La liquidazione delle partecipazioni a scadenza anticipata

07 Febbraio 2023

Dopo aver analizzato, nel precedente contributo, le peculiarità e la funzione economica delle partecipazioni societarie a tempo, o auto-estinguibili, l'Autore si concentra qui sulle modalità di liquidazione di tali partecipazioni, sul valore di liquidazione e sulla controversa compatibilità con il divieto del patto leonino.
La liquidazione: elemento imprescindibile delle partecipazioni a scadenza anticipata?

Una delle questioni più rilevanti in tema di partecipazioni a scadenza anticipata (sulla cui natura si rimanda al precedente contributo) è indubbiamente quella relativa alla necessità o meno di prevedere un diritto di liquidazione a favore del socio uscente per effetto del decorso del termine o del verificarsi della condizione non meramente potestativa prevista dallo statuto.

Si è visto nelle precedenti pagine come nelle partecipazioni a scadenza anticipata, a differenza delle fattispecie tipiche di disinvestimento, lo scioglimento del vincolo avvenga in modo automatico, al decorrere del termine o al verificarsi della condizione prevista dallo statuto, senza che il socio interessato, la società, o un socio terzo debbano manifestare un'ulteriore presa di volontà in tal senso.

Il socio, infatti, è ben consapevole di sottoscrivere una partecipazione connotata dalla temporaneità, e spesso è lui stesso a richiedere che quest'ultima possegga una tale caratteristica. Basti pensare alle operazioni di private equity, che consistono proprio in investimenti temporanei nel capitale di società limitati solitamente alla fase di start-up di una società.

Il processo di auto-estinzione, dunque, viene preliminarmente convenuto ex ante dalle parti.

Ragionando in tal senso, e sempre riflettendo sugli elementi distintivi rispetto alle altre fattispecie tipiche di disinvestimento, appare ragionevole ritenere che la liquidazione non costituisca un elemento imprescindibile delle partecipazioni a scadenza anticipata.

Una tale caratteristica, infatti, non pare porsi in rotta di collisione con alcun principio o norma inderogabile per una serie di motivi che verranno ora esaminati.

La legge assicura, infatti, un diritto di liquidazione a favore del socio quando l'exit dalla compagine sociale:

1) non sia stato determinato da una sua manifestazione di volontà in tal senso;

2) sia stato determinato da una sua manifestazione di volontà, ma quest'ultima è espressione di una reazione al mutamento di alcune “regole del gioco”.

La prima ipotesi riguarda il socio riscattato, il quale si trova costretto ad uscire dalla compagine sociale (a meno che non possieda altre partecipazioni non soggette al riscatto altrui) perché la società o un altro socio hanno esercitato l'opzione di vendita prevista a loro favore.

La legge, pertanto, al fine di bilanciare tale situazione di soggezione al volere di acquisto altrui, si preoccupa di assicurare al socio riscattato il diritto al recupero di almeno una parte del proprio investimento iniziale.

La seconda ipotesi, invece, riguarda sicuramente il socio receduto. Quest'ultimo, infatti, ottiene la valorizzazione del proprio investimento come contropartita rispetto al mutamento di rilevanti regole di funzionamento della società determinato da una decisione discrezionale della maggioranza.

Ebbene, le caratteristiche delle partecipazioni a scadenza anticipata non rispondono a nessuna di queste logiche.

La peculiarità di tali azioni/quote, infatti, è quella della temporaneità, caratteristica che, sulla base di valutazioni di convenienza economica non contestabili dal diritto, viene accettata ex ante dal socio e dalla società.

Nel recesso e nel riscatto, diversamente, lo scioglimento del vincolo sociale è una reazione discrezionale ed eventuale del socio al verificarsi di un certo evento, e la liquidazione prevista dalla legge a favore di quest'ultimo costituisce, in qualche modo, la contropartita rispetto all'evento, di natura volontaria, che giustifica tale reazione.

Nelle partecipazioni a scadenza anticipata, le parti convengono e accettano che i reciproci rapporti debbano considerarsi automaticamente chiusi e soddisfatti o al decorrere di un termine o al verificarsi di una condizione prevista dallo statuto. Per tali ragioni, dunque, sembra potersi affermare che non siano necessarie forme di liquidazione a favore del socio uscente, e, come sostenuto dai notai milanesi, potrebbe legittimamente prevedersi che la partecipazione “auto-estinguibile”, al verificarsi della condizione, si estingua senza alcuna liquidazione in favore del socio uscente.

