Le motivazioni addotte dal Giudicante della città friulana, sulle quali fonda le ragioni del mancato accoglimento del ricorso della lavoratrice, non appaiono prive di pregio, ancorché sottoposte a stringenti e non banali critiche, soprattutto sul piano dell'opportunità e della rischiosità per il datore di lavoro, di imboccare la via delle dimissioni per facta concludentia (Mortillaro, Dimissioni per fatti concludenti. Quale spazio nell'ordinamento?, in La circolare di lavoro e previdenza, n. 40/2022).
Per molti lustri, antecedenti la sciara di interventi legislativi che dal 2008 hanno dato corso alla procedimentalizzazione e formalizzazione delle dimissioni del lavoratore, molteplici sono state le pronunce dei vari gradi di giudizio sulla (pacifica) validità del recesso per comportamenti non dichiarativi. Per cui non si comprende – ove, sgombrandone il campo, si accetti la tesi “che non sia affatto riconducibile all'ambito applicativo dell'esaminato art. 26 il diverso caso in cui la volontà risolutiva del lavoratore dipendente si sia sostanziata, come accaduto nella vicenda al vaglio, in un contegno protrattosi nel tempo e palesatosi in una serie di comportamenti - anche omissivi - idonei ad assicurare un'agevole verifica della sua genuinità.” – quale sia la fondatezza dei motivi che impediscono, mutatis mutandis, di continuare ad uniformarsi all'indirizzo giurisprudenziale sulle dimissioni per fatti concludenti, atteso che nel sistema del codice civile il lavoratore può liberamente disporre del posto di lavoro dimettendosi o risolvendo consensualmente il contratto (Pellacani, Licenziamento orale o dimissioni? Il riparto degli oneri probatori al tempo delle dimissioni vincolate, in Riv. it. dir. lav., 2022, I, p. 243.).
Si ritiene che un aspetto dirimente in ordine alla correttezza del ragionamento sviluppato nella sentenza oggetto del commento, riguardi la chiara qualificazione della natura della legge di delegazione e della relazione tra questa e il decreto legislativo.
La legge delega non occupa, nella gerarchia delle fonti, una posizione diversa da quella di ogni altra legge (Corte Cost., nn. 364/1993 e 224/1990; ordinanza n. 225/1992).
Sotto il profilo formale, la legge delega è il prodotto di un procedimento di legiferazione a sé stante e in sé compiuto, sicché essa non è legata ai decreti legislativi da un vincolo strutturale tale da collocarla, rispetto a questi ultimi, entro una medesima e unitaria fattispecie procedimentale. Sotto il profilo del contenuto, essa è un vero e proprio atto normativo, diretto a porre, con efficacia erga omnes, norme costitutive dell'ordinamento giuridico, che hanno la particolare struttura e l'efficacia proprie dei principi e dei criteri direttivi ma non cessano, per ciò solo, di possedere tutte le valenze tipiche delle norme legislative. Un duplice corollario deriva da tale ricostruzione (Corte Cost., n. 224/1990): in linea di principio, la legge delega è autonomamente assoggettabile al sindacato di costituzionalità in riferimento non solo alla disciplina costituzionale che specificamente la riguarda (artt. 76 e 72, quarto comma, Cost.), ma anche a tutte le altre norme costituzionali sostanziali e componenziali (La delega della funzione legislativa nella giurisprudenza costituzionale, Riccardo Neola, Danilo Diaco (a cura di), Corte Costituzionale - servizio studi, 10/2018).
Quanto al decreto delegato, trovando la sua fonte di validità nella previa delega parlamentare, esso deve osservare le indicazioni della legge delega, a pena di violazione dell'art. 76 Cost., ponendosi le norme del Parlamento quali limiti invalicabili e condizioni di legittimità costituzionale della legislazione delegata, cioè come fonti interposte idonee a integrare l'indicato parametro costituzionale (La delega della funzione legislativa nella giurisprudenza costituzionale, Riccardo Neola, Danilo Diaco (a cura di), op. cit.).
L'attuazione solo parziale o la mancata attuazione della delega possono determinare una responsabilità politica del Governo verso il Parlamento, ma non integrano una violazione di legge costituzionalmente apprezzabile (Corte Cost., nn. 304/2011, 218/1987, 8/1977 e 41/1975), salvo che ciò non determini uno stravolgimento della legge di delegazione (Corte Cost., n. 149/2005; ordinanze nn. 283/2013 e 257/2005).
Secondo il costante orientamento del Giudice delle leggi, di cui ha fatto buon uso il Giudice del Tribunale di Udine (da ultimo, sentenza n. 250 del 2016), “il controllo di conformità della norma delegata alla norma delegante richiede un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l'uno, relativo alle norme che determinano l'oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, da svolgere tenendo conto del complessivo contesto in cui esse si collocano ed individuando le ragioni e le finalità poste a fondamento della stessa; l'altro, relativo alle norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi e i criteri direttivi della delega (sentenza n. 210 del 2015).
