Sono ancora efficaci le dimissioni per fatti concludenti?

Maurizio Polato
02 Febbraio 2023

La sentenza in commento pone la questione se sia ipotizzabile che un lavoratore possa risolvere il rapporto di lavoro per dimissioni – anche consensuali – la cui volontà sia decodificabile e manifestabile per “fatti concludenti”.
Massima

Pur in difetto di una corretta formalizzazione delle dimissioni, è agevole ravvisare nel comportamento concretamente tenuto dalle parti, l'una nei confronti dell'altra, la sintomatica manifestazione di una reciproca e convergente volontà -pur se sorretta da motivi diversi- di non dare più seguito al contratto di lavoro, determinandone così la risoluzione per fatti concludenti.

Con riferimento all'interpretazione della condotta delle parti, il comportamento - interpretato alla luce dei principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. - del contraente titolare di una situazione creditoria o potestativa, che per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell'abbandono della relativa pretesa, è idoneo come tale (essendo irrilevante qualificarlo come rinuncia tacita ovvero oggettivamente contrastante con gli anzidetti principi) a determinare la perdita della medesima situazione soggettiva.

Lo scioglimento del contratto di lavoro per mutuo dissenso sono da considerarsi tutt'ora validamente sostenibili, nonostante la modifica legislativa sopraggiunta nel 2015 in tema di dimissioni e di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.

Il caso

Una lavoratrice dipendente da una società specializzata nella gestione di mense e servizi di ristorazione presso enti pubblici e privati, ricorreva al Tribunale di Udine chiedendo, nel merito, di accertare e dichiarare, anche in via costitutiva, la nullità e/o l'inefficacia e/o l'invalidità, ovvero pronunciare l'annullamento delle dimissioni e/o del provvedimento di scioglimento del rapporto; accertare e dichiarare anche in via costitutiva la permanenza e continuità del rapporto di lavoro dal 6 luglio 2020 ad oggi, ordinando alla società resistente di riammettere al lavoro la signora e condannando la società al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate sino alla riammissione in servizio, oltre contributi, interessi e rivalutazione monetaria.

La ricorrente evocava in giudizio la società datrice di lavoro perché, a suo dire, questa, - in ragione di una sua prolungata (e non giustificata) assenza dal lavoro, nonostante la datrice l'avesse invitata a dimettersi, senza, peraltro, dare riscontro a tale invito -, ha ritenuto cessato il rapporto di lavoro per risoluzione consensuale per facta concludencia.

Secondo il Giudice del lavoro il ricorso non era fondato, perché il corredo fattuale, valutato scrupolosamente secondo i dettami dei giudici di legittimità, ha portato all'evidenza la volontà della lavoratrice di dimettersi, risultando “incontroverso, nella vicenda in esame, il fatto che l'odierna ricorrente si sia volontariamente assentata in via continuativa dal lavoro a decorrere dal 14 dicembre 2019, senza mai fornire, su questo, alcuna giustificazione e senza nemmeno riscontrare, per un periodo di oltre sei mesi, le missive della datrice di lavoro.” (V., così pag. 3 della sentenza).

Le questioni

È ancora ipotizzabile che un lavoratore possa risolvere il rapporto di lavoro per dimissioni – anche consensuali – la cui volontà sia decodificabile e manifestabile per “fatti concludenti”?

Le soluzioni giuridiche

Preliminarmente il giudicante affronta l'annosa questione della domanda attorea di condanna del datore di lavoro a pagare determinati crediti retributivi "con i correlati contributi".

