Il corretto regime sanzionatorio in caso di nullità del licenziamento per superamento del periodo di comporto
21 Febbraio 2023
Massima
Il licenziamento per superamento del periodo di comporto senza che sia realmente superato il limite di giorni di assenza per malattia, è nullo. In quanto tale, alla fattispecie si applica l'art. 18, co. 1, L. 300/1970 in combinato disposto con i commi 7 e 4 del medesimo articolo. Il quadro risultante è che essendo il licenziamento nullo, non deve operarsi alcuna distinzione sanzionatoria in base al numero di dipendenti e, tuttavia, si applica per pura scelta legislativa il minor impattante regime sanzionatorio previsto dal comma 4 del medesimo articolo 18. Il fatto
Una lavoratrice, mentre posizionava della merce su degli scaffali, cadeva dallo sgabello fornitole dal datore di lavoro e si infortunava. La caduta era cagionata dall'instabilità dello sgabello che era privo di piedini antiscivolo.
La lavoratrice, pertanto, si infortunava nell'espletamento delle mansioni assegnate e l'evento dannoso si è verificato anche a causa del solo parziale adempimento datoriale all'obbligo di sicurezza, non avendo apprestato tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità psicofisica della dipendente. La vicenda processuale
La lavoratrice ricorreva avanti al Tribunale, chiedendo l'accertamento della nullità o annullabilità del licenziamento ex art. 2110, co. 2 c.c. (superamento del periodo di comporto). Chiedeva anche la condanna del datore di lavoro alla reintegra nelle mansioni, nonché al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 18, commi 4 e 7 della L. n. 300/1970.
L'adito Tribunale ordinava l'accoglimento delle domande al termine della fase sommaria e con successiva sentenza rigettava l'opposizione del datore di lavoro.
La società soccombente reclamava in Corte d'appello. Il giudice di secondo grado parzialmente accoglieva l'impugnazione e parzialmente riformava la sentenza, condannando parte datoriale a riassumere la lavoratrice entro tre giorni o a corrispondere il risarcimento del danno, per sei mensilità. La Corte d'appello, quindi, applicava l'art. 8 della L. n. 604/1966. Infortunio causato dal d.d.l. e computo ai fini del comporto
Il giudice di secondo grado riteneva non superato il periodo di comporto in quanto, comprovata la responsabilità datoriale nella causazione dell'infortunio, il relativo periodo di assenza per infortunio sul lavoro non deve essere computato per il calcolo del comporto.
Sebbene non sia il cuore della sentenza, è comunque utile sottolineare questa impostazione ermeneutica. Sul punto la pronuncia in disamina non si esprime in quanto questione non controversa.
Tuttavia, la Cassazione ha avuto modo, in altre occasioni, di confermare l'orientamento, si veda ad esempio la sentenza n. 2527 del 4 febbraio 2020 (ma anche Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12568), dove è affermato: «Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell' art. 2110 c.c. , sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un'origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro exart. 2087 c.c. ».I licenziamenti illeciti e il regime sanzionatorio
Prima di entrare nello specifico, per poter meglio comprendere le motivazioni della Corte, è utile schematizzare brevemente il regime sanzionatorio in caso di illegittimità del licenziamento.
Orbene, un licenziamento è anzitutto nullo quando discriminatorio, comminato in costanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità oppure negli altri casi previsti dalla legge.
È invece inefficace quando intimato in forma orale.
In questi due casi, indipendentemente dal numero di dipendenti occupato dal datore di lavoro, è applicata la tutela cosiddetta “reintegratoria piena”, ai sensi dell'art. 18, commi 1 e 3 della L. n. 300/1970: è riconosciuto quindi il diritto a essere reintegrati sul posto di lavoro o alternativamente, la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un' indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre che a una indennità di risarcimento del danno non inferiore a cinque mensilità e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per il periodo compreso dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione.
In caso di licenziamenti invalidi, ma fuori dai casi appena esaminati (per esempio insussistenza del fatto, oppure sanzione sproporzionata rispetto ai fatti), la tutela cambia in base alla dimensione occupazionale.
- Ai sensi dell'art. 18, co. 4, se il licenziamento viene intimato da un datore di lavoro che occupa in una unità produttiva più di 15 lavoratori (più di 5 se imprenditore agricolo) o più di 60 dipendenti in totale, si applica sempre la tutela reintegratoria ma depotenziata: è disposta la reintegrazione sul posto di lavoro e una indennità risarcitoria non superiore a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto.
- Al di sotto della soglia dimensionale, si applica il più tenue regime sanzionatorio dui cui all'art. 8, L. n. 604/1966 che riconosce al lavoratore illegittimamente licenziato un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto (c.d. tutela obbligatoria). Per i datori di lavoro fino a 15 dipendenti, qualora sia dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento, non trova applicazione la sanzione della reintegrazione. Inoltre, l'indennità risarcitoria è dimezzata ed è pari a 1 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio con un minimo di 3 mensilità e fino ad un massimo di 6 mensilità (art. 9 D.lgs. n. 23/2015). Anche in questo caso, come in quello delle aziende con più di 15 dipendenti, esplica effetti la pronuncia della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di un'indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore.
