Un utile riassunto della Cassazione su alcuni profili dei reati di bancarotta

Ciro Santoriello
07 Febbraio 2023

La pronuncia della Suprema Corte n. 40791/2022, che ha dichiarato il ricorso proposto fondato limitatamente all'imputazione del reato di bancarotta impropria da operazioni dolose, offre lo spunto per soffermarsi su alcuni profili dei reati di bancarotta, con riguardo anche agli orientamenti della giurisprudenza e della dottrina.
Le massime

In tema di bancarotta fraudolenta, le operazioni dolose di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, R.D. n. 267/1942, attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo nell'esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la "salute" economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato.

In tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione o dell'occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione della destinazione dei beni suddetti da parte dell'amministratore, il quale deve fornire chiare e specifiche indicazioni idonee a consentire il rinvenimento dei beni potenzialmente distratti ed il recupero degli stessi.

La circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui all'art. 219, comma 1, è applicabile a tutte le ipotesi di bancarotta previste dall'art. 223 citato, considerato il rinvio operato in entrambi i casi dai rispettivi commi dell'art. 223 alle pene stabilite nel precedente art. 216 dello stesso testo normativo.

Il caso

In sede di merito, l'amministratore di una società fallita era condannato per diversi illeciti di bancarotta, con riferimento alla sottrazione e distruzione dei libri e delle altre scritture contabili della società al fine di non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e dei movimenti degli affari della medesima ed al mancato versamento, sistematico e volontario, dell'imposta determinando un debito erariale a carico della società pari a euro 43.387.460,00, accertato in sede tempestiva, e di euro 6.000,00, accertato in sede tardiva, a fronte di un attivo inesistente, ed infine di aver distratto alcuni beni di non particolare valore facenti parte del patrimonio sociale

In sede di Cassazione, la difesa lamentava in primo luogo la genericità dell'imputazione di tema di cagionamento del dissesto, posto che non erano state compiutamente indicate le operazioni dolose, imputando il mancato pagamento al legale rappresentante della società in virtù della sola posizione rivestita all'interno della società.

Le sentenze, inoltre, nulla dicevano in ordine alle circostanze dell'inadempimento, ben potendo essere dipeso dall'assenza di adeguate risorse di cassa, o, comunque, causato da altri, né si era accertato se l'I.VA. non versata era stata, a monte, incassata.

Analoga considerazione veniva svolta con riferimento alla distrazione dei beni e della contabilità in quanto tale sottrazione sarebbe stata attribuita all'imputato sulla base della sua funzione.

Il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione – si specificava - così come quello di sottrazione o distruzione della contabilità è reato proprio, ma ciò non significa che ogni distrazione riscontrata è necessariamente commessa dal fallito, mentre il giudice territoriale avrebbe fondato il proprio convincimento su un meccanismo presuntivo del tutto incompatibile, ravvisando la responsabilità penale del ricorrente facendo leva solamente sul mancato ritrovamento da parte del curatore dei bene mobili registrati di proprietà della società alla data della dichiarazione di fallimento e delle scritture contabili e sul fatto che il ricorrente non avrebbe fornito indicazioni in ordine alla sorte delle scritture contabili, laddove un tale comportamento sarebbe pienamente legittimo essendo riconducibile al diritto al silenzio proprio dell'imputato.

La questione giuridica

L'art. 223, comma 2, n. 2, R.D. n. 267/1942 punisce sempre con la pena della reclusione da tre a dieci anni gli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società i quali con dolo o con operazioni dolose determinino il fallimento della persona giuridica.

La fattispecie è costruita in termini sintetici, senza far ricorso al metodo casistico – anche in ragione della difficoltà di tipizzare in qualche modo le molteplici forme tramite le quali può manifestarsi la volontà prava dei soggetti attivi (CASAROLI, La causazione dolosa del fallimento di società da parte di amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori, in Ind. Pen., 1978, 411; CAVALLINI, La bancarotta patrimoniale fra legge fallimentare e codice dell'insolvenza, Padova 2012, 80) -, sicché essa, nelle intenzioni del legislatore, era destinata a rivestire una funzione residuale, repressiva di ogni comportamento causativo del dissesto, ricomprendendo quindi tutte quelle condotte non riconducibili alle fattispecie di cui all'art. 223, comma 1 e 2, n. 1, R.D. n. 247/1942, dovendosi dunque far ricorso alla stessa in maniera assai sporadica ed in effetti per lungo tempo la contestazione di tale tipologia di illecito è stata davvero rara nelle nostre aule di giustizia. Ma, negli ultimi anni, l'ipotesi di causazione del dissesto a mezzo di “operazioni dolose” si è trasformata “in un versatile caleidoscopio applicativo” (CAVALLINI, La bancarotta patrimoniale cit., 74).