Tali considerazioni assumono un maggior significato nell'ipotesi in cui l'evento cui è connessa l'estinzione della partecipazione sia rappresentato dal percepimento di un determinato ammontare di utili.

Nel caso in cui, ad esempio, sia stata sottoscritta una partecipazione “auto-estinguibile” di nominali euro 10.000, e si preveda che detta partecipazione sia destinata a estinguersi senza liquidazione allorquando il socio che ne è titolare abbia goduto di dividendi per complessivi euro 15.000, la previsione di una mancata liquidazione a favore del socio uscente sarebbe giustificata dal fatto che quest'ultimo, avendo incassato gli utili generati dalla società, abbia recuperato il 150% del proprio investimento originario.

In un'ottica operativa il Consiglio Notarile di Milano, ricorda quali sono le conseguenze statutarie dell'auto-estinzione delle partecipazioni proprio nell'ipotesi in cui non sia previsto un diritto alla liquidazione a favore del socio uscente. Nel caso in cui le azioni siano senza valore nominale, non solo non si renderebbe (ovviamente) necessaria nessuna delle modalità di liquidazione previste dall'art. 2437-quater c.c. (offerta in opzione agli altri soci, collocamento presso terzi, acquisto da parte della società mediante riserve disponibili), ma non si rischierebbe neanche, in assenza di utili e riserve disponibili, una convocazione dell'assemblea straordinaria al fine di deliberare la riduzione del capitale sociale, ovvero lo scioglimento della società.

La partecipazione in questione potrà dunque legittimamente annullarsi con il semplice incremento del valore nominale delle restanti azioni, senza necessità di ricorrere ad una riduzione del capitale sociale.

Discorso analogo nel caso di quote di S.r.l. Anche qui, infatti, il capitale sociale rimarrà immutato e la misura delle quote dei restanti soci si accrescerà, tenendo conto degli eventuali arrotondamenti, in via proporzionale.

In caso di auto-estinzione (sempre senza obblighi di liquidazione nei confronti del socio uscente) di azioni con valore nominale, diversamente, l'estinzione delle azioni comporterà necessariamente la riduzione del capitale mediante imputazione a riserva del valore nominale delle azioni “auto-estinte”. Una tale operazione dovrà, dunque, rispettare la disciplina prevista di cui all'art. 2445 c.c. in tema di riduzione volontaria del capitale sociale, e potrà essere lecitamente realizzata solamente dopo il decorso di 90 giorni dal giorno dell'iscrizione della delibera nel registro delle imprese, previsti dalla legge per consentire ai creditori sociali di opporsi ad un'operazione che comporta un depauperamento patrimoniale della società.

La liquidazione delle partecipazioni a scadenza anticipata

Le considerazioni svolte nel paragrafo precedente nulla tolgono al fatto che la scelta delle parti potrebbe invece essere quella di prevedere, al decorrere del termine o al verificarsi della condizione prevista dallo statuto, una liquidazione a carico della società e a favore del socio uscente. Una tale ipotesi viene espressamente condivisa anche dai notai milanesi, i quali affermano testualmente che “se l'estinzione delle azioni o quote dà luogo a un diritto di liquidazione in denaro o in natura a favore dei rispettivi titolari, l'esecuzione della liquidazione è subordinata al rispetto delle norme che disciplinano le distribuzioni ai soci, in dipendenza della natura e della composizione delle voci del patrimonio netto della società”.

Dal momento che una siffatta liquidazione integrerebbe un'ipotesi di distribuzione al socio uscente, la disciplina di riferimento è rappresentata dalle norme dettate in materia di recesso, le quali sono applicabili, in forza di rinvio espresso, a tutte le fattispecie tipiche di disinvestimento, volontario o forzato (riscatto, esclusione).

Dal punto di vista organizzativo, difatti, le partecipazioni a scadenza anticipata producono un risultato sostanzialmente equivalente a quello del recesso; pertanto, appare ragionevole ritenere che possa applicarsi quanto disposto dall'art. 2437-quater c.c. per le S.p.a. e dall'art. 2473 c.c. per le S.r.l.

