Locazioni non abitative: cessazione del contratto alla prima scadenza e motivi che giustificano l'iniziativa del locatore

Alberto Celeste
22 Febbraio 2023

Il presente commento passa in rassegna i singoli (e tassativi) motivi che legittimano l'esercizio della facoltà di diniego della rinnovazione, da parte del locatore, come delineati nell'art. 29 della l. n. 392/1978: la cessazione del contratto di locazione ad uso non abitativo alla prima scadenza può avvenire, infatti, solo in presenza di specifiche situazioni, che possono raggrupparsi in due categorie fondamentali, e segnatamente la prima attinente alla destinazione - abitativa, commerciale o professionale, oppure istituzionale della pubblica amministrazione o ente pubblico - che si intende attuare nell'immobile locato (lett. a e b), e la seconda concernente le opere edilizie di particolare rilievo che si intendono eseguire nello stesso immobile (lett. c e d).
Il quadro normativo

Ai sensi dell'art. 27 della l. n. 392/1978, le locazioni non abitative hanno, di regola, durata non inferiore al sessennio, o al novennio in caso di locazione alberghiera o equiparata; a sua volta, il successivo art. 28 stabilisce, al comma 1, che il contratto si rinnova tacitamente di sei anni in sei anni, o di nove anni in nove anni per le locazioni alberghiere, ma “tale rinnovazione non ha luogo se sopravviene disdetta da comunicarsi all'altra parte”, a mezzo di lettera raccomandata, rispettivamente, almeno dodici o diciotto mesi prima della scadenza; in forza del comma 2, unicamente con riferimento alla prima scadenza contrattuale, rispettivamente, di sei e di nove anni, il locatore può esercitare (solo) “la facoltà di diniego della rinnovazione” unicamente, però, per i motivi di cui all'art. 29 con le modalità ed i termini ivi previsti.

La legge istituisce, dunque, per le locazioni non abitative, un congegno analogo a quello delle locazioni abitative, nel senso che, una volta stipulato il contratto, esso si protrae indefinitamente nel tempo, salvo che uno dei contraenti manifesti la volontà di porre fine al rapporto attraverso l'intimazione della disdetta; disdetta che, tuttavia, a differenza di quanto era previsto per le locazioni abitative nell'originaria disciplina della l. n. 392/1978 - attualmente la materia è regolata dalla l. n. 431/1998 - può essere liberamente intimata, alla prima scadenza contrattuale di sei anni o nove anni, a seconda dei casi, soltanto dal conduttore, mentre il locatore può esercitare il diniego di rinnovazione - istituto radicato nel vecchio recesso per necessità operante all'epoca del regime vincolistico di proroga e blocco - in presenza delle condizioni, e con le formalità, di cui all'art. 29.

Pertanto, quest'ultimo articolo - rubricato “Diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza” - va letto in combinato disposto, da un lato, con il precedente art. 28, laddove stabilisce, al comma 2, che, alla prima scadenza contrattuale, il locatore di un immobile destinato ad uso non abitativo può esercitare la facoltà di diniego della rinnovazione soltanto per i motivi e con le modalità e termini di cui all'art. 29, e, dall'altro, con l'art. 30, che regola la procedura giudiziale di rilascio qualora il conduttore non aderisca all'intimato diniego.

La norma de qua, poi, può dividersi in due parti: la prima parte elenca i motivi tassativi che giustificano il diniego di rinnovazione - e su questi si incentra il presente focus - mentre la seconda fissa i requisiti di contenuto e di forma della disdetta motivata mediante la quale la facoltà di diniego della rinnovazione deve essere esercitata.

La disposizione stabilisce, infine, che, se il locatore non osserva le prescrizioni concernenti contenuto e forma della disdetta motivata, il contratto di rinnova ai sensi del precedente art. 28, restando intesi che la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza, per il mancato esercizio, da parte del locatore, della facoltà di diniego di rinnovazione, ai sensi degli artt. 28 e 29, costituisce un “effetto automatico derivante direttamente dalla legge e non da una manifestazione di volontà negoziale” (così Cass. civ., sez. un., 16 maggio 2013, n. 11830).

