Le considerazioni che precedono influiscono anche sul tema della valutazione dell'ammontare della liquidazione spettante ai soci “temporanei”.
A riguardo, ci si chiede se trovi applicazione o meno la disciplina prescritta dalla legge in materia di recesso, ossia se l'ammontare della liquidazione debba individuarsi con riferimento al valore di mercato della società (artt. 2437-ter e 2473, comma 3, c.c.) oppure se esso possa determinarsi sulla base di altri parametri liberamente negoziabili.
Sembra senz'altro condivisibile l'orientamento dei notai fiorentini che, seguendo il pensiero della dottrina sulle cause derogabili o statutarie di recesso, hanno affermato: “Il valore di liquidazione delle partecipazioni è liberamente determinabile, poiché non sussistono nella fattispecie né le ragioni di tutela del socio ricorrenti qualora si verifichino cause legali di recesso, né quelle invocate in caso di espulsione dalla compagine sociale per volontà altrui (azioni riscattabili, esclusione, drag along)”. Come sostenuto precedentemente, infatti, non è obbligatorio per la società ancorare il valore di liquidazione di dette partecipazioni al loro valore di mercato o in proporzione alla partecipazione al capitale sociale, in quanto in questo caso non sembrano operare le esigenze di tutela che invece appaiono necessarie in tutti quei casi in cui il disinvestimento è imposto da una decisione discrezionale altrui.
Il socio, infatti, nel momento in cui sottoscrive la partecipazione “a tempo” o “auto-estinguibile”, è edotto con riguardo ai criteri di determinazione della liquidazione che al medesimo sarà riconosciuta e, dunque, scommettendo sul futuro andamento economico della società, accetta il rischio che tale ammontare possa rivelarsi inferiore all'effettivo valore che avrà la sua partecipazione.
Tali considerazioni inerenti all'attribuzione al socio “temporaneo” di un valore di liquidazione svincolato dal valore di mercato, dunque, appaiono simili a quelle sostenute in passato dalla dottrina inerenti alle fattispecie delle azioni “riscattande” e del recesso convenzionale ad nutum, con la differenza che, nelle partecipazioni a scadenza anticipata, la dismissione della partecipazione avviene in modo “automatico” (al decorrere del termine o al verificarsi della condizione prevista dallo statuto), senza un'ulteriore manifestazione di volontà da parte del socio titolare della partecipazione.
L'unico limite al diritto delle parti di negoziare liberamente il valore di liquidazione delle partecipazioni sembra rappresentato dal divieto di patto leonino, previsto dall'art. 2265 c.c.
Nel caso in cui, infatti, si preveda che al socio “temporaneo” debba riconoscersi un certo e predeterminato importo di liquidazione e, alla scadenza della partecipazione, il valore di mercato della società venga azzerato dalle perdite, il percepimento della liquidazione predeterminata potrebbe, in teoria, realizzare quella esclusione del socio da ogni partecipazione alle perdite che il divieto di cui all'art. 2265 c.c. mira ad evitare.
Tale divieto verrebbe in rilievo in modo particolare non tanto nel caso di acquisto da parte della società, quanto nel caso in cui la partecipazione venga rimborsata mediante acquisto degli altri soci o di terzi, ovvero nel caso in cui i mezzi provengano da sfere patrimoniali diverse dalla società.
La dottrina che si è occupata della questione rispetto a fattispecie assimilabili sul piano degli effetti, come il riscatto azionario e il recesso ad nutum, è dell'avviso che, nelle ipotesi di pagamento a carico della società (acquisto di azioni proprie o rimborso del capitale), non si corre il rischio di violazione del patto leonino.
In tal caso, infatti, il valore di rimborso o il prezzo di riscatto, in ossequio al disposto di cui all'art. 2357 c.c., non possono che essere effettuati nei limiti dell'ammontare delle riserve disponibili, e dunque il socio uscente potrà sempre essere sottoposto al rischio di ottenere un valore di rimborso inferiore al valore reale o convenzionale al momento del distacco dalla società. Appare, tuttavia, preferibile ritenere che una violazione del patto leonino, a prescindere dalla predeterminazione del valore di liquidazione e a prescindere da chi sia chiamato a effettuare la liquidazione (società o soci), sia insuscettibile di verificarsi. É bene ricordare, infatti, che colui che sottoscrive tale partecipazione “temporanea” o “auto-estinguibile” investe nel capitale di rischio della società, con l'effetto di conseguire a tutti gli effetti lo “status” di socio. Come è noto, l'effetto principale che consegue a tale qualifica è quello di partecipare medio tempore, al pari di tutti gli altri soci, agli utili e alle perdite della società, tanto che, qualora la società fosse costretta a deliberare una riduzione del capitale sociale per perdite, la sua partecipazione sarebbe certamente suscettibile di essere proporzionalmente ridotta, o, in caso di azzeramento del capitale sociale, annullata.
Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, chiamata ed esprimersi riguardo la legittimità delle c.d. opzioni put (le quali in sede di liquidazione producono un effetto simile a quello delle azioni a scadenza anticipata), una violazione del patto leonino si configura solamente nel caso in cui l'esclusione dalla partecipazione agli utili o alle perdite sia “assoluta” e “costante” e quando la violazione del principio sia sostanziale e non meramente formale, cosa che non sembra realizzarsi nel caso di specie, ove lo statuto si limita a predeterminare il valore di liquidazione della partecipazione, il quale, essendo legato all'andamento economico della società, non consentirebbe ai titolari della partecipazione a scadenza anticipata di essere al riparo da ogni perdita e, conseguentemente, di essere disincentivati ad una corretta gestione della società.