Il contenuto della delega e dei relativi principi e criteri direttivi deve essere identificato, dunque, accertando il complessivo contesto normativo e le finalità che la ispirano, tenendo conto che i principi posti dal legislatore delegante costituiscono non solo la base e il limite delle norme delegate, ma strumenti per l'interpretazione della loro portata. Queste vanno, quindi, lette, fintanto che sia possibile, nel significato compatibile con detti principi, i quali, a loro volta, vanno interpretati avendo riguardo alla ratio della delega ed al complessivo quadro di riferimento in cui si inscrivono (sentenza n. 210 del 2015) (Corte Cost., 30 gennaio 2018, n. 10).
Pertanto, il Giudice di primo grado, dopo avere rilevato che il principio e il criterio direttivo -affermati dall'art. 1, comma 5 e 6, lett. g), della legge delega n. 183/2014 diretti al “conseguimento - tra gli altri - degli "... obiettivi di semplificazione e razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro ...", prevedendo, altresì, "... modalità semplificate per garantire data certa nonché l'autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore ..." -, non sono stati attuati dal d.lgs. n. 151/2015, art. 26, afferma correttamente che, alla luce dell'autorevole insegnamento della Corte Cost. (n. 224/1990, cit.), la mancata attuazione, con l'art. 26 del d.lgs. n. 151/2015, dell'inciso sulla "necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente" pur inserito nella legge delega, non pare possa impedire all'interprete di tenere in debito conto la surriferita volontà del legislatore delegante, siccome all'evidenza comunque volta a non trascurare affatto, in termini operativi, l'ipotesi di risoluzione tacita del rapporto lavorativo.“.
Appare evidente, quindi, che per il Legislatore, accanto alle dimissioni qualificate, che si inseriscono nell'alveo della formazione della volontà “istantanea” e si devono manifestare formalmente, sopravvive la possibilità che il rapporto di lavoro possa sciogliersi per recesso volontario del lavoratore che può essere desunto da comportamenti, anche omissivi, che, interpretati alla luce dei principi dell'affidamento, inequivocabilmente manifestino l'intento di recedere dal rapporto, come nel caso in cui il prestatore si sia allontanato dal posto di lavoro e non si sia più presentato per diversi giorni o si sia reso inadempiente alle obbligazioni derivanti dal rapporto lavorativo. Così, per tutte Cass., 10 ottobre 2019, n. 25583 e Cass., 8 marzo 2011, n. 5454.
L'art. 26, d.lgs. n. 151/2015 è infatti una norma che disciplina una forma, appunto quella delle dimissioni e della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, e riguarda l'ipotesi in cui la volontà risolutiva del rapporto si esprima e si sostanzi in una manifestazione istantanea e quindi necessariamente incardinata in un atto formale recettizio, atto da proteggere nella sua genuinità appunto con la procedura telematica ministeriale. Nel caso che ci occupa, invece, la volontà risolutiva si esprime in una manifestazione di volontà continuata e/o incardinata in più gesti sostanziali (Capurrro, La cessazione del rapporto di lavoro per volontà del lavoratore tra forme vincolate e comportamenti concludenti: un apparente cortocircuito, in Giust. civ., n. 9/2022).
Va osservato che la sentenza commentata non è isolata. Il medesimo indirizzo ermeneutico si trova in Tribunale Cuneo, sez. lav., sent., 6 ottobre 2022, n. 147; Tribunale di Monza, sent., 2 aprile 2019, n. 201; Tribunale di Foggia, sez. lav., 25 marzo 2022, n. 1240.
Si segnala, per amor di completezza e verità, una sentenza di merito di segno contrario: Tribunale Arezzo, sez. lav., sent., 12 maggio 2021, n. 169.
Nei fatti, l'assenza di potere di iniziativa datoriale rappresenta una criticità che mal si concilia con le esigenze di semplificazione, soprattutto nei casi in cui il lavoratore manifesti “informalmente” o “per fatti concludenti" la propria volontà di dimettersi, senza rispettare la procedura telematica o rendendosi irreperibile (Moriconi, Zanotto, Il regime delle dimissioni, in Tiraboschi, Casano, Rausei, Spattini, Massagli, Tomassetti, Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act, Milano, 2016).
Stante la sopravvivenza delle dimissioni per fatti concludenti, sarebbe auspicabile un urgente intervento del Legislatore inteso a colmare la lacuna della parziale in attuazione delle legge delega, “tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente” (Cfr. art. 1, comma 5 e 6, lett. g), della legge delega n. 183/2014).