La destinazione dell'immobile ad abitazione del locatore e dei suoi familiari

Dunque, il diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza è previsto, al comma 1, lett. a), dell'art. 29, nell'ipotesi in cui il locatore intenda adibire l'immobile “ad abitazione propria, del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta”.

Per sua natura, nella suddetta ipotesi, il diniego può essere fatto valere dal solo locatore-persona fisica, quantunque il locatore-persona giuridica (o ente di fatto) possa intendere di destinare l'immobile ad abitazione di un proprio dipendente o di un proprio socio.

Secondo alcuni, il coniuge, cui allude la norma, sarebbe anche quello divorziato: una parte della dottrina si è, infatti, mostrata favorevole ad un'estensione in tal senso, mentre, in senso opposto, si è osservato che, all'esito dello scioglimento del matrimonio, non vi è un coniuge, ma un ex coniuge (sembra che vi sia concordia, invece, nel senso che coniuge sia anche quello separato).

Discusso è, poi, se, per coniuge - sempre ai sensi della citata norma - possa intendersi anche il convivente more uxorio: il dato testuale depone in senso negativo, ma va ricordato che, proprio nella materia della locazione, si è da tempo manifestata una sostanziale equiparazione del convivente al coniuge, essendo stato ammesso il primo a succedere nel contratto di locazione abitativa, sicché la mutata considerazione sociale del rapporto familiare di fatto dovrebbe indurre alla soluzione meno restrittiva.

Dopo la legge sullo stato unico di filiazione (l. n. 219/2012), non ha più senso interrogarsi se i figli cui la norma si riferisce siano anche quelli olim naturali, legittimati e adottivi, mentre la norma de qua, includendo anche i nonni ed i nipoti ex avo, esclude i parenti collaterali e, quindi, anche i fratelli, nonché gli affini (che sono, invece, compresi nella categoria dei successibili per i contratti ad uso di abitazione).

Comunque, spetta al locatore (v., tra le altre, Cass. civ., sez. III, 28 ottobre 1992, n. 11734), in caso di contestazione, provare il rapporto di parentela che lo lega al soggetto in favore del quale è richiesto il rilascio.

Il motivo deve avere ad oggetto la destinazione dell'immobile ad uso di “abitazione primaria”, escludendo, quindi, l'adibizione ad usi secondari o voluttuari, come la seconda casa di vacanza.

Qualora la destinazione dell'immobile ad uso abitativo richieda lavori di ristrutturazione, non occorre che il locatore si munisca preventivamente del titolo eventualmente necessario all'esecuzione degli interventi edilizi; il locatore, cioè, non è tenuto a giustificare le modalità secondo cui intende attuare la destinazione prevista, ma semplicemente a comunicare un realizzabile proposito.

Sul punto, gli ermellini (Cass. civ., sez. III, 14 gennaio 1988, n. 204; Cass. civ., sez. III, 17 febbraio 1987, n. 1739) hanno chiarito che, ai sensi dell'art. 29, il possesso delle prescritte licenza o concessione costituisce una condizione dell'azione quando il rilascio dell'immobile locato sia richiesto per ricostruirlo, o ristrutturarlo, oppure restaurarlo, e non anche quando venga chiesto con la finalità di cui alla lett. a) ed occorra ristrutturare l'immobile per adattarlo alle (nuove) esigenze abitative fatte valere, sicché, in quest'ultima ipotesi, il mancato conseguimento della licenza per i necessari lavori può comportare la sopravvenuta impossibilità di destinare l'immobile all'uso per il quale è stato ottenuto il rilascio, e l'eventuale applicazione delle sanzioni previste dal successivo art. 31.