Dato che le partecipazioni a scadenza anticipata sono caratterizzate dalla temporaneità, la loro liquidazione potrà avvenire, tendenzialmente, mediante annullamento delle partecipazioni e versamento al socio uscente di una somma di denaro, ed in caso di assenza di utili e riserve disponibili, si dovrà convocare l'assemblea straordinaria al fine di deliberare la riduzione del capitale sociale (ex artt. 2437-quater, comma 6, e 2473, comma 4, c.c.), ovvero lo scioglimento della società.

In assenza di diversa previsione statutaria, pertanto, non sembra praticabile il ricorso alle altre modalità di liquidazione previste dagli articoli sopracitati, costituite dall'offerta in opzione ai soci, dal collocamento presso terzi, dall'acquisto della società mediante riserve disponibili per la S.p.a., e dall'acquisto da parte dei soci in proporzione alle partecipazioni possedute o da parte di un terzo concordemente individuato dai soci per le S.r.l.

La previsione di una automatica estinzione della partecipazione al decorrere del termine o al verificarsi di una condizione non sembra, infatti, compatibile con le soluzioni sopracitate, proprio per il fatto che non esiste più, ontologicamente, una partecipazione da acquistare destinata a continuare nel tempo.

Se quella partecipazione fosse acquistabile da parte di altri soci, terzi o dalla società stessa, perderebbe la speciale caratteristica della temporaneità, convertendosi quindi automaticamente (previa esplicita previsione statutaria) in una partecipazione semplicemente “ordinaria”. Nel momento in cui decorre il termine o si verifica la condizione, infatti, il diritto diverso della categoria (costituito dalla previsione di una scadenza anticipata rispetto a quella della società) ultima il proprio effetto e, di conseguenza, le partecipazioni, seppur ancora formalmente qualificate dallo statuto come “a tempo” o “auto-estinguibili”, non possono che considerarsi “ordinarie”, e, in quanto tali, liberamente cedibili agli altri soci, a un terzo o alla società ai fini della liquidazione.

Tornando, dunque, alla modalità “naturale” di liquidazione delle partecipazioni a scadenza anticipata, consistente nell'annullamento delle partecipazioni, occorre distinguere come si arrivi a tale risultato se la società in questione sia una S.p.a. o una S.r.l.

Qualora la società disponga di riserve disponibili sufficienti, in entrambi i casi, la liquidazione può avvenire mediante l'utilizzo delle medesime, provvedendo quindi ad annullare le partecipazioni a scadenza anticipata (senza riduzione del capitale sociale) mediante tali modalità:

- nelle S.p.a., attraverso un acquisto di azioni proprie e contestuale annullamento delle medesime senza riduzione del capitale sociale.

Tale operazione ha riscontrato anche l'avallo della prassi notarile: infatti, secondo il Consiglio Notarile di Milano, la deliberazione di annullamento delle azioni proprie può essere attuata anche senza riduzione del capitale ex art 2445 c.c. Tale annullamento, in altri termini, può essere attuato con un “accrescimento” delle partecipazioni nominali degli altri soci, cioè mediante traslazione del valore nominale delle azioni annullate a beneficio degli altri azionisti.

Attraverso tale operazione, dunque, si verifica un aumento del valore nominale delle azioni degli altri soci, in quanto da un lato si riduce il numero delle azioni (con l'annullamento delle azioni proprie), e dall'altro lato il capitale sociale resta invariato.

Un'altra modalità, che ha trovato anch'essa l'approvazione della prassi notarile, si sostanzia nella possibilità di annullare le azioni proprie, senza dover necessariamente ridurre il capitale sociale, mediante la riduzione di una riserva disponibile per importo pari al prezzo di acquisto delle stesse.

- Nelle S.r.l., nel caso in cui il rimborso non sia eseguito mediante cessione di quota agli altri soci o ad un terzo (per le ragioni di cui supra), il rimborso viene effettuato utilizzando riserve disponibili ex art. 2473, comma 4, c.c.

