Per individuare il corretto regime sanzionatorio relativo alla fattispecie in oggetto, è anzitutto necessario correttamente qualificare il tipo di invalidità. Largo rimando fa il giudicante a una relativamente recente pronuncia della Suprema corte a Sezioni Unite, la n. 12568/2018.
Nella sentenza testé richiamata, la S.C. S.U. passa in rassegna alcuni precedenti orientamenti in cui erano state confutate le tesi dell'inefficacia temporanea oppure del licenziamento ingiustificato.
Quanto alla prima tesi dell'inefficacia del licenziamento, la Suprema corte riunita a sezioni unite, con la sent. n. 12568/2018, afferma: «ammettere come valido (sebbene momentaneamente inefficace) il licenziamento intimato ancora prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto (…)» sarebbe «un modo per aggirare l'interpretazione (accolta dalla costante giurisprudenza di questa S.C.) dell'art. 2110 cod. civ., comma 2, e di ignorarne la ratio, che è quella di garantire al lavoratore un ragionevole arco temporale di assenza per malattia od infortunio senza per ciò solo perdere l'occupazione» (Cit. Cass., Sez. Un., n. 12669 del 22 maggio 2018). Sul punto è piuttosto tranciante, oltre che chiara.
Deve rigettarsi anche la tesi per la quale tale fattispecie costituisca un licenziamento ingiustificato, «tale dovendosi invece considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione d'un giustificato motivo o d'una giusta causa che risulti, poi, smentita (…). Al contrario (…) il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di recesso diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo». In buona sostanza, perché sia ingiustificato, un licenziamento deve richiedere una giustificazione a suffragio, ma nel caso del superamento di comporto la motivazione è in re ipsa, prevista astrattamente dal legislatore.
Logica conclusione è che il licenziamento intimato ex art. 2110, co. 2 c.c., prima che il periodo di comporto risulti scaduto, non può che qualificarsi come nullo: «muovendosi dall'interpretazione, dell'art. 2110 cod. civ., comma 2, accolta fin dalla summenzionata Cass. S.U. n. 2072/80, va evidenziato che il carattere imperativo della norma, in combinata lettura con l'art. 1418 cod. civ., non consente soluzioni diverse». L'imperatività della norma è ricollegata all'addentellato costituzionale di cui all'art. 32 Cost.
Essendo nullo, dovrebbe pertanto essere piuttosto scontato applicare alla fattispecie la tutela reintegratoria. I dubbi interpretativi nascono dal fatto che la nullità del licenziamento ex art. 2110 c.c. per mancato superamento della soglia di giorni di assenza non è espressamente tipizzata dalla lettera dell'art. 18, co.1 dello Statuto dei lavoratori. Tuttavia, osserva la Suprema corte, è ben contemplato al comma 7, che recita: «Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, (…) ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'art. 2110, secondo comma, del codice civile».
Come rileva in motivazione la Corte, «il problema interpretativo posto dalla fattispecie in esame (…) è reso particolarmente complesso sia dalla collocazione sistematica nel comma 7, anziché nel comma 1 dell'art. 18, delle conseguenze del licenziamento nullo per mancato superamento del periodo di comporto e sia dal contenuto del comma 8, dell'art. 18». Il comma 8, infatti, dispone che la disciplina delineata ai commi 4-7 dell'art. 18 si applicano ai datori di lavoro che impieghino più di quindici dipendenti. Su tale disposizione fa, sostanzialmente, leva l'impugnata sentenza della Corte d'appello: il licenziamento ricade nella tutela delineata all'art. 18, co. 7 e pertanto vi si deve applicare il co. 8 e, quindi, non impiegando il datore di lavoro più di quindici dipendenti, - seguendo il ragionamento del giudice territoriale – non resta che applicare l'art. 8 della L. n. 604/1966.
Tuttavia, la Suprema corte ricorda che «costituisce affermazione costante di questa S.C. che l'art. 8 della legge 604 disciplini unicamente le conseguenze del licenziamento illegittimo perché intimato in difetto di giusta causa o giustificato motivo», quindi non può in alcun modo applicarsi all'illecito licenziamento per superamento del comporto, vista la sua natura “terza” di fattispecie astrattamente motivata già dal legislatore. Si pone netto, allora, il problema interpretativo di quale sia il corretto regime sanzionatorio.
Orbene, se si applicasse ai licenziamenti nulli per mancato superamento del periodo di comporto la disciplina cui al co. 7 per le imprese con più di quindici dipendenti ai sensi del co. 8, si creerebbe una forte illogicità sistemica. Infatti, in caso di medesima fattispecie, ma per un'impresa con meno di quindici dipendenti, si dovrebbe applicare la sanzione di cui al co. 1 (esclusa necessariamente quella della L. 604), con il risultato che alle imprese più piccole verrebbe applicato un regime sanzionatorio più punitivo e gravoso.
Sul punto soccorre l'azione ermeneutica delle Sezioni Uniti nella richiamata sentenza del 2018: «la collocazione della disciplina del licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110, comma 2, cod. civ. nel comma 7, anziché nel comma 1, dell'art. 18 (…) costituisce, unicamente, espressione della scelta legislativa di sanzionare con minor rigore la fattispecie di licenziamento in esame».
Completa il ragionamento la Corte nella sentenza in disamina: il licenziamento in violazione dell'art. 2110 è a tutti gli effetti un licenziamento nullo e quindi non soggiace ad alcuna differenziazione di regime sanzionatorio in base ai requisiti dimensionali; tuttavia, per scelta di politica legislativa, vi si applica non già la sanzione di cui al comma 1, bensì la più mite sanzione reintegratoria depotenziata di cui al comma 4 (in combinato disposto con il comma 7) del medesimo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.