Si ricorda che la nozione di dissesto, fenomeno che ha natura economica, va distinta rispetto a quella di fallimento, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara. Di conseguenza, la giurisprudenza afferma che non interrompe il nesso di causalità tra l'operazione dolosa e l'evento fallimentare la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente verso il dissesto, valendo in proposito la disciplina del concorso causale di cui all'art. 41 c.p. (Cass., sez. V, 1 giugno 2018, n. 24752; Cass., sez. V, 24 aprile 2018, n. 18092). Così come si ritiene che il nesso di causalità fra l'operazione dolosa e l'evento, costituito dal fallimento della società, non sia escluso dal fatto che l'operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l'aggravamento di un dissesto già in atto (Cass., sez. V, 10 gennaio 2018, n. 633).

Quanto alle condotte integranti la fattispecie in esame, viene ritenuto rilevante “qualsiasi comportamento delle persone preposte all'amministrazione ed al controllo della società, che, implicando un abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alla loro qualità, rechi pregiudizio ai legittimi interessi dell'ente, dei soci o dei creditori, e sia nel tempo stesso realizzato allo scopo di procurarsi un ingiusto profitto” (NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano 1955, 377).

Si ritiene quindi che senz'altro integrino il reato in questione le condotte prive di rilevanza penale, ma concretatesi comunque in una violazione dei doveri gravanti sui titolari di cariche societaria o in un abuso dei correlativi poteri (LA MONICA, Manuale di diritto penale fallimentare, Milano 1993, 478) – come, ad esempio, la violazione dell'obbligo di non concorrenza; le molteplici ipotesi di infedeltà patrimoniale non rientranti nell'ipotesi di cui all'art. 2634 c.c. (Cass., sez. V, 22 febbraio 2007, n. 11019); l'omessa redazione del bilancio; la violazione sistematica e radicale dell'oggetto sociale, come nel caso di condotta speculativa da parte di società cooperativa; l'assunzione di impegni eccedenti il netto patrimoniale della società ovvero eccedenti l'interesse sotteso dal patto di garanzia; la contrazione di un debito sulla base di una artificiosa rappresentazione di ricavi inesistenti, come in caso di sconto bancario di fatture mendaci, ecc.; il ricorso abusivo al credito (Cass., sez. V, 14 gennaio 2004, n. 19101).

Quanto alla bancarotta fraudolenta patrimoniale, da tempo la giurisprudenza insiste sulla peculiarità della modalità di accertamento: in seno allo sbilancio fallimentare (non la mera entità del passivo, Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2004, n. 42382), ove non si individui una corrispondenza tra impieghi e attività, si addebita all'imprenditore come ricchezza distratta.

La prova della distrazione o dell'occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, ad opera dell'amministratore, della destinazione dei beni, per cui, quando risulta che in epoca anteriore prossima al fallimento la società abbia avuto il possesso di determinati beni non rinvenuti all'atto della redazione dell'inventario, spetta ai suoi amministratori provare la concreta destinazione degli stessi o il loro ricavato (Cass., sez. V, 10 maggio 2022, n. 18444; Cass., sez. V, 24 aprile 2020, n. 12911). E' fatta comunque salva la possibilità, per l'imprenditore, di fornire spiegazioni, poiché è suo onere dare delucidazioni sulla destinazione assegnata al bene non rinvenuto in sede di inventario.