Nelle S.r.l., infatti, da un lato l'art. 2474 c.c. non rende possibile l'acquisto della quota da parte della società, dall'altro il capitale sociale resta invariato. L'utilizzazione delle riserve disponibili ai fini del rimborso comporta quindi l'accrescimento della quota del socio uscente agli altri soci, in proporzione alle rispettive partecipazioni.

In entrambi i casi soprariportati, come si è avuto modo di constatare, la condicio sine qua non della fattibilità dell'operazione è rappresentata dalla presenza di sufficienti riserve disponibili. Qualora, invece, queste ultime non siano sufficienti o si decida per scelta assembleare di effettuare la liquidazione mediante riduzione del capitale sociale, occorre rispettare il precetto sancito dal combinato disposto degli art. 2437-quater e 2445 c.c. per le S.p.a., e degli artt. 2474, 4 comma e 2482 c.c. per le S.r.l.

In assenza di riserve disponibili, infatti, deve essere convocata l'assemblea straordinaria al fine di deliberare la riduzione reale del capitale, ovvero lo scioglimento della società, e a tale deliberazione si applicano le disposizioni previste dal terzo comma dell'art. 2445 c.c. e dal secondo comma dell'art. 2482 c.c., i quali prevedono che la deliberazione può essere eseguita soltanto dopo 90 giorni dal giorno dell'iscrizione nel registro delle imprese, purché entro questo termine nessun creditore sociale anteriore all'iscrizione abbia fatto opposizione.

Come sostenuto dal Consiglio notarile di Firenze: “la certezza e la notorietà preventiva del programma di disinvestimento non sembrano infatti ragioni sufficienti per negare ai creditori il diritto di opposizione. Sistematicamente, infatti, non è argomentabile la priorità di alcuni soci rispetto ai creditori sul capitale sociale (o meglio, sui valori dell'attivo corrispondenti a quella frazione del patrimonio netto definita “capitale sociale”, nemmeno nelle società di persone (art. 2306 c.c.)”.

I creditori sociali, dunque, conservano il diritto di opposizione, qui inteso come rimedio tecnico che consente di continuare a qualificare i soci “temporanei” come residual claimants, cioè come investitori di rischio le cui ragioni non possono essere anteposte a quelle degli investitori di capitale di credito.

In caso di vittorioso esperimento dell'opposizione dei creditori, occorre interrogarsi su quali sarebbero le conseguenze sul piano organizzativo e rispetto alla “durata” delle partecipazioni a tempo. In tal caso può certamente ritenersi applicabile in via analogica la regola prevista dall'art. 2437-quater, comma 7, c.c. a tutela del socio recedente, secondo la quale, ove l'opposizione sia accolta, la società si scioglierebbe.

Una tale opzione non sembra l'unica percorribile: lo statuto, infatti, potrebbe intervenire direttamente su questo aspetto, prevedendo, come conseguenza dell'eventuale accoglimento dell'opposizione, non già lo scioglimento della società, bensì il mancato exit del socio e, di conseguenza, la conversione delle partecipazioni a scadenza anticipata in partecipazioni “ordinarie”. La previsione di una clausola del genere nello statuto (che implicherebbe una accettazione ab origine del socio “temporaneo”) comporterebbe il rischio che il diritto di exit, programmato con il confezionamento della clausola, venga inibito dall'accoglimento del diritto di opposizione da parte dei creditori sociali.

Nel silenzio dello statuto (cosa che è tutt'altro che auspicabile), sembra pertanto più coerente la scelta di offrire ai soci “temporanei” il ricorso all'applicazione analogica della disciplina del recesso piuttosto che quella comportante la conversione delle partecipazioni.

Coloro che hanno sottoscritto le partecipazioni a scadenza anticipata, infatti, confidavano sul diritto di disinvestire (e di ottenere lo smobilizzo della partecipazione) al decorrere di un termine o al verificarsi di una condizione prevista dallo statuto.

Come colui che ha esercitato legittimamente il recesso non può essere privato del diritto ad essere liquidato, allo stesso modo i soci “temporanei” non possono essere privati del loro diritto al disinvestimento senza un loro consenso. Ne consegue che, in assenza di una diversa disciplina statutaria ed in caso di conflitto con gli altri soci, si deve riconoscere al diritto al disinvestimento un valore prioritario rispetto all'interesse alla prosecuzione della società.

