Il ricorso è stato dichiarato fondato limitatamente all'imputazione del reato di bancarotta impropria da operazioni dolose.
In proposito, la Cassazione ha censurato la circostanza che i giudici di merito, tanto di primo che di secondo grado, si siano limitati a fare un cenno alla forte esposizione debitoria ovvero al debito erariale per oltre 43 milioni di euro che aveva indotto l'insorgenza della procedura fallimentare, dando quasi per scontato che vi siano state delle operazioni dolose causative del fallimento, senza soffermarsi adeguatamente sulla loro natura, sulle caratteristiche che le contraddistinsero, sul contesto in cui intervennero, sulla entità della loro eventuale protrazione nel tempo e sulla incidenza che ebbero sul fallimento, senza dare conto della loro riconducibilità all'imputato, quale amministratore della società poi fallita.
Invitando il giudice del rinvio ad approfondire i suddetti profili, la Cassazione fornisce in proposito alcune indicazioni in ordine ai parametri con cui andrà condotto l'esame della vicenda in sede di rinvio.
In primo luogo, si sottolinea come “in tema di bancarotta fraudolenta, le operazioni dolose di cui all'art 223, comma secondo, n. 2, R.D. n. 267 del 1942, attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo nell'esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la "salute" economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato” (Cass., sez. V, 25 settembre 2014, n. 47621).
In secondo luogo, si ricorda come sia costante l'orientamento secondo cui nella fattispecie in esame rientra l'ipotesi di “protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni contributive, che, aumentando ingiustificatamente l'esposizione nei confronti degli enti previdenziali, rendeva prevedibile il conseguente dissesto della società (Cass., sez. V, 19 febbraio 2018, n. 24752).
Infine, la decisione invita il giudice del rinvio ad accertare le cause del mancato pagamento delle somme dovute, distinguendo l'ipotesi dell'assenza di risorse di cassa dovuta a circostanza imprevedibili ed imponderabili dal caso in cui il fattore giustificativo dell'inadempimento sia da attribuire ad una volontaria e sistematica condotta inadempiente e non a contingenti evenienze di cassa deficitarie (trattandosi peraltro di fattispecie di reato a dolo generico).
Quanto alla contestazione della distrazione, che secondo la difesa si fondava sulla base di meccanismo presuntivo, secondo la Cassazione la sentenza impugnata è indenne da censure essendo conforme all'indirizzo consolidato secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione o dell'occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell'amministratore, della destinazione dei beni suddetti (Cass., sez. V, 17 gennaio 2020, n. 17228). Sicuramente, non si può ignorare l'affermazione dell'imputato di aver impiegato tali beni per finalità aziendali o di averli restituiti all'avente diritto, in assenza di una chiara smentita emergente dagli elementi probatori acquisiti, ma occorre che tali indicazioni, da fornire essenzialmente alla curatela, al fine di consentire il rinvenimento dei beni potenzialmente distratti, siano specifiche e consentano il recupero degli stessi ovvero l'individuazione della effettiva destinazione (Cass., sez. V, 17 gennaio 20202, n. 17228), cosa che nel caso di specie non risulta avvenuta.
Quanto alla mancanza di giustificazioni da parte dell'imputato, va osservato che in ogni caso egli era tenuto, nella qualità rivestita, a fornire, quanto prima, al curatore, in sede fallimentare, tutte le delucidazioni e controdeduzioni del caso per consentire allo stesso di assolvere alle incombenze proprie della sua carica; e da tale omissione, come detto, secondo la consolidata giurisprudenza, sono desumibili elementi di valutazione ai fini della prova del reato di bancarotta patrimoniale, elementi di valutazione che rimangono tali al di là della giustificazione indicata dalla difesa in sede penale, che ha genericamente sottolineato la vetustà del bene e il tempo trascorso dal suo acquisto (circa dieci anni).
La Cassazione poi esclude che possa costituire una valida giustificazione il fatto che l'imputato non avrebbe ricevuto l'avviso di convocazione dei curatore (circostanza che nell'ottica difensiva avrebbe impedito l'interlocuzione sulla sorte del bene), incombendo sul fallito, ovvero sull'amministratore in caso di società, l'obbligo di verità, penalmente sanzionato e gravante sui fallito ex art. 87 legge fall., unitamente alla sua responsabilità in ordine alla conservazione della garanzia patrimoniale (Cass., sez. V, 17 aprile 2013, n. 22894) e alla sua stessa responsabilità penale in caso di mancata consegna del bene indebitamente sottratto alla garanzia dei creditori, alla massa fallimentare; trattasi quindi di obblighi che discendono dalla legge e sussistono in capo al fallito, o all'amministratore, a prescindere dalla convocazione del curatore.