Qualora il ricorrente, insieme al debitore delle retribuzioni, come spesso accade non chiami in giudizio anche l'ente previdenziale, non si impone l'integrazione del contraddittorio con l'INPS laddove “il lavoratore si limiti a chiedere la condanna del datore di lavoro a pagare determinati crediti retributivi "con i correlati contributi" o con analoghe espressioni, ove queste risultino essere -come appare nel caso di specie- il frutto di mere formule di stile o se, del pari, lo stesso lavoratore vuole sì l'accertamento del debito contributivo -accertamento in realtà automatico nel momento in cui si accertano (e poi si condanna per) i crediti retributivi - ma non domanda, al contempo, che detta statuizione risulti opponibile all'INPS.” (V. Pag. 3 sent.; ex plurimis, Cass., sez. lav., 28 ottobre 2021, n. 30566).

Per il Giudice di primo grado, nel merito risulta innanzitutto incontroverso, nella vicenda sottoposta al suo esame, il fatto che la ricorrente si sia volontariamente assentata in via continuativa dal lavoro a decorrere dal 14 dicembre 2019, senza mai fornire, su questo, alcuna giustificazione e senza nemmeno riscontrare, per un periodo di oltre sei mesi, le missive della datrice di lavoro.

A fronte di questa ricostruzione fattuale, il giudicante, affinché possa correttamente formarsi il suo convincimento circa la reale volontà delle parti – intesa, come si vedrà infra, ad addivenire allo scioglimento del rapporto di lavoro per mutuo consenso – deve considerare che il mero decorso del tempo tra la cessazione del rapporto di lavoro e l'impugnazione del contratto non costituisce condotta socialmente tipica idonea a perfezionare la risoluzione per mutuo consenso

in mancanza di ulteriori elementi.

Occorre, quindi, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze fattuali, le quali siano complessivamente apprezzate dal giudice di merito inducendo il convincimento del medesimo, anche per la loro combinazione, nel senso che esse denotino una volontà chiara del lavoratore di porre fine definitivamente al rapporto di lavoro con la controparte (Cass., sez. lav., 22 marzo 2019, n. 8215).

Sul punto, il Giudice del lavoro riscontrava che la datrice di lavoro destinava alla lavoratrice due missive: con la prima le veniva contestata l'assenza ingiustificata durata dal 14 al 31 dicembre 2019, con invito diretto alla signora - sempre rimasta del tutto silente sul punto - a spiegare le ragioni di tale sua inopinata latitanza; con la seconda, del 12 giugno 2020, non meno eloquente della precedente, la datrice ribadiva il rilievo dell'assenza ingiustificata protrattasi sino ad allora senza soluzione di continuità, ritenendo, pertanto, che il rapporto di lavoro si fosse “risolto in via di fatto” ed invitando la lavoratrice “se non lo avesse già fatto, a comunicare le sue dimissioni secondo la modalità telematica vigente”.

Nel corso dell'interrogatorio libero la lavoratrice utilizzava espressioni che confermavano il suo disinteresse alla ripresa dell'attività lavorativa quali “non mi interessava più nulla”; sull'invito a dimettersi: ”A questo punto facessero quello che volevano”, “la cosa non mi importava”, “poteva provvedervi la società”.

Dalla testimonianza resa dal responsabile dell'Unità relativa alla Sanità del Nord Est, si è tratta l'ulteriore conferma che la dipendente non era più rientrata al lavoro per sua esclusiva e libera scelta. Su queste basi, formate dal mix delle prove documentali e testimoniali, appare evidente, quindi, che la ricorrente avesse voluto porre fine al rapporto di lavoro.

“Del pari, il contegno tenuto dalla società resistente, nell'aver preso atto dell'assenza della sua dipendente, non corrispondendole più la retribuzione, salvo invitarla, a distanza di tempo, a dimettersi in via definitiva, evidenzia(va) il sostanziale disinteresse - di certo altrettanto lecito ed insindacabile - rispetto ad una eventuale esigenza di prosecuzione del rapporto di lavoro” (v., pag. 4 sent.).

Si rilevava così, la determinazione alla risoluzione per fatti concludenti. Proprio perché sono stati rilevati molteplici elementi fattuali che hanno dimostrato l'univoca sussistenza della volontà dismissiva in capo alla lavoratrice, ragionevolmente percepibile come tale dalla datrice di lavoro.