Il valore di liquidazione e le insidie del divieto di patto leonino

Le considerazioni che precedono influiscono anche sul tema della valutazione dell'ammontare della liquidazione spettante ai soci “temporanei”.

A riguardo, ci si chiede se trovi applicazione o meno la disciplina prescritta dalla legge in materia di recesso, ossia se l'ammontare della liquidazione debba individuarsi con riferimento al valore di mercato della società (artt. 2437-ter e 2473, comma 3, c.c.) oppure se esso possa determinarsi sulla base di altri parametri liberamente negoziabili.

Sembra senz'altro condivisibile l'orientamento dei notai fiorentini che, seguendo il pensiero della dottrina sulle cause derogabili o statutarie di recesso, hanno affermato: “Il valore di liquidazione delle partecipazioni è liberamente determinabile, poiché non sussistono nella fattispecie né le ragioni di tutela del socio ricorrenti qualora si verifichino cause legali di recesso, né quelle invocate in caso di espulsione dalla compagine sociale per volontà altrui (azioni riscattabili, esclusione, drag along)”. Come sostenuto precedentemente, infatti, non è obbligatorio per la società ancorare il valore di liquidazione di dette partecipazioni al loro valore di mercato o in proporzione alla partecipazione al capitale sociale, in quanto in questo caso non sembrano operare le esigenze di tutela che invece appaiono necessarie in tutti quei casi in cui il disinvestimento è imposto da una decisione discrezionale altrui.

Il socio, infatti, nel momento in cui sottoscrive la partecipazione “a tempo” o “auto-estinguibile”, è edotto con riguardo ai criteri di determinazione della liquidazione che al medesimo sarà riconosciuta e, dunque, scommettendo sul futuro andamento economico della società, accetta il rischio che tale ammontare possa rivelarsi inferiore all'effettivo valore che avrà la sua partecipazione.

Tali considerazioni inerenti all'attribuzione al socio “temporaneo” di un valore di liquidazione svincolato dal valore di mercato, dunque, appaiono simili a quelle sostenute in passato dalla dottrina inerenti alle fattispecie delle azioni “riscattande” e del recesso convenzionale ad nutum, con la differenza che, nelle partecipazioni a scadenza anticipata, la dismissione della partecipazione avviene in modo “automatico” (al decorrere del termine o al verificarsi della condizione prevista dallo statuto), senza un'ulteriore manifestazione di volontà da parte del socio titolare della partecipazione.

L'unico limite al diritto delle parti di negoziare liberamente il valore di liquidazione delle partecipazioni sembra rappresentato dal divieto di patto leonino, previsto dall'art. 2265 c.c.

Nel caso in cui, infatti, si preveda che al socio “temporaneo” debba riconoscersi un certo e predeterminato importo di liquidazione e, alla scadenza della partecipazione, il valore di mercato della società venga azzerato dalle perdite, il percepimento della liquidazione predeterminata potrebbe, in teoria, realizzare quella esclusione del socio da ogni partecipazione alle perdite che il divieto di cui all'art. 2265 c.c. mira ad evitare.

Tale divieto verrebbe in rilievo in modo particolare non tanto nel caso di acquisto da parte della società, quanto nel caso in cui la partecipazione venga rimborsata mediante acquisto degli altri soci o di terzi, ovvero nel caso in cui i mezzi provengano da sfere patrimoniali diverse dalla società.

La dottrina che si è occupata della questione rispetto a fattispecie assimilabili sul piano degli effetti, come il riscatto azionario e il recesso ad nutum, è dell'avviso che, nelle ipotesi di pagamento a carico della società (acquisto di azioni proprie o rimborso del capitale), non si corre il rischio di violazione del patto leonino.