Come nota di chiusura, si tenga a mente che ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 in avanti si applicano le tutele previste dal D.lgs. n. 23/2015, in tema di “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”. La questione oggetto della pronuncia
Dopo il breve excursus sulla disciplina sanzionatoria, possiamo concentrarci sulle argomentazioni addotte dalla Corte nella sentenza in disamina.
Pacifica l'illiceità del licenziamento, oggetto della controversia è la corretta individuazione del regime sanzionatorio.
A parere del Tribunale è il combinato disposto dell'art. 18, commi 4 e 7 L. n. 300/1970 a regolare il regime della nullità del licenziamento per violazione dell'art. 2110, co. 2 c.c., derogando alla disciplina della nullità prevista dai commi 1 e 2 del medesimo articolo.
Di contro, la Corte d'appello riteneva applicabile la sanzione di cui all'art. 8 della L. n. 604/1966.
Il giudice di secondo grado ha, infatti, «ritenuto che la lettura data dal primo giudice si ponesse in contrasto con l'art. 18, comma 8, della legge cit. [L. 300/1970 n.d.r.] che esplicitamente esclude l'applicazione dei commi dal quarto al settimo al datore di lavoro privo dei requisiti dimensionali individuati nel medesimo comma 8. Con la conseguenza che il combinato disposto dell'art. 18, commi 4 e 7, deve considerarsi operante nei limiti della tutela c.d. reale e non applicabile ai licenziamenti intimati da datori di lavoro privi del requisito occupazionale» (cit. sentenza in disamina).
Il giudice territoriale osservava che l'applicazione alla fattispecie della nullità di diritto comune determinerebbe un impianto paradossalmente sanzionatorio più gravoso per i datori di lavoro privi del requisito occupazionale rispetto ai datori che impiegano più di quindici dipendenti. La Corte d'appello si appoggiava alla sentenza della Suprema Corte n. 17589/2016 dove è stato affermato che un licenziamento illegittimo per difetto di specifica motivazione richiede l'applicazione dell'art. 8 L. n. 604/1966 per l'aspetto sanzionatorio. Ciò poiché la tutela risarcitoria di cui all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori dovrebbe considerarsi non applicabile ai licenziamenti intimati da datori di lavoro con meno di quindici dipendenti: l'applicazione di tale disciplina «comporterebbe conseguenze irragionevoli, determinando per i datori di lavoro privi del requisito occupazionale un apparato sanzionatorio più gravoso rispetto a coloro che occupano più di quindici dipendenti». La Corte d'appello «ha quindi ricondotto il caso in esame alla previsione dell'art. 8, della legge n. 604/1966» (ibid.). I motivi del ricorso
La ricorrente, con primo motivo, sostiene che il licenziamento in violazione del disposto di cui all'art. 2110, co. 2 c.c. costituisce ipotesi autonoma e che pertanto vi si debba applicare il combinato disposto dell'art. 18, commi 1, 4 e 7: «che tale conclusione costituisce logico corollario della radicale nullità del licenziamento intimato nonostante il mancato superamento del periodo di comporto, a cui non può che conseguire il rimedio della reintegra a prescindere dal requisito dimensionale». (cit. ibidem).
Il secondo motivo di impugnazione è strettamente correlato al primo. La lavoratrice sostiene che l'applicazione dell'art. 8 della L. n. 604/1966 contrasta con «l'orientamento consolidato di legittimità» in base al quale la specifica fattispecie di licenziamento in violazione dell'art. 2110, co. 2 c.c. è sanzionata con la nullità e che, pertanto, l'interpretazione del giudice d'appello «impedisce i normali effetti ripristinatori collegati alla nullità e vanifica in modo irragionevole le esigenze di tutela effettiva e adeguata che trovano fondamento negli artt. 32 [diritto alla salute, n.d.r.], 1, 4 e 35 Cost. [diritto al lavoro, n.d.r.]» (ibidem). La decisione e i motivi della Corte
Per individuare il corretto regime sanzionatorio relativo alla fattispecie in oggetto, è anzitutto necessario correttamente qualificare il tipo di invalidità. Largo rimando fa il giudicante a una relativamente recente pronuncia della Suprema corte a Sezioni Unite, la n. 12568/2018.
Nella sentenza testé richiamata, la S.C. S.U. passa in rassegna alcuni precedenti orientamenti in cui erano state confutate le tesi dell'inefficacia temporanea oppure del licenziamento ingiustificato.