Tuttavia, deve precisarsi che la tecnica ricostruttiva di una condotta di bancarotta fraudolenta patrimoniale non può essere affidata ad un mero confronto fra le risultanze della contabilità della società fallita e i beni e le disponibilità liquide rinvenute dal curatore dopo il fallimento. In particolare, non può accusarsi l'amministratore di una persona giuridica di condotte di distrazione solo perché non si rinvengono beni la cui esistenza risulta da quanto attestato dalla contabilità aziendale, dovendosi prima accertare che i libri sociali siano stati redatti correttamente e non presentino contenuti mendaci (Cass., sez. V, 26 maggio 2021, n. 20879).

Per questo motivo è illegittima l'affermazione della responsabilità dell'amministratore fondata esclusivamente sul mancato rinvenimento di dati beni di cui la società abbia avuto il possesso in epoca anteriore e prossima al fallimento, qualora sia subentrato un nuovo amministratore con estromissione del precedente dalla gestione dell'impresa, considerato che, in tal caso, la responsabilità dell'amministratore cessato può essere affermata solo a condizione che risulti dimostrata la collocazione cronologica degli atti di distrazione nel corso della sua gestione o l'esistenza di un accordo con l'amministratore subentrato per il compimento di tali atti.

Quanto all'aggravante del “danno patrimoniale di rilevante gravità”, lo stesso deve intendersi "danno da reato" e, quindi, discendente dai fatti di bancarotta, non quale conseguenza del fallimento, salvo che per il contesto dell'art. 223, comma 2, n. 2, R.D. n. 267 del 1942 in cui è censurato l'aver causato (con dolo o per effetto di operazioni dolose) il fallimento: per questi casi è il pregiudizio derivante, non già ad un singolo creditore, ma alla massa, dall'avvio della procedura concorsuale a commisurare il requisito delle circostanze in esame, cioè, per la bancarotta patrimoniale si allinea sul valore complessivo dei beni che sono stati sottratti all'esecuzione concorsuale (Cass., sez. V, 23 maggio 2016, n. 36816, anche con riguardo alla ricorrenza dell'attenuante dell'art. 219, ult. comma, l. fall.).

La decisione della Cassazione

Il ricorso è stato dichiarato fondato limitatamente all'imputazione del reato di bancarotta impropria da operazioni dolose.

In proposito, la Cassazione ha censurato la circostanza che i giudici di merito, tanto di primo che di secondo grado, si siano limitati a fare un cenno alla forte esposizione debitoria ovvero al debito erariale per oltre 43 milioni di euro che aveva indotto l'insorgenza della procedura fallimentare, dando quasi per scontato che vi siano state delle operazioni dolose causative del fallimento, senza soffermarsi adeguatamente sulla loro natura, sulle caratteristiche che le contraddistinsero, sul contesto in cui intervennero, sulla entità della loro eventuale protrazione nel tempo e sulla incidenza che ebbero sul fallimento, senza dare conto della loro riconducibilità all'imputato, quale amministratore della società poi fallita.

Invitando il giudice del rinvio ad approfondire i suddetti profili, la Cassazione fornisce in proposito alcune indicazioni in ordine ai parametri con cui andrà condotto l'esame della vicenda in sede di rinvio.

In primo luogo, si sottolinea come “in tema di bancarotta fraudolenta, le operazioni dolose di cui all'art 223, comma secondo, n. 2, R.D. n. 267 del 1942, attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo nell'esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la "salute" economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato” (Cass., sez. V, 25 settembre 2014, n. 47621).

In secondo luogo, si ricorda come sia costante l'orientamento secondo cui nella fattispecie in esame rientra l'ipotesi di “protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni contributive, che, aumentando ingiustificatamente l'esposizione nei confronti degli enti previdenziali, rendeva prevedibile il conseguente dissesto della società (Cass., sez. V, 19 febbraio 2018, n. 24752).

Infine, la decisione invita il giudice del rinvio ad accertare le cause del mancato pagamento delle somme dovute, distinguendo l'ipotesi dell'assenza di risorse di cassa dovuta a circostanza imprevedibili ed imponderabili dal caso in cui il fattore giustificativo dell'inadempimento sia da attribuire ad una volontaria e sistematica condotta inadempiente e non a contingenti evenienze di cassa deficitarie (trattandosi peraltro di fattispecie di reato a dolo generico).