La giurisprudenza attribuisce, inoltre, rilievo all'impossibilità assoluta di destinare l'immobile ad uso abitativo in senso “giuridico”: invero, l'interesse del locatore ad esperire l'azione di recesso nel caso di cui alla lett. a) - ma anche della lett. b) - dell'art. 29 postula la possibilità giuridica del soddisfacimento dell'esigenza posta a fondamento della domanda, mediante il rilascio dell'immobile; tale interesse, pertanto, va negato quando gli strumenti urbanistici, i regolamenti locali e gli atti applicativi di questi gli precludano, in via inderogabile, la facoltà di usare del bene per la destinazione programmata, mentre va, invece, riconosciuto quando la medesima normativa, nella ricorrenza di certi requisiti e presupposti, consenta tale destinazione, sia pure previa autorizzazione in deroga a quella generalmente imposta; l'eventualità che i competenti organi del Comune rifiutino l'autorizzazione in deroga non rileva per escludere tale interesse, né per consentire una pronuncia di rilascio condizionata, ma solo per la possibilità del conduttore di agire per il successivo ripristino del rapporto locativo o il risarcimento del danno ex art. 31 (così Cass. civ., sez. III, 9 luglio 1983, n. 4646).

Tuttavia, l'assoluta impossibilità di destinazione non ricorre (ad avviso di Cass. civ., sez. III, 2 agosto 1984, n. 4611) nell'ipotesi di destinazione d'uso diversa, da quella allegata per il recesso, prevista per tale immobile dalle norme del piano regolatore generale, integranti direttive di massima inidonee, prima di ulteriore specificazione attraverso i relativi strumenti di attuazione, a creare vincoli su beni privati.

La destinazione dell'immobile all'esercizio di un'attività imprenditoriale

Ai sensi dell'art. 29, comma 1, lett. b), della l. n. 392/1978, il diniego di rinnovo è contemplato, inoltre, nell'ipotesi in cui il locatore intenda adibire l'immobile all'esercizio, in proprio o da parte del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta, di una delle attività indicate dall'art. 27, sia nell'ipotesi di inizio di una nuova attività, sia qualora l'uso dei locali serva ad ampliare un'attività già in essere (Cass. civ., sez. III, 21 gennaio 1985, n. 217; Cass. civ., sez. III, 14 luglio 1983, n. 4844).

Sebbene la suddetta lett. b) usi il termine di esercizio “in proprio”, si sostiene che ciò non voglia significare esercizio personale diretto, ben potendo il locatore avvalersi anche di collaboratori, institori, o altri preposti, purché, comunque, a lui faccia capo la responsabilità dell'esercizio o dell'attività professionale, come non è escluso che l'attività, che il locatore intende svolgere, possa essere esercitata anche in forma societaria (Cass. civ., sez. III, 2 settembre 1982, n. 4809; Cass. civ., sez. III, 6 febbraio 1982, n. 694).

Nell'ipotesi considerata, il diniego può essere esercitato anche dal locatore-persona giuridica, purché svolga una delle attività di cui all'art. 27; non è nemmeno richiesto che l'attività che si intenda intraprendere rientri nell'oggetto sociale.

Qualora il locatore sia una persona fisica, assume rilievo anche l'attività svolta all'interno di una società di persone: in tal senso, si è affermato che, ai sensi dell'art. 29, deve ritenersi del tutto equivalente la situazione di colui che eserciti, come imprenditore individuale, un'attività commerciale, rispetto a chi tale attività abbia a svolgere nella qualità di socio illimitatamente responsabile di un'impresa collettiva, dovendosi privilegiare, in proposito, in relazione agli interessi tutelati dalla norma, il dato sostanziale costituito dalla posizione del socio illimitatamente responsabile, il cui patrimonio costituisce base e supporto indispensabile per l'attività esercitata nell'àmbito societario, rispetto alla rigida distinzione tra società priva di personalità giuridica, ma centro autonomo di imputazione di rapporti, conseguendone la sussistenza del presupposto soggettivo onde negare, ex artt. 27 e 29, il rinnovo contrattuale di immobile locato per uso commerciale se il locatore manifesti l'intendimento di destinare l'immobile all'attività imprenditoriale svolta dal coniuge nella qualità di socia accomandataria (e, dunque, illimitatamente responsabile) di una società di persone (Cass. civ., sez. III, 13 ottobre 1997, n. 9954; Cass. civ., sez. III, 27 maggio 1988, n. 3629).