Il giudicante, muovendo e sviluppando le proprie argomentazioni ripercorrendo l'articolata normativa sottesa alla disciplina delle dimissioni, riconduce la libera recedibilità del lavoratore agli artt. 2118 e 2119 del cod. civ., mentre alla legge n. 188/2007 l'incidenza sulle modalità di presentazione delle dimissioni, stabilendo l'obbligo di forma scritta delle stesse a pena di nullità; alla legge n. 92/2012, ulteriormente intervenuta sul punto, apportando dei correttivi proprio per le ipotesi di assenza prolungata ed ingiustificata dal posto di lavoro ed, infine, al d.lgs. n. 151/2015 che, con l'art. 26, ha stabilito che le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro debbano essere effettuate, “a pena di inefficacia”, con modalità esclusivamente telematiche, tramite una procedura online accessibile dal sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.

Secondo il Tribunale di Udine tale procedura formale non è univoca e, pertanto, non preclude altri e diversi presupposti e modalità estintive del rapporto di lavoro.

Il campo di applicazione dell'art. 26 del d.lgs. n. 151/2015, stante la facoltà di libero recesso ex art. 2118 c.c., va astretto alla “sola eventualità in cui la volontà del lavoratore si concretizzi in una manifestazione istantanea, ove vi è l'esigenza di incardinare la stessa in un atto formale al fine di prevenire ogni tipo di abuso e, in particolare, il fenomeno delle c.d. “dimissioni in bianco”, al quale la novella aveva inteso porre rimedio” (Cfr. pag. 5, sent.).

Ne rimarrebbe escluso, quindi, “il diverso caso in cui la volontà risolutiva del lavoratore dipendente si sia sostanziata, come accaduto nella vicenda al vaglio, in un contegno protrattosi nel tempo e palesatosi in una serie di comportamenti -anche omissivi- idonei ad assicurare un'agevole verifica della sua genuinità.” (Cfr. pag. 5, sent.).

Ma vi è di più, solo se ci si concentra su un'omissione del legislatore delegato. Infatti la legge di delegazione n. 183/2014, aveva previsto “… modalità semplificate per garantire data certa nonché l'autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore …” (v. art. 1, comma 5 e comma 6, lett. g), legge cit.). Ma il legislatore delegato non dava attuazione a tale disposizione.

Il Giudicante, allora, prende posizione sulla lacuna facendo proprio il più recente orientamento del Giudice delle leggi e della dottrina più accreditata sulla natura della legge delega, che ha ritenuto, in proposito, che tale legge possa assumere una duplice connotazione, in quanto «è legge come qualsiasi altra ed è anche legge di delega» (F. Modugno, Appunti dalle lezioni sulle fonti del diritto, Giappichelli, Torino, 2005, p. 47, citato in M. Marchetti, La delegazione legislativa tra Parlamento e Governo: studio sulle recenti trasformazioni del modello costituzionale, Milano, 2016). Tale considerazione porta a ritenere che la legge delega abbia un carattere materiale, e non meramente formale, sia in relazione alla disposizione che contiene la delega che riguardo alle disposizioni che prevedono i princìpi e i criteri direttivi (M. Marchetti, La delegazione legislativa tra Parlamento e Governo: studio sulle recenti trasformazioni del modello costituzionale, cit.).

Pertanto, il Giudice del Tribunale di Udine ritiene che la mancata attuazione, con l'art. 26 del d.lgs. n. 151/2015, dell'inciso sulla “necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente” pur inserito nella legge delega, non pare possa impedire all'interprete di tenere in debito conto la surriferita volontà del legislatore delegante, siccome all'evidenza comunque volta a non trascurare affatto, in termini operativi, l'ipotesi di risoluzione tacita del rapporto lavorativo. Opinare diversamente e ritenere che, in frangenti quali quello in discussione, alla risoluzione del rapporto di lavoro, in caso di inerzia del lavoratore nel rassegnare formali dimissioni già fattualmente intervenute, possa pervenirsi solo attraverso l'adozione di un licenziamento per giusta causa, significherebbe optare per una soluzione esegetica non solo irragionevole, dati i presupposti, ma anche di dubbia compatibilità costituzionale, quantomeno sotto il profilo degli art. 41 e 38 Cost.