In tal caso, infatti, il valore di rimborso o il prezzo di riscatto, in ossequio al disposto di cui all'art. 2357 c.c., non possono che essere effettuati nei limiti dell'ammontare delle riserve disponibili, e dunque il socio uscente potrà sempre essere sottoposto al rischio di ottenere un valore di rimborso inferiore al valore reale o convenzionale al momento del distacco dalla società. Appare, tuttavia, preferibile ritenere che una violazione del patto leonino, a prescindere dalla predeterminazione del valore di liquidazione e a prescindere da chi sia chiamato a effettuare la liquidazione (società o soci), sia insuscettibile di verificarsi. É bene ricordare, infatti, che colui che sottoscrive tale partecipazione “temporanea” o “auto-estinguibile” investe nel capitale di rischio della società, con l'effetto di conseguire a tutti gli effetti lo “status” di socio. Come è noto, l'effetto principale che consegue a tale qualifica è quello di partecipare medio tempore, al pari di tutti gli altri soci, agli utili e alle perdite della società, tanto che, qualora la società fosse costretta a deliberare una riduzione del capitale sociale per perdite, la sua partecipazione sarebbe certamente suscettibile di essere proporzionalmente ridotta, o, in caso di azzeramento del capitale sociale, annullata.

Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, chiamata ed esprimersi riguardo la legittimità delle c.d. opzioni put (le quali in sede di liquidazione producono un effetto simile a quello delle azioni a scadenza anticipata), una violazione del patto leonino si configura solamente nel caso in cui l'esclusione dalla partecipazione agli utili o alle perdite sia “assoluta” e “costante” e quando la violazione del principio sia sostanziale e non meramente formale, cosa che non sembra realizzarsi nel caso di specie, ove lo statuto si limita a predeterminare il valore di liquidazione della partecipazione, il quale, essendo legato all'andamento economico della società, non consentirebbe ai titolari della partecipazione a scadenza anticipata di essere al riparo da ogni perdita e, conseguentemente, di essere disincentivati ad una corretta gestione della società.

Limitare, peraltro, la liquidazione all'ammontare delle riserve disponibili e al valore nominale della partecipazione, potrebbe apparire inappropriato, in quanto potrebbe accadere che, in virtù di valori patrimoniali inesprimibili nel bilancio di esercizio, il valore reale della partecipazione sia superiore, circostanza che è già suscettibile di verificarsi nelle fattispecie legali di recesso.

Fin qui, l'analisi inerente a una potenziale violazione del divieto di patto leonino si è focalizzata principalmente sul caso in cui il socio “temporaneo” venga escluso da ogni partecipazione alle perdite.

Il problema, in realtà, si pone anche per la potenziale esclusione dagli utili.

Le partecipazioni a scadenza anticipata rispondono a un interesse economico legato ad investimenti potenzialmente rischiosi, specialmente nel caso in cui non sia prevista una liquidazione al decorrere del termine o al verificarsi della condizione prevista dallo statuto. Ne deriva che è possibile che il socio “temporaneo” non riceva alcuna remunerazione per il suo conferimento partecipativo.

È noto che il rischio insito negli investimenti in società di capitali non violi il divieto di patto leonino, ma cosa accadrebbe nel caso di preventiva potenziale esclusione dagli utili?

Infatti, nel caso in cui non venga previsto un diritto di liquidazione a favore del socio temporaneo e, al tempo stesso, il diritto all'utile nominalmente concesso non si concretizzi per effetto del sistematico accantonamento degli utili deciso dalla maggioranza assembleare, vi potrebbe essere una potenziale violazione del divieto di patto leonino per mancata partecipazione agli utili.

A tal proposito occorre ricordare che, diversamente da quanto accade per le società di persone, nella S.p.a. l'approvazione del bilancio d'esercizio non determina di per sé l'insorgere di un diritto individuale degli azionisti all'immediata assegnazione della propria parte di utili.

A tal fine si rende, infatti, necessaria un'ulteriore e distinta deliberazione dell'assemblea di distribuzione degli utili. Ne consegue che, nelle S.p.a., la periodica distribuzione degli utili è rimessa all'apprezzamento discrezionale dell'assemblea.

L'interesse del gruppo di comando al reinvestimento degli utili nell'attività sociale è così chiaramente privilegiato rispetto all'interesse del singolo socio alla distribuzione degli utili e alla remunerazione periodica del capitale investito. Il potere dispositivo dell'assemblea in tema di distribuzione degli utili potrebbe essere limitato prevedendo a tale scopo una clausola statutaria che riconosca alla categoria di azioni “temporanee” il diritto alla percezione annuale di un dividendo minimo, ovviamente purché vi siano utili distribuibili.