Al contrario, poiché nella società in accomandita semplice il compimento degli atti di amministrazione della società è riservato ai soci accomandatari, cui appartiene in modo esclusivo la determinazione della volontà sociale, il socio accomandante non è legittimato a far valere, ai fini del recesso dal contratto di locazione di un immobile adibito ad uso non abitativo, ai sensi dell'art. 29, l'intenzione della società di esercitare nell'immobile stesso la propria attività commerciale (Cass. civ., sez. III, 28 luglio 1986, n. 4824; Cass. civ., sez. III, 10 marzo 1982, n. 1547).

Secondo la dottrina, il diniego può essere esercitato anche in caso di conferimento dell'immobile in società di persone, quando ciò sia il presupposto per l'esercizio dell'attività propria: si è osservato, infatti, che la legge non richiede al locatore di rimanere proprietario del bene, laddove essa gli impone, più semplicemente, di svolgere nei locali la propria attività.

Viceversa, dovrebbe escludersi che l'immobile possa essere adibito all'esercizio dell'impresa di una società di capitali, atteso che, in tal caso, l'attività stessa farebbe capo ad un soggetto diverso dal locatore, dal suo coniuge o dai suoi parenti in linea retta (contra, Pret. Brindisi 3 novembre 1992).

In proposito, i giudici di Piazza Cavour (Cass. civ., sez. III, 29 febbraio 1988, n. 2122) considerano legittimo il diniego di rinnovo anche qualora sia strumentale ad un'attività svolta nell'impresa familiare: in particolare, costituisce valido motivo di diniego l'intenzione di destinarlo, ai sensi dell'art. 29, lett. b), all'esercizio dell'attività commerciale praticata dalla figlia del locatore in regime di impresa familiare insieme al di lei marito, ancorché titolare ne sia quest'ultimo, atteso che la disciplina dettata al riguardo dall'art. 230-bis c.c., conferendo ai familiari ed al coniuge collaboratori nell'impresa poteri direttivi e di gestione patrimoniale, consente, in presenza di idonei elementi presuntivi, di considerarli contitolari dell'impresa stessa.

Il diritto di recesso dal contratto di locazione destinato ad uso diverso dall'abitazione, contemplato dall'art. 29, lett. b), va riconosciuto, quindi, se la necessità riguardi un parente in linea retta del locatore, ancorché l'attività commerciale da trasferire nei locali chiesti in restituzione sia svolta da tale familiare del locatore nell'àmbito di un'impresa familiare senza che la licenza di esercizio sia intestata allo stesso, concretandosi, con la sua partecipazione alla gestione dell'impresa familiare e l'interesse al relativo svolgimento, la situazione protetta dal legislatore con l'attribuzione del diritto di recesso (Cass. civ., sez. III, 19 aprile 1990, n. 3238).

Quanto all'associazione in partecipazione, poiché qui la titolarità di tutti i rapporti che si incentrano nell'azienda appartiene all'associante, mentre l'associato vi rimane estraneo, il diritto di denegare il rinnovo potrà configurarsi (ad avviso di Pret. Genova 1° marzo 1982) soltanto ove l'associante si identifichi in uno dei soggetti menzionati dall'art. 29, lett. b).

Riguardo al dubbio se la società sia legittimata ad intimare il diniego di rinnovazione prospettando l'uso che dell'immobile locato debba fare il socio, la giurisprudenza (Cass. civ., sez. III, 28 giugno 1997, n. 5802; Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 1990, n. 335) ha affermato che la facoltà di diniego del rinnovo del contratto alla prima scadenza può esser fatta valere da una società di persone per la necessità di destinare l'immobile all'esercizio di un'attività di un socio che sia compresa nell'oggetto sociale poiché, non essendo l'attività imprenditoriale di detta società - priva di personalità giuridica ancorché dotata di autonomia patrimoniale - imputabile ad un soggetto distinto dal singolo socio, la destinazione dell'immobile a quella determinata attività si pone come una necessità del socio, non individualmente considerato, ma quale membro della società, con conseguente coincidenza dell'interesse della società e del socio ad ottenere la disponibilità dell'immobile.