Osservazioni

Le motivazioni addotte dal Giudicante della città friulana, sulle quali fonda le ragioni del mancato accoglimento del ricorso della lavoratrice, non appaiono prive di pregio, ancorché sottoposte a stringenti e non banali critiche, soprattutto sul piano dell'opportunità e della rischiosità per il datore di lavoro, di imboccare la via delle dimissioni per facta concludentia (Mortillaro, Dimissioni per fatti concludenti. Quale spazio nell'ordinamento?, in La circolare di lavoro e previdenza, n. 40/2022).

Per molti lustri, antecedenti la sciara di interventi legislativi che dal 2008 hanno dato corso alla procedimentalizzazione e formalizzazione delle dimissioni del lavoratore, molteplici sono state le pronunce dei vari gradi di giudizio sulla (pacifica) validità del recesso per comportamenti non dichiarativi. Per cui non si comprende – ove, sgombrandone il campo, si accetti la tesi “che non sia affatto riconducibile all'ambito applicativo dell'esaminato art. 26 il diverso caso in cui la volontà risolutiva del lavoratore dipendente si sia sostanziata, come accaduto nella vicenda al vaglio, in un contegno protrattosi nel tempo e palesatosi in una serie di comportamenti - anche omissivi - idonei ad assicurare un'agevole verifica della sua genuinità.” – quale sia la fondatezza dei motivi che impediscono, mutatis mutandis, di continuare ad uniformarsi all'indirizzo giurisprudenziale sulle dimissioni per fatti concludenti, atteso che nel sistema del codice civile il lavoratore può liberamente disporre del posto di lavoro dimettendosi o risolvendo consensualmente il contratto (Pellacani, Licenziamento orale o dimissioni? Il riparto degli oneri probatori al tempo delle dimissioni vincolate, in Riv. it. dir. lav., 2022, I, p. 243.).

Si ritiene che un aspetto dirimente in ordine alla correttezza del ragionamento sviluppato nella sentenza oggetto del commento, riguardi la chiara qualificazione della natura della legge di delegazione e della relazione tra questa e il decreto legislativo.

La legge delega non occupa, nella gerarchia delle fonti, una posizione diversa da quella di ogni altra legge (Corte Cost., nn. 364/1993 e 224/1990; ordinanza n. 225/1992).

Sotto il profilo formale, la legge delega è il prodotto di un procedimento di legiferazione a sé stante e in sé compiuto, sicché essa non è legata ai decreti legislativi da un vincolo strutturale tale da collocarla, rispetto a questi ultimi, entro una medesima e unitaria fattispecie procedimentale. Sotto il profilo del contenuto, essa è un vero e proprio atto normativo, diretto a porre, con efficacia erga omnes, norme costitutive dell'ordinamento giuridico, che hanno la particolare struttura e l'efficacia proprie dei principi e dei criteri direttivi ma non cessano, per ciò solo, di possedere tutte le valenze tipiche delle norme legislative. Un duplice corollario deriva da tale ricostruzione (Corte Cost., n. 224/1990): in linea di principio, la legge delega è autonomamente assoggettabile al sindacato di costituzionalità in riferimento non solo alla disciplina costituzionale che specificamente la riguarda (artt. 76 e 72, quarto comma, Cost.), ma anche a tutte le altre norme costituzionali sostanziali e componenziali (La delega della funzione legislativa nella giurisprudenza costituzionale, Riccardo Neola, Danilo Diaco (a cura di), Corte Costituzionale - servizio studi, 10/2018).