A quel punto, qualora l'assemblea decida di non deliberare la distribuzione, i soci “temporanei” verrebbero tutelati dal meccanismo di approvazione previsto dall'art. 2376 c.c. in tema di assemblee speciali. In tal caso non sembra dunque essere di fronte ad una partecipazione che sia in re ipsa esclusa dagli utili, in quanto il socio “temporaneo”, sottoscrivendo tale partecipazione, accetta il rischio di non partecipare agli utili.

Per quanto concerne la S.r.l., occorre considerare che la riforma del diritto societario del 2003 ha avvicinato notevolmente queste alle società di persone, attribuendo ai soci una rilevanza centrale nella disciplina di questo tipo societario.

Pertanto, se è vero che nelle società di capitali gli incrementi patrimoniali restano nella disponibilità della persona giuridica e i soci ne beneficerebbero solo nel caso in cui la società adotti una decisione di distribuzione, è anche vero che nella S.r.l., in considerazione della preminenza assegnata dalla legge alla figura del socio, si rendono ammissibili clausole che importino nella S.r.l. caratteristiche proprie delle società di persone.

In queste ultime gli utili, man mano che maturano, vengono acquisiti dalla collettività dei soci, a prescindere dal fatto che ne sia compiuto l'accertamento attraverso l'approvazione del rendiconto annuale.

Nelle società di persone, dunque, una volta accertata la realizzazione dell'utile mediante l'approvazione del rendiconto, il singolo socio acquista il diritto di conseguire la parte di utile a lui spettante. Nelle società di capitali, come precedentemente esaminato, invece, il solo accertamento del conseguimento dell'utile non determina, in assenza di una deliberazione di distribuzione degli utili, alcun diritto del socio ad appropriarsi pro quota dell'incremento patrimoniale realizzato dalla società.

Quindi, anche nel caso in cui non si considerasse legittima una clausola dello statuto di S.r.l. che imponga un'integrale e automatica distribuzione degli utili, ben si potrebbe comunque configurare un diritto particolare che attribuisca ad uno o più soci, in questo caso “temporanei”, il diritto di prevedere la quota di utili loro riservata a seguito della mera emersione di utili nel bilancio d'esercizio, prescindendo dalla loro effettiva distribuzione.

La natura quindi delle partecipazioni “temporanee” nelle varie forme passate in rassegna nel presente lavoro, sembra di per sé escludere una violazione del divieto del patto leonino. L'utilizzazione dei correttivi appena segnalati può fungere da ausilio alla costruzione di clausole che evitino, anche potenzialmente, il rischio di nullità statuita dal divieto di cui all'art. 2265 c.c.

La legge notarile, infatti, all'art.138-bis, sanziona in maniera gravosa il notaio che chieda l'iscrizione nel registro delle imprese di atti societari solo quando risultano manifestamente inesistenti le condizioni richieste dalla legge. Si tratta, pertanto, di utili correttivi legati anche alla attuale incertezza applicativa di tali clausole nei confronti delle quali non vi sono ancora consolidati orientamenti giurisprudenziali e opinioni diffuse da parte della dottrina.

La rappresentazione contabile delle partecipazioni a scadenza anticipata

Le osservazioni esposte nel paragrafo precedente sembrano fugare il dubbio che la previsione di un diritto alla liquidazione della partecipazione a termine fisso o al verificarsi di una condizione debba comportare la classificazione in bilancio delle partecipazioni a scadenza anticipata fra le passività. Il tema è stato oggetto di dibattito anche a ragione dei criteri di distinzione tra passività (debit) e netto contabile (equity) imposti dal principio contabile internazionale (IAS) n. 32.

Secondo quanto disposto dallo IAS n. 32, infatti, andrebbero annoverati fra le passività, e non nel patrimonio netto, gli strumenti che comportano a carico della società un obbligo di rimborso, fisso o determinabile, al cui adempimento la società non potrebbe sottrarsi.