Quanto alla contestazione della distrazione, che secondo la difesa si fondava sulla base di meccanismo presuntivo, secondo la Cassazione la sentenza impugnata è indenne da censure essendo conforme all'indirizzo consolidato secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione o dell'occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell'amministratore, della destinazione dei beni suddetti (Cass., sez. V, 17 gennaio 2020, n. 17228). Sicuramente, non si può ignorare l'affermazione dell'imputato di aver impiegato tali beni per finalità aziendali o di averli restituiti all'avente diritto, in assenza di una chiara smentita emergente dagli elementi probatori acquisiti, ma occorre che tali indicazioni, da fornire essenzialmente alla curatela, al fine di consentire il rinvenimento dei beni potenzialmente distratti, siano specifiche e consentano il recupero degli stessi ovvero l'individuazione della effettiva destinazione (Cass., sez. V, 17 gennaio 20202, n. 17228), cosa che nel caso di specie non risulta avvenuta.

Quanto alla mancanza di giustificazioni da parte dell'imputato, va osservato che in ogni caso egli era tenuto, nella qualità rivestita, a fornire, quanto prima, al curatore, in sede fallimentare, tutte le delucidazioni e controdeduzioni del caso per consentire allo stesso di assolvere alle incombenze proprie della sua carica; e da tale omissione, come detto, secondo la consolidata giurisprudenza, sono desumibili elementi di valutazione ai fini della prova del reato di bancarotta patrimoniale, elementi di valutazione che rimangono tali al di là della giustificazione indicata dalla difesa in sede penale, che ha genericamente sottolineato la vetustà del bene e il tempo trascorso dal suo acquisto (circa dieci anni).

La Cassazione poi esclude che possa costituire una valida giustificazione il fatto che l'imputato non avrebbe ricevuto l'avviso di convocazione dei curatore (circostanza che nell'ottica difensiva avrebbe impedito l'interlocuzione sulla sorte del bene), incombendo sul fallito, ovvero sull'amministratore in caso di società, l'obbligo di verità, penalmente sanzionato e gravante sui fallito ex art. 87 legge fall., unitamente alla sua responsabilità in ordine alla conservazione della garanzia patrimoniale (Cass., sez. V, 17 aprile 2013, n. 22894) e alla sua stessa responsabilità penale in caso di mancata consegna del bene indebitamente sottratto alla garanzia dei creditori, alla massa fallimentare; trattasi quindi di obblighi che discendono dalla legge e sussistono in capo al fallito, o all'amministratore, a prescindere dalla convocazione del curatore.

Secondo la Cassazione, dunque, la previsione di cui all'art. 87 R.D. n. 267/1942, che fa riferimento all'invito del curatore, non può, ovviamente, essere interpretata nel senso che alla stregua di essa l'obbligo di dire la verità in ordine alla sorte dei beni sussista solo nel caso in cui vi sia l'interlocuzione col curatore in sede di redazione dell'inventario, discendendo piuttosto tale obbligo dal sistema che impone innanzitutto al debitore di conservare ia garanzia patrimoniale ex art. 2740 cod. civ..

Va infine escluso che al diritto al silenzio dell'imputato in sede di giudizio penale corrisponda un analogo diritto nell'ambito della procedura fallimentare, ciò in quanto il fallito - e nel caso di società l'amministratore di questa - ha l'obbligo giuridico di fornire dimostrazione della destinazione dei beni acquisiti al suo patrimonio; la responsabilità dell'imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori e l'obbligo di verità, penalmente sanzionato, gravante ex art. 87 citato sul fallito, o in caso di società sull'amministratore, giustificano l'apparente inversione dell'onere della prova a carico dell'amministratore della società fallita, in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato. Questa conclusione non interferisce col diritto al silenzio garantito all'imputato in sede penale (Cass., sez. V, 16 dicembre 2021, n. 2732).

