individuali (cfr. art. 38 Cost., comma 3).
La detta regola, per come fin qui descritta, dev'essere poi coordinata con i principi che governano il sistema delle impugnazioni e opera solo quando, su tali questioni, non si sia formato il giudicato interno, atto a precluderne in radice l'ulteriore esame (in materia previdenziale, cfr. Cass., sez. lav., 21 dicembre 2021, n. 41019; Cass., sez. lav., 29 dicembre 2004, n. 24103; Cass., sez. VI-L, 25 agosto 2020, n. 17653).
In relazione alle fattispecie di volta in volta scrutinate, occorre enucleare quale sia la singola statuizione suscettibile di acquisire, nel contesto della decisione, la stabilità del giudicato.
In virtù dell'art. 329, comma 2, c.p.c., l'impugnazione su una parte della sentenza implica acquiescenza "alle parti della sentenza non impugnate". Di "parte della sentenza" discorre anche l'art. 336, comma 1, c.p.c., che estende gli effetti della riforma o della cassazione parziale alle parti della sentenza che dipendono dalla parte riformata o cassata.
L'impugnazione della parte principale della decisione impedisce la formazione del giudicato interno sulla parte che da essa dipende, in virtù di un nesso di causalità imprescindibile (Cass., sez. un., 27 ottobre 2016, n. 21691).
Ciò posto, si deve puntualizzare che il giudicato non si forma sulla singola affermazione di diritto o sull'accertamento d'un fatto, ma sulla statuizione che afferma l'esistenza di un fatto, dopo averlo sussunto entro una norma che al fatto ricolleghi un dato effetto giuridico (Cass., sez. lav., 8 aprile 2000, n. 4478; in senso conforme, Cass., sez. lav., 20 dicembre 2006, n. 27196).
Il giudicato cade, pertanto, sull'unità minima di decisione, che si compone della sequenza fatto, norma ed effetto e risolve, nell'ambito della controversia, una questione dotata d'una propria autonomia e d'una propria individualità. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento della sequenza possa essere oggetto di censura, nondimeno l'impugnazione motivata anche in ordine a uno solo di essi riapre la cognizione sull'intera statuizione (Cass., sez. lav., 4 febbraio 2016, n. 2217).
Il giudicato, dunque, si forma sulla statuizione che concerne la fattispecie della prescrizione, considerata nella sua unità indissolubile e nella sua idoneità a estinguere il diritto, dopo il decorso di un tempo che non può essere disarticolato negli elementi che lo compongono.
In consonanza con tali indicazioni, la questione giuridica trattata in questa sede viene così anticipata rispetto a quanto originariamente dedotto ed eccepito in ordine all'ipotesi di applicazione dell'istituto della sospensione alla premessa logica della determinazione corretta del dies a quo prescrizionale.
Ed ecco che si giunge a stabilire che, erroneamente, la Corte territoriale ha fatto decorrere il termine di prescrizione senza tener conto del differimento sancito dalla legge.
In primo luogo, l'art. 2, commi 26-31 della legge n. 335/1995 riconosce l'obbligo dell'iscrizione presso la Gestione separata dell'INPS, tra gli altri, ai soggetti che esercitano attività di lavoro autonomo per professione abituale, ancorché non esclusiva.
Ancorché il debito contributivo sorga sulla base della produzione di un certo reddito, la prescrizione dell'obbligazione decorre dal momento in cui scadono i relativi termini di pagamento, come dispone il R.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827, all'art. 55, secondo il quale i contributi obbligatori si prescrivono: "dal giorno in cui i singoli contributi dovevano essere versati". Sul punto, la Cassazione: “(…) l'obbligazione contributiva nasce infatti in relazione ad un preciso fatto costitutivo, che è la produzione di un certo reddito da parte del soggetto obbligato, mentre la dichiarazione che costui è tenuto a presentare ai fini fiscali, che è mera dichiarazione di scienza, non è presupposto del credito contributivo, così come non lo è rispetto all'obbligazione tributaria" (Cass., sez. lav., 3 giugno 2022, n. 17970, punto 14).
I termini di versamento dei contributi sono definiti dal D.lgs. 9 luglio 1997, n. 241, art. 18, comma 4: "i versamenti a saldo e in acconto dei contributi dovuti agli enti previdenziali da titolari di posizione assicurativa in una delle gestioni amministrate da enti previdenziali sono effettuati entro gli stessi termini previsti per il versamento delle somme dovute in base alla dichiarazione dei redditi".Ed allora, quanto ai termini per il versamento delle somme dovute in base alla dichiarazione dei redditi, cui sono ancorati anche i termini per il pagamento dei contributi, riveste importanza essenziale l'art. 12, comma 5, del D.lgs. n. 241/1997.
La disposizione citata demanda ad un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri la possibilità di modificare i termini riguardanti gli adempimenti dei contribuenti relativi a imposte e contributi, tenendo conto degli interessi in gioco. Il detto decreto rinviene dunque un inequivocabile fondamento normativo nella fonte primaria che ne autorizza l'intervento e si configura come un atto di natura regolamentare, in quanto concorre ad attuare e a integrare le previsioni del D.lgs. n. 241/1997 (Cass., sez. lav., 3 agosto 2022, n. 24047, punto 23, Cass., sez. VI-L, 15 luglio 2022, n. 22336, e Cass. 11 luglio 2022, n. 21816).
Quindi, l'eventuale differimento del termine di versamento delle imposte (e dei contributi) previsto annualmente dai decreti del Presidente del Consiglio e che vede quali beneficiari tutti i contribuenti gioca un ruolo fondamentale in quanto, in base ai principi generali già citati, la prescrizione inizierebbe a decorrere proprio dal termine differito. Appare evidente allora come l'individuazione del dies a quo della prescrizione ha la priorità logica rispetto al tema della sospensione e, nel caso che ci occupa, appare anche dirimente: la considerazione del dies a quo sancito dalla legge rende infatti efficace l'atto interruttivo e potenzialmente superflua la disamina sulla sospensione.