Il d.lgs. 149/2022 ha aggiunto all'art. 96 c.p.c. un quarto comma che prevede che: «Nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000».
Nella relazione illustrativa al decreto delegato, pubblicata sulla G.U. del 19 ottobre 2022, si legge (pag. 17), a commento di tale modifica, che essa costituisce attuazione del comma 21, lettera a), della legge delega (criterio direttivo che si inserisce tra quelli diretti «a rafforzare i doveri di leale collaborazione delle parti e dei terzi»), consistendo nella previsione della possibilità di «comminare alla parte soccombente la sanzione pecuniaria, determinata in una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000, da versarsi a favore della cassa delle ammende, a compensazione del danno arrecato all'Amministrazione della giustizia per l'inutile impiego di risorse speso nella gestione del processo».
La norma in esame, nel momento in cui ricollega la sanzione a tutti i commi dell'art. 96 c.p.c., muove dalla premessa, di carattere sistematico, che essi disciplinino tre distinte ipotesi di lite temeraria e che, in particolare, anche l'ipotesi di cui al terzo comma dell'art. 96 c.p.c., al pari di quelle previste dai primi due commi di tale norma sia una forma di illecito aquiliano.
Ora, un simile postulato si pone in contrasto con l'opinione prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza, secondo la quale il terzo comma dell'art. 96 c.p.c., introdotto dall'art. 45, comma 12, della l. n. 69/2009, ha una esclusiva finalità sanzionatoria mentre i presupposti della responsabilità processuale aggravata sono fissati dai primi due commi.
Tale conclusione è stata il frutto di un lungo dibattito, avviatosi subito dopo l'entrata in vigore della novella 69/2009, che è opportuno ripercorrere brevemente.
Secondo un primo indirizzo, per giustificare la condanna ai sensi del terzo comma dell'art. 96 c.p.c. non sarebbero necessari i presupposti soggettivi, previsti dai primi due commi, della mala fede o della colpa grave.
A sostegno di tale opzione era stato valorizzato l'incipit della previsione (le parole “in ogni caso”), che sarebbe indicativo dell'affrancamento di essa da tutti i presupposti del primo comma, con la conseguenza che la sola soccombenza della parte potrebbe giustificare la sua condanna ai sensi del terzo comma.
Saremmo quindi di fronte ad un'ipotesi di responsabilità oggettiva.
La tesi è stata sostenuta anche da una parte della giurisprudenza di legittimità, che ha affermato che «la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c., e con queste cumulabile, volta -con finalità deflattive del contenzioso- alla repressione dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di abuso del processo, quale l'aver agito o resistito pretestuosamente» (Cass. civ. 21 novembre 2017, n. 27623; Cass. civ. 18 novembre 2019, n. 29812; Cass. civ. 24 settembre 2020, n.20018; Cass. civ. 15 febbraio 2021, n. 3830).
E' in linea con tale ricostruzione anche la relazione sul d.lgs. n. 149/2022 dell'ufficio del massimario della Cassazione, la n. 110/2022, leggibile sul sito della Cassazione. Essa infatti, pur riconoscendo che il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. «si configura come una sanzione di carattere pubblicistico, volta alla repressione dell'abuso dello strumento processuale, autonoma ed indipendente rispetto all'ipotesi di responsabilità aggravata prevista dai due commi precedenti», afferma poi contraddittoriamente che «la sua applicazione, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua dell'"abuso del processo", quale l'avere agito o resistito pretestuosamente».
A questa lettura è però agevole obiettare che essa limita il diritto d'azione e di difesa, garantito dall'art. 24 Cost., perché avalla l'idea che l'aver proposto una domanda infondata, o l'aver resistito ad una domanda fondata, costituisca di per sé un illecito ed una possibile fonte di responsabilità.
Essa comporta, inoltre, che dovrebbe essere il giudice a stabilire, di volta in volta, se e quando la lite sia temeraria e tale valutazione potrebbe risultare ancor più arbitraria se si considera che non sarebbe ancorata nemmeno ai parametri fissati dal primo comma dell'art. 96 c.p.c.
E' risultata quindi più convincente, oltre che conforme a Costituzione, la tesi, anche giurisprudenziale, che ha riconnesso la condanna di cui al terzo comma dell'art. 96 c.p.c. agli stessi presupposti – fissati nel primo comma – dell'agire o resistere in giudizio con mala fede o colpa grave (in giurisprudenza in tale senso si vedano: Cass. civ. 3 maggio 2022, n.13859; Cass. civ. 17 novembre 2021, n.34818; Cass. civ. 9 settembre 2021, n. 24383).
In tal modo si è ottenuto almeno che la condanna derivi da una condotta identificabile a priori e non coincidente con il mero "dato oggettivo" della soccombenza.
E' evidente poi che l'adesione a questa soluzione interpretativa comporta che all'espressione “in ogni caso”, contenuta nel terzo comma dell'art. 96 c.p.c., vada attribuito un significato diverso - o meglio più circoscritto - di quello sopra indicato.
Tali parole, infatti, vanno intese nel senso che la pronuncia di una condanna per lite temeraria è possibile a prescindere dalla sussistenza, o comunque dalla dimostrazione, di un danno per la parte vittoriosa.