Le medesime considerazioni svolte in ordine agli obblighi relativi al patrimonio gravanti sull'amministratore della società fallita a prescindere dalla convocazione da parte del curatore sono richiamate per quanto riguarda la sottrazione delle scritture contabili la cui esistenza presso la sede sociale risulta accertata e non contestata. Infatti, anche l'obbligo di deposito delle scritture contabili discende dalla legge, innanzitutto dalla stessa disposizione di cui all'art. 216, comma 2, l. fall. che sanziona penalmente la sottrazione dei libri e delle altre scritture contabili, ed ha peraltro contenuto più ampio rispetto all'ordine di deposito, entro tre giorni, dei bilanci e delle scritture contabili e fiscali obbligatorie, di cui all'art. 16 l.fall., contenuto nella sentenza dichiarativa di fallimento. Sicché anche in tal caso non rileva che il ricorrente non sia stato raggiunto dalla convocazione del curatore e che non abbia inteso rendersi irreperibile, non risultando peraltro che lo stesso non abbia avuto contezza dell'intervenuto fallimento nell'immediatezza della sua dichiarazione o successivamente nel corso della procedura fallimentare.

Quanto al silenzio tenuto dall'imputato sul punto, la decisione in esame richiama le osservazioni già menzionate. Il silenzio mantenuto in sede penale, frutto di una legittima scelta difensiva dell'imputato, in quanto tale non sindacabile e non valorizzabile ai fini della condanna, si risolve comunque in un aspetto che, nella sua neutralità, non consente di superare il consistente quadro probatorio delineatosi a prescindere da esso, né tanto meno di aggiungere alcunché neppure in termini di ragionevole dubbio.

Nella parte finale della decisione, la Cassazione conduce una riflessione circa la possibilità di applicare l'aggravante di cui all'art. 219, comma 1, l.fall. alle ipotesi di cui all'art. 223 R.D. n. 267/1942.

In proposito, è richiamata la giurisprudenza secondo cui la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui all'art. 219, comma primo, è applicabile a tutte le ipotesi di bancarotta previste dall'art. 223 citato, considerato il rinvio operato in entrambi i casi dai rispettivi commi dell'art. 223 alle pene stabilite nel precedente art. 216 dello stesso testo normativo. La diversa struttura del reato di bancarotta cd. "impropria" e di quelli di cui ai numeri 1 e 2 dell'art. 223, rispetto alla fattispecie "propria" contemplata dal precedente art. 216, non può condurre ad una preclusione verso l'applicazione dell'aggravante di cui si discute e ciò in quanto il citato art. 223, che contiene, al comma 1, un rinvio formale a tutti i reati di bancarotta propria puniti dall'art. 216 della legge, e, ai comma 2, sia pure solo quoad poenam, anche al primo comma del medesimo articolo 216, rende compatibile l'applicazione dell'aggravante in parola in virtù dell'ulteriore raccordo normativo che si crea con la statuizione dell'art. 219, comma 1, R.D. n. 267/1942, che a sua volta rinvia alle pene stabilite dall'art. 216 (Cass., sez. V, 6 ottobre 2017, n. 4400, che evidenzia come tale soluzione sia necessaria per evitare di giungere all'irragionevole risultato di sottoporre solo l'imprenditore individuale ad un trattamento sanzionatorio astrattamente più afflittivo, a fronte ai fatti del tutto analoghi commessi nell'ambito della gestione societaria).

Ciò posto, quanto alla valutazione del danno, in relazione alla bancarotta di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, R.D. n. 267/1942, essa non può che essere effettuata tenendo conto dell'entità delle operazioni dolose che hanno determinato il fallimento; essendo pacifico che il fallimento è evento del reato e quindi il danno cagionato da quest'ultimo coincide con quello derivante dal fallimento (Cass., sez. V, 9 ottobre 1984, n. 405).

Considerazioni conclusive

Il profilo della sentenza in commento di maggior rilievo attiene al delitto di bancarotta fraudolenta sub specie di causazione del dissesto societario a mezzo di operazioni dolose.

Peraltro, l'esame di questa fattispecie di reato è condotto con riferimento ad un'ipotesi la cui rilevanza penale è assai discussa. Intendiamo riferirci alla possibilità di ritenere il delitto in esame integrato in presenza di comportamenti omissivi.