Limitare, peraltro, la liquidazione all'ammontare delle riserve disponibili e al valore nominale della partecipazione, potrebbe apparire inappropriato, in quanto potrebbe accadere che, in virtù di valori patrimoniali inesprimibili nel bilancio di esercizio, il valore reale della partecipazione sia superiore, circostanza che è già suscettibile di verificarsi nelle fattispecie legali di recesso.
Fin qui, l'analisi inerente a una potenziale violazione del divieto di patto leonino si è focalizzata principalmente sul caso in cui il socio “temporaneo” venga escluso da ogni partecipazione alle perdite.
Il problema, in realtà, si pone anche per la potenziale esclusione dagli utili.
Le partecipazioni a scadenza anticipata rispondono a un interesse economico legato ad investimenti potenzialmente rischiosi, specialmente nel caso in cui non sia prevista una liquidazione al decorrere del termine o al verificarsi della condizione prevista dallo statuto. Ne deriva che è possibile che il socio “temporaneo” non riceva alcuna remunerazione per il suo conferimento partecipativo.
È noto che il rischio insito negli investimenti in società di capitali non violi il divieto di patto leonino, ma cosa accadrebbe nel caso di preventiva potenziale esclusione dagli utili?
Infatti, nel caso in cui non venga previsto un diritto di liquidazione a favore del socio temporaneo e, al tempo stesso, il diritto all'utile nominalmente concesso non si concretizzi per effetto del sistematico accantonamento degli utili deciso dalla maggioranza assembleare, vi potrebbe essere una potenziale violazione del divieto di patto leonino per mancata partecipazione agli utili.
A tal proposito occorre ricordare che, diversamente da quanto accade per le società di persone, nella S.p.a. l'approvazione del bilancio d'esercizio non determina di per sé l'insorgere di un diritto individuale degli azionisti all'immediata assegnazione della propria parte di utili.
A tal fine si rende, infatti, necessaria un'ulteriore e distinta deliberazione dell'assemblea di distribuzione degli utili. Ne consegue che, nelle S.p.a., la periodica distribuzione degli utili è rimessa all'apprezzamento discrezionale dell'assemblea.
L'interesse del gruppo di comando al reinvestimento degli utili nell'attività sociale è così chiaramente privilegiato rispetto all'interesse del singolo socio alla distribuzione degli utili e alla remunerazione periodica del capitale investito. Il potere dispositivo dell'assemblea in tema di distribuzione degli utili potrebbe essere limitato prevedendo a tale scopo una clausola statutaria che riconosca alla categoria di azioni “temporanee” il diritto alla percezione annuale di un dividendo minimo, ovviamente purché vi siano utili distribuibili.
A quel punto, qualora l'assemblea decida di non deliberare la distribuzione, i soci “temporanei” verrebbero tutelati dal meccanismo di approvazione previsto dall'art. 2376 c.c. in tema di assemblee speciali. In tal caso non sembra dunque essere di fronte ad una partecipazione che sia in re ipsa esclusa dagli utili, in quanto il socio “temporaneo”, sottoscrivendo tale partecipazione, accetta il rischio di non partecipare agli utili.
Per quanto concerne la S.r.l., occorre considerare che la riforma del diritto societario del 2003 ha avvicinato notevolmente queste alle società di persone, attribuendo ai soci una rilevanza centrale nella disciplina di questo tipo societario.
Pertanto, se è vero che nelle società di capitali gli incrementi patrimoniali restano nella disponibilità della persona giuridica e i soci ne beneficerebbero solo nel caso in cui la società adotti una decisione di distribuzione, è anche vero che nella S.r.l., in considerazione della preminenza assegnata dalla legge alla figura del socio, si rendono ammissibili clausole che importino nella S.r.l. caratteristiche proprie delle società di persone.
In queste ultime gli utili, man mano che maturano, vengono acquisiti dalla collettività dei soci, a prescindere dal fatto che ne sia compiuto l'accertamento attraverso l'approvazione del rendiconto annuale.
Nelle società di persone, dunque, una volta accertata la realizzazione dell'utile mediante l'approvazione del rendiconto, il singolo socio acquista il diritto di conseguire la parte di utile a lui spettante. Nelle società di capitali, come precedentemente esaminato, invece, il solo accertamento del conseguimento dell'utile non determina, in assenza di una deliberazione di distribuzione degli utili, alcun diritto del socio ad appropriarsi pro quota dell'incremento patrimoniale realizzato dalla società.
Quindi, anche nel caso in cui non si considerasse legittima una clausola dello statuto di S.r.l. che imponga un'integrale e automatica distribuzione degli utili, ben si potrebbe comunque configurare un diritto particolare che attribuisca ad uno o più soci, in questo caso “temporanei”, il diritto di prevedere la quota di utili loro riservata a seguito della mera emersione di utili nel bilancio d'esercizio, prescindendo dalla loro effettiva distribuzione.
La natura quindi delle partecipazioni “temporanee” nelle varie forme passate in rassegna nel presente lavoro, sembra di per sé escludere una violazione del divieto del patto leonino. L'utilizzazione dei correttivi appena segnalati può fungere da ausilio alla costruzione di clausole che evitino, anche potenzialmente, il rischio di nullità statuita dal divieto di cui all'art. 2265 c.c.
La legge notarile, infatti, all'art.138-bis, sanziona in maniera gravosa il notaio che chieda l'iscrizione nel registro delle imprese di atti societari solo quando risultano manifestamente inesistenti le condizioni richieste dalla legge. Si tratta, pertanto, di utili correttivi legati anche alla attuale incertezza applicativa di tali clausole nei confronti delle quali non vi sono ancora consolidati orientamenti giurisprudenziali e opinioni diffuse da parte della dottrina.