Per quanto concerne le partecipazioni “temporanee”, nel caso in cui il rimborso non possa avvenire, o non avvenga tramite mezzi patrimoniali provenienti dalla sfera patrimoniale di altri soci o di terzi estranei alla compagine sociale (caso nel quale non vi sarebbe un debito sociale), questo sarebbe posto a carico della frazione di patrimonio netto della quale i soci possono liberamente disporre (riserve disponibili), oppure, qualora fosse posto a carico della frazione di patrimonio netto vincolata (capitale sociale), sarebbe subordinato alla mancata opposizione dei creditori sociali.

Il rimborso, pertanto, non potrebbe essere mai posto a carico del capitale sociale, in quanto quest'ultimo è destinato a soddisfare con preferenza i creditori sociali, senza il consenso (meglio, la mancata opposizione) di questi ultimi. A tali considerazioni si aggiunga il fatto che in ogni caso la possibilità di liquidazione è condizionata all'esistenza della partecipazione alla scadenza fissata, ovvero al suo mancato annullamento, totale o parziale, causato dalle perdite.

Non si può, dunque, sostenere che al momento dell'emissione delle partecipazioni a scadenza anticipata sorga un debito incondizionato della società tale da imporre la rappresentazione degli apporti effettuati come passività anziché come componenti del patrimonio netto.

Ne consegue che l'intera quota del capitale sociale rappresentata dalla categoria azionaria in discussione non possa, in linea di principio, mai essere qualificata come debito attuale della società.

La questione sembrerebbe riguardare allora esclusivamente la rappresentazione in bilancio delle partecipazioni a scadenza anticipata, non già la loro natura giuridica. Tuttavia, per le ragioni di cui supra, la disciplina della liquidazione del socio “temporaneo” non consente anche sul piano giuridico-contabile, tanto formale che sostanziale, di poter qualificare come passività l'ammontare del capitale sociale rappresentato dalle azioni a scadenza anticipata. Infatti, solo nel momento in cui il termine decorre o si verifica la condizione prevista dallo statuto il debito della società diviene attuale e quantificabile e di conseguenza dovrà essere contabilizzato.

Considerazioni conclusive

Le clausole statutarie che prevedono nelle società di capitali partecipazioni auto-estinguibili sembrano ormai ampiamente diffuse nella prassi. Gli statuti di s.r.l. e s.p.a. possono infatti prevedere che una data categoria di quote o azioni possa estinguersi allo spirare di un certo termine o al verificarsi di una determinata condizione. Al titolare della partecipazione spetta di conseguenza la liquidazione in base a parametri oggettivamente predeterminati, che però non eliminano il rischio dell'investimento. Si tratta di strumenti finanziari nuovi che ampliano le prospettive per le società di reperire investitori. La previsione di una liquidazione della quota o azione in base a criteri predeterminati nonché il rischio di perdere l'investimento, esclude che tali clausole possano violare il divieto del patto leonino. L'autonomia statutaria riconosciuta oggi alle società di capitali nell'organizzazione della propria vita e delle attività unitamente a un affievolimento del dirigismo normativo delle disposizioni cogenti, rende perfettamente compatibili tali clausole.

La partecipazione a “scadenza anticipata” quindi a una società può ritenersi pienamente lecita nel nostro ordinamento giuridico e anzi rende sempre più appetibile il ricorso allo strumento societario da parte di investitori di capitale anche stranieri. Si verifica così il disegno riformista di “nuove società per nuovi mercati”.

Guida all'approfondimento

Per un approfondimento si veda:

Consiglio notarile di Milano, massima n. 190, Azioni e quote “autoestinguibili”

Consiglio notarile di Milano, massima n. 47, Cause convenzionali di recesso (artt. 2437 e 2473 c.c.)

Consiglio notarile di Firenze, massima n. 66, Le partecipazioni sociali a tempo

D. CORSICO, Categorie di partecipazioni e condizioni soggettive del socio, in Quaderni DB sulle massime e sugli orientamenti di interesse notarile in materia di diritto societario, a cura di G.A. RESCIO, 2021.

P. SFAMENI, Azioni di categoria e diritti patrimoniali, Milano, 2008;

Consiglio notarile di Firenze, massima n. 67/2018, Azioni riscattande, prezzo di vendita e patto leonino

F. GUERRERA, Le società a partecipazione mista pubblico – privata, in Le “nuove” società partecipate e in house providing, a cura di S. Fortunato e F. Vessia, Giuffrè, Milano, 2017, 120.

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