In senso negativo si pronuncia la dottrina, stante l'incompatibilità logica fra la nozione di operazione e quella di omissione (LA MONICA, Manuale di diritto penale, cit., 478; CHIARAVIGLIO, La rilevanza dell'omesso versamento di contributi nel diritto penale del fallimento, in Soc., 2015, 893. Contra, CASAROLI, La causazione dolosa del fallimento, cit., 423), ma la giurisprudenza invece è decisamente più severa avendo riscontrato la fattispecie criminosa in parola in caso di sistematica elusione dei doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo, quando questa comporti il fallimento della società e un depauperamento del patrimonio non giustificato (Cass., sez. V, 11 giugno 2019, n. 43562, in tema di omessa convocazione dell'assemblea per le deliberazioni di cui all'art. 2447 c.c. , a seguito dell'azzeramento del capitale sociale, e continuazione dell'attività d'impresa in violazione dell'art. 2449, comma 1, c.c., alla quale era conseguito l'incremento dell'esposizione debitoria) o in caso di omessa adozione delle necessarie azioni per il recupero di pretese e crediti della società, ove questo comportamento non sia già inquadrabile in un contesto distrattivo (Cass., sez. V, 4 agosto 2016, n. 34423; Cass., sez. V, 24 maggio 2016, n. 21702, secondo cui le operazioni dolose di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, l. fall., possono consistere nel compimento di qualunque atto intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria della impresa e, quindi, anche in una condotta omissiva; Cass., sez. V, 24 aprile 2018, n. 18092).

Inoltre, la giurisprudenza è ormai tetragona nell'affermare – come ribadito anche nella pronuncia in commento - la sussistenza del delitto in parola in presenza di illeciti che, pur aggredendo interessi diversi da quelli della società e della procedura concorsuale, in concreto si ripercuotano negativamente sul patrimonio sociale – si pensi alla violazione degli obblighi previsti da leggi fiscali o previdenziali (Cass., sez. V, 15 febbraio 2019, n. 22488; Cass., sez. V, 19 febbraio 2018, n. 24752).

Con riferimento a quest'ultimo aspetto, la dottrina contesta con decisione tale soluzione, sia in ragione del fatto che l'omissione (intesa quale mancato versamento delle imposte), in quanto tale, esula dal campo semantico del significante “operazione” (CHIARAVIGLIO, La rilevanza dell'omesso versamento, cit., 893), sia – sempre con riferimento ai diversi illeciti tributari – in quanto il sacrificio di soci o creditori uti singuli considerati “può assumere rilievo nel contesto tipico solo se conseguenziale al pregiudizio della società” (PEDRAZZI, Reati commessi dal fallito, in Commentario Scialoja – Branca. Legge fallimentare, a cura di Galgano, Bologna – Roma 1995, 326. Nello stesso senso MICHELETTI, La bancarotta societaria preterintenzionale. Una rilettura del delitto di operazioni dolose con effetto il fallimento, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2014, 65), profilandosi altrimenti una “disomogeneità lesiva tra condotte in evento (in questo caso, fra la violazione di un obbligo verso un solo creditore – il fisco – ed i potenziali effetti benefici da ciò derivanti per i residui creditori in termini di incremento patrimoniale, da un lato, ed il dissesto, dall'altro)” (CAVALLINI, La bancarotta patrimoniale, cit., 79).

Infine, con riferimento a quei fatti che sono esclusi dal penalmente rilevante dalle previsioni di reato societario elencate dal n. 1 del comma 2 dell'art. 223 e la cui valenza criminale viene riconosciuta dalla giurisprudenza mediante riferimento alla previsione di cui al n. 2 del medesimo comma 2 dell'art. 223 (esempio paradigmatico le condotte di infedeltà patrimoniali non punibili ai sensi dell'art. 2634 c.c.), si evidenzia come la formulazione della norma che prevede il reato societario, in casi come questo, non ha solo la funzione di prevedere la punibilità di alcuni fatti, ma anche di escluderla per fatti attigui, ma che difettano per un presupposto richiamato dalla fattispecie incriminatrice; quindi, una volta che dalla legge siricava la non illiceità di tali fatti sotto il profilo del diritto penale societario, parrebbe fuorviante - anche considerando la necessità di tutelare il possibile "affidamento" del soggetto agente sulla liceità del suo comportamento - ritenerne la rilevanza penale per il reato di bancarotta (DESTITO, Diritto penale fallimentare, in SANTORIELLO (a cura di), La disciplina penale dell'economia, vol. I, Torino 2008, 251)