Secondo la Cassazione, dunque, la previsione di cui all'art. 87 R.D. n. 267/1942, che fa riferimento all'invito del curatore, non può, ovviamente, essere interpretata nel senso che alla stregua di essa l'obbligo di dire la verità in ordine alla sorte dei beni sussista solo nel caso in cui vi sia l'interlocuzione col curatore in sede di redazione dell'inventario, discendendo piuttosto tale obbligo dal sistema che impone innanzitutto al debitore di conservare ia garanzia patrimoniale ex art. 2740 cod. civ..
Va infine escluso che al diritto al silenzio dell'imputato in sede di giudizio penale corrisponda un analogo diritto nell'ambito della procedura fallimentare, ciò in quanto il fallito - e nel caso di società l'amministratore di questa - ha l'obbligo giuridico di fornire dimostrazione della destinazione dei beni acquisiti al suo patrimonio; la responsabilità dell'imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori e l'obbligo di verità, penalmente sanzionato, gravante ex art. 87 citato sul fallito, o in caso di società sull'amministratore, giustificano l'apparente inversione dell'onere della prova a carico dell'amministratore della società fallita, in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato. Questa conclusione non interferisce col diritto al silenzio garantito all'imputato in sede penale (Cass., sez. V, 16 dicembre 2021, n. 2732).
Le medesime considerazioni svolte in ordine agli obblighi relativi al patrimonio gravanti sull'amministratore della società fallita a prescindere dalla convocazione da parte del curatore sono richiamate per quanto riguarda la sottrazione delle scritture contabili la cui esistenza presso la sede sociale risulta accertata e non contestata. Infatti, anche l'obbligo di deposito delle scritture contabili discende dalla legge, innanzitutto dalla stessa disposizione di cui all'art. 216, comma 2, l. fall. che sanziona penalmente la sottrazione dei libri e delle altre scritture contabili, ed ha peraltro contenuto più ampio rispetto all'ordine di deposito, entro tre giorni, dei bilanci e delle scritture contabili e fiscali obbligatorie, di cui all'art. 16 l.fall., contenuto nella sentenza dichiarativa di fallimento. Sicché anche in tal caso non rileva che il ricorrente non sia stato raggiunto dalla convocazione del curatore e che non abbia inteso rendersi irreperibile, non risultando peraltro che lo stesso non abbia avuto contezza dell'intervenuto fallimento nell'immediatezza della sua dichiarazione o successivamente nel corso della procedura fallimentare.
Quanto al silenzio tenuto dall'imputato sul punto, la decisione in esame richiama le osservazioni già menzionate. Il silenzio mantenuto in sede penale, frutto di una legittima scelta difensiva dell'imputato, in quanto tale non sindacabile e non valorizzabile ai fini della condanna, si risolve comunque in un aspetto che, nella sua neutralità, non consente di superare il consistente quadro probatorio delineatosi a prescindere da esso, né tanto meno di aggiungere alcunché neppure in termini di ragionevole dubbio.
Nella parte finale della decisione, la Cassazione conduce una riflessione circa la possibilità di applicare l'aggravante di cui all'art. 219, comma 1, l.fall. alle ipotesi di cui all'art. 223 R.D. n. 267/1942.
In proposito, è richiamata la giurisprudenza secondo cui la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui all'art. 219, comma primo, è applicabile a tutte le ipotesi di bancarotta previste dall'art. 223 citato, considerato il rinvio operato in entrambi i casi dai rispettivi commi dell'art. 223 alle pene stabilite nel precedente art. 216 dello stesso testo normativo. La diversa struttura del reato di bancarotta cd. "impropria" e di quelli di cui ai numeri 1 e 2 dell'art. 223, rispetto alla fattispecie "propria" contemplata dal precedente art. 216, non può condurre ad una preclusione verso l'applicazione dell'aggravante di cui si discute e ciò in quanto il citato art. 223, che contiene, al comma 1, un rinvio formale a tutti i reati di bancarotta propria puniti dall'art. 216 della legge, e, ai comma 2, sia pure solo quoad poenam, anche al primo comma del medesimo articolo 216, rende compatibile l'applicazione dell'aggravante in parola in virtù dell'ulteriore raccordo normativo che si crea con la statuizione dell'art. 219, comma 1, R.D. n. 267/1942, che a sua volta rinvia alle pene stabilite dall'art. 216 (Cass., sez. V, 6 ottobre 2017, n. 4400, che evidenzia come tale soluzione sia necessaria per evitare di giungere all'irragionevole risultato di sottoporre solo l'imprenditore individuale ad un trattamento sanzionatorio astrattamente più afflittivo, a fronte ai fatti del tutto analoghi commessi nell'ambito della gestione societaria).
Ciò posto, quanto alla valutazione del danno, in relazione alla bancarotta di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, R.D. n. 267/1942, essa non può che essere effettuata tenendo conto dell'entità delle operazioni dolose che hanno determinato il fallimento; essendo pacifico che il fallimento è evento del reato e quindi il danno cagionato da quest'ultimo coincide con quello derivante dal fallimento (Cass., sez. V, 9 ottobre 1984, n. 405).