Quanto alla prima tesi dell'inefficacia del licenziamento, la Suprema corte riunita a sezioni unite, con la sent. n. 12568/2018, afferma: «ammettere come valido (sebbene momentaneamente inefficace) il licenziamento intimato ancora prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto (…)» sarebbe «un modo per aggirare l'interpretazione (accolta dalla costante giurisprudenza di questa S.C.) dell'art. 2110 cod. civ., comma 2, e di ignorarne la ratio, che è quella di garantire al lavoratore un ragionevole arco temporale di assenza per malattia od infortunio senza per ciò solo perdere l'occupazione» (Cit. Cass., Sez. Un., n. 12669 del 22 maggio 2018). Sul punto è piuttosto tranciante, oltre che chiara.
Deve rigettarsi anche la tesi per la quale tale fattispecie costituisca un licenziamento ingiustificato, «tale dovendosi invece considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione d'un giustificato motivo o d'una giusta causa che risulti, poi, smentita (…). Al contrario (…) il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di recesso diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo». In buona sostanza, perché sia ingiustificato, un licenziamento deve richiedere una giustificazione a suffragio, ma nel caso del superamento di comporto la motivazione è in re ipsa, prevista astrattamente dal legislatore.
Logica conclusione è che il licenziamento intimato ex art. 2110, co. 2 c.c., prima che il periodo di comporto risulti scaduto, non può che qualificarsi come nullo: «muovendosi dall'interpretazione, dell'art. 2110 cod. civ., comma 2, accolta fin dalla summenzionata Cass. S.U. n. 2072/80, va evidenziato che il carattere imperativo della norma, in combinata lettura con l'art. 1418 cod. civ., non consente soluzioni diverse». L'imperatività della norma è ricollegata all'addentellato costituzionale di cui all'art. 32 Cost.
Essendo nullo, dovrebbe pertanto essere piuttosto scontato applicare alla fattispecie la tutela reintegratoria. I dubbi interpretativi nascono dal fatto che la nullità del licenziamento ex art. 2110 c.c. per mancato superamento della soglia di giorni di assenza non è espressamente tipizzata dalla lettera dell'art. 18, co.1 dello Statuto dei lavoratori. Tuttavia, osserva la Suprema corte, è ben contemplato al comma 7, che recita: «Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, (…) ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'art. 2110, secondo comma, del codice civile».
Come rileva in motivazione la Corte, «il problema interpretativo posto dalla fattispecie in esame (…) è reso particolarmente complesso sia dalla collocazione sistematica nel comma 7, anziché nel comma 1 dell'art. 18, delle conseguenze del licenziamento nullo per mancato superamento del periodo di comporto e sia dal contenuto del comma 8, dell'art. 18». Il comma 8, infatti, dispone che la disciplina delineata ai commi 4-7 dell'art. 18 si applicano ai datori di lavoro che impieghino più di quindici dipendenti. Su tale disposizione fa, sostanzialmente, leva l'impugnata sentenza della Corte d'appello: il licenziamento ricade nella tutela delineata all'art. 18, co. 7 e pertanto vi si deve applicare il co. 8 e, quindi, non impiegando il datore di lavoro più di quindici dipendenti, - seguendo il ragionamento del giudice territoriale – non resta che applicare l'art. 8 della L. n. 604/1966.
Tuttavia, la Suprema corte ricorda che «costituisce affermazione costante di questa S.C. che l'art. 8 della legge 604 disciplini unicamente le conseguenze del licenziamento illegittimo perché intimato in difetto di giusta causa o giustificato motivo», quindi non può in alcun modo applicarsi all'illecito licenziamento per superamento del comporto, vista la sua natura “terza” di fattispecie astrattamente motivata già dal legislatore. Si pone netto, allora, il problema interpretativo di quale sia il corretto regime sanzionatorio.
Orbene, se si applicasse ai licenziamenti nulli per mancato superamento del periodo di comporto la disciplina cui al co. 7 per le imprese con più di quindici dipendenti ai sensi del co. 8, si creerebbe una forte illogicità sistemica. Infatti, in caso di medesima fattispecie, ma per un'impresa con meno di quindici dipendenti, si dovrebbe applicare la sanzione di cui al co. 1 (esclusa necessariamente quella della L. 604), con il risultato che alle imprese più piccole verrebbe applicato un regime sanzionatorio più punitivo e gravoso.
Sul punto soccorre l'azione ermeneutica delle Sezioni Uniti nella richiamata sentenza del 2018: «la collocazione della disciplina del licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110, comma 2, cod. civ. nel comma 7, anziché nel comma 1, dell'art. 18 (…) costituisce, unicamente, espressione della scelta legislativa di sanzionare con minor rigore la fattispecie di licenziamento in esame».
Completa il ragionamento la Corte nella sentenza in disamina: il licenziamento in violazione dell'art. 2110 è a tutti gli effetti un licenziamento nullo e quindi non soggiace ad alcuna differenziazione di regime sanzionatorio in base ai requisiti dimensionali; tuttavia, per scelta di politica legislativa, vi si applica non già la sanzione di cui al comma 1, bensì la più mite sanzione reintegratoria depotenziata di cui al comma 4 (in combinato disposto con il comma 7) del medesimo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. |