Quanto al decreto delegato, trovando la sua fonte di validità nella previa delega parlamentare, esso deve osservare le indicazioni della legge delega, a pena di violazione dell'art. 76 Cost., ponendosi le norme del Parlamento quali limiti invalicabili e condizioni di legittimità costituzionale della legislazione delegata, cioè come fonti interposte idonee a integrare l'indicato parametro costituzionale (La delega della funzione legislativa nella giurisprudenza costituzionale, Riccardo Neola, Danilo Diaco (a cura di), op. cit.).

L'attuazione solo parziale o la mancata attuazione della delega possono determinare una responsabilità politica del Governo verso il Parlamento, ma non integrano una violazione di legge costituzionalmente apprezzabile (Corte Cost., nn. 304/2011, 218/1987, 8/1977 e 41/1975), salvo che ciò non determini uno stravolgimento della legge di delegazione (Corte Cost., n. 149/2005; ordinanze nn. 283/2013 e 257/2005).

Secondo il costante orientamento del Giudice delle leggi, di cui ha fatto buon uso il Giudice del Tribunale di Udine (da ultimo, sentenza n. 250 del 2016), “il controllo di conformità della norma delegata alla norma delegante richiede un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l'uno, relativo alle norme che determinano l'oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, da svolgere tenendo conto del complessivo contesto in cui esse si collocano ed individuando le ragioni e le finalità poste a fondamento della stessa; l'altro, relativo alle norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi e i criteri direttivi della delega (sentenza n. 210 del 2015).

Il contenuto della delega e dei relativi principi e criteri direttivi deve essere identificato, dunque, accertando il complessivo contesto normativo e le finalità che la ispirano, tenendo conto che i principi posti dal legislatore delegante costituiscono non solo la base e il limite delle norme delegate, ma strumenti per l'interpretazione della loro portata. Queste vanno, quindi, lette, fintanto che sia possibile, nel significato compatibile con detti principi, i quali, a loro volta, vanno interpretati avendo riguardo alla ratio della delega ed al complessivo quadro di riferimento in cui si inscrivono (sentenza n. 210 del 2015) (Corte Cost., 30 gennaio 2018, n. 10).

Pertanto, il Giudice di primo grado, dopo avere rilevato che il principio e il criterio direttivo -affermati dall'art. 1, comma 5 e 6, lett. g), della legge delega n. 183/2014 diretti al “conseguimento - tra gli altri - degli "... obiettivi di semplificazione e razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro ...", prevedendo, altresì, "... modalità semplificate per garantire data certa nonché l'autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore ..." -, non sono stati attuati dal d.lgs. n. 151/2015, art. 26, afferma correttamente che, alla luce dell'autorevole insegnamento della Corte Cost. (n. 224/1990, cit.), la mancata attuazione, con l'art. 26 del d.lgs. n. 151/2015, dell'inciso sulla "necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente" pur inserito nella legge delega, non pare possa impedire all'interprete di tenere in debito conto la surriferita volontà del legislatore delegante, siccome all'evidenza comunque volta a non trascurare affatto, in termini operativi, l'ipotesi di risoluzione tacita del rapporto lavorativo.“.

Appare evidente, quindi, che per il Legislatore, accanto alle dimissioni qualificate, che si inseriscono nell'alveo della formazione della volontà “istantanea” e si devono manifestare formalmente, sopravvive la possibilità che il rapporto di lavoro possa sciogliersi per recesso volontario del lavoratore che può essere desunto da comportamenti, anche omissivi, che, interpretati alla luce dei principi dell'affidamento, inequivocabilmente manifestino l'intento di recedere dal rapporto, come nel caso in cui il prestatore si sia allontanato dal posto di lavoro e non si sia più presentato per diversi giorni o si sia reso inadempiente alle obbligazioni derivanti dal rapporto lavorativo. Così, per tutte Cass., 10 ottobre 2019, n. 25583 e Cass., 8 marzo 2011, n. 5454.

L'art. 26, d.lgs. n. 151/2015 è infatti una norma che disciplina una forma, appunto quella delle dimissioni e della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, e riguarda l'ipotesi in cui la volontà risolutiva del rapporto si esprima e si sostanzi in una manifestazione istantanea e quindi necessariamente incardinata in un atto formale recettizio, atto da proteggere nella sua genuinità appunto con la procedura telematica ministeriale. Nel caso che ci occupa, invece, la volontà risolutiva si esprime in una manifestazione di volontà continuata e/o incardinata in più gesti sostanziali (Capurrro, La cessazione del rapporto di lavoro per volontà del lavoratore tra forme vincolate e comportamenti concludenti: un apparente cortocircuito, in Giust. civ., n. 9/2022).

Va osservato che la sentenza commentata non è isolata. Il medesimo indirizzo ermeneutico si trova in Tribunale Cuneo, sez. lav., sent., 6 ottobre 2022, n. 147; Tribunale di Monza, sent., 2 aprile 2019, n. 201; Tribunale di Foggia, sez. lav., 25 marzo 2022, n. 1240.

Si segnala, per amor di completezza e verità, una sentenza di merito di segno contrario: Tribunale Arezzo, sez. lav., sent., 12 maggio 2021, n. 169.

Nei fatti, l'assenza di potere di iniziativa datoriale rappresenta una criticità che mal si concilia con le esigenze di semplificazione, soprattutto nei casi in cui il lavoratore manifesti “informalmente” o “per fatti concludenti" la propria volontà di dimettersi, senza rispettare la procedura telematica o rendendosi irreperibile (Moriconi, Zanotto, Il regime delle dimissioni, in Tiraboschi, Casano, Rausei, Spattini, Massagli, Tomassetti, Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act, Milano, 2016).

Stante la sopravvivenza delle dimissioni per fatti concludenti, sarebbe auspicabile un urgente intervento del Legislatore inteso a colmare la lacuna della parziale in attuazione delle legge delega, “tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente” (Cfr. art. 1, comma 5 e 6, lett. g), della legge delega n. 183/2014).

Minimi riferimenti bibliografici

G. Pellacani, Il licenziamento orale o dimissioni? Il riparto degli oneri probatori, Riv. it. dir. lav., 2022, I.

R. Ciavarella, Troppo rumore per nulla: il rimborso del contributo naspi in caso di licenziamento “forzato” ;, in Riv. it. dir. lav., 2021, II, nota Tribunale Udine, 30 settembre 2020.

R. Pettinelli, Sulla forma delle dimissioni e sul risarcimento del c.d. ticket di licenziamento, in ADL, 1/2022.

A. Maresca, Licenziamento provocato dal lavoratore e diritto alla Naspi: Su chi grava il costo del c. d. ticket licenziamento?, in Riv. dir. lav., n. 1/2021.

G. Mortillaro, Dimissioni per fatti concludenti. Quale spazio nell'ordinamento?, in La circolare di lavoro e previdenza, n. 40/2022.

R. Camera, Dimissioni online: l'inerzia del lavoratore, in Dir. prat. lav., n. 37/2018.

Moriconi, Zanotto, Il regime delle dimissioni, in Tiraboschi, Casano, Rausei, Spattini, Massagli, Tomassetti (a cura di), Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act, Milano, 2016.

Miceli, La riformulazione della disciplina delle dimissioni e della risoluzione consensuale alla luce del Jobs act, in Mass. giur. lav., 2016.

Fenoglio, Le dimissioni dal lavoro: corsi e ricorsi storici sotto la lente dell'analisi empirica, in Riv. it. dir. lav., 2016.

Proia, La nuova disciplina delle dimissioni e della risoluzione consensuale, in Riv. it. dir. lav., 2017.

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