Anche nel caso della destinazione dell'immobile ad una delle attività di cui all'art. 27 rileva l'assoluta impossibilità giuridica di destinare l'immobile all'uso voluto: peraltro, il diniego di rinnovo alla prima scadenza, per l'intenzione del locatore di destinare l'immobile all'esercizio della propria attività commerciale, non è ostacolato dalla mancanza di elementi di carattere amministrativo - quali l'autorizzazione all'esercizio della nuova attività o l'iscrizione alla camera di commercio - i quali, oltre a presupporre, nella generalità dei casi, la raggiunta disponibilità dei locali, non possono incidere nell'àmbito della disciplina del rapporto privatistico della locazione, stante la loro attinenza alla normativa pubblicistica (Cass. civ., sez. III, 18 gennaio 2002, n. 537; Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 1999, n. 463; Cass. civ., sez. III, 22 maggio 1997, n. 4568).

Egualmente, non impedisce (secondo Trib. Napoli 1° ottobre 1991) l'accoglimento della domanda la circostanza per cui il locatore non abbia assolto ad incombenti amministrativi previsti per l'attuazione del proposito manifestato.

Rileva, invece, l'esistenza di una situazione ostativa, in senso assoluto, all'esercizio dell'attività: ad esempio, nel giudizio di diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza per l'intenzione del locatore di adibire l'immobile locato ad esercizio della propria attività commerciale, il giudice, di fronte all'eccezione del convenuto di impossibilità giuridica della progettata destinazione perché vietata dal piano di sviluppo comunale previsto dall'art. 11 della l. n. 426/1971 (applicabile anche nel caso di trasferimento di un esercizio già esistente), sia in ordine all'insufficiente ampiezza dei locali, sia riguardo al divieto di nuove autorizzazioni nella zona in cui è ubicato l'immobile locato, deve verificare la sussistenza o meno di tali circostanze obiettivamente impeditive dell'attività commerciale progettata dal locatore; e ciò perché, ove tali impedimenti risultino sussistenti, viene meno il diritto del locatore di far cessare la locazione alla prima scadenza per la dedotta necessità di esercitare ivi l'attività commerciale (Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 1991, n. 1808).

Nella stessa prospettiva, non è stata accolta la domanda del locatore nell'ipotesi in cui esista una normativa, anche solo comunale, che escluda in modo assoluto la destinazione dell'immobile all'esercizio dell'attività indicata; in questa ipotesi, il diritto di recesso del locatore previsto dalla l. n. 392/1978 dovrebbe essere escluso in presenza di strumenti urbanistici che impediscano inderogabilmente la destinazione prospettata, senza che rilevi la previsione dell'art. 31 - il quale consente al conduttore di agire per il ripristino del contratto ove all'immobile non sia data la dedotta destinazione - riguardando essa situazioni successive alla cessazione della locazione (Cass. civ., sez. III, 23 novembre 1987, n. 8608).

Occorre solo aggiungere che non rileva la difformità della destinazione menzionata nel diniego di rinnovo rispetto a quella prevista nel piano regolatore generale, posto che quest'ultimo contiene delle prescrizioni di massima prive di valore vincolante per i privati (Cass. n. 4611/1984, cit.); il diniego è, poi, legittimo in presenza di una normativa urbanistica che consenta l'uso prospettato, seppure a mezzo di autorizzazione in deroga (Cass. n. 4646/1983, cit.).

In ordine alle autorizzazioni amministrative richieste per i lavori che il locatore debba eseguire per rendere l'immobile idoneo all'attività - industriale, commerciale, artigianale o professionale - che vuole intraprendere, i magistrati del Palazzaccio (Cass. civ., sez. III, 21 maggio 1997, n. 4518; Cass. civ., sez. III, 24 marzo 1995, n. 3421) hanno statuito che, se il locatore, per utilizzare l'immobile, debba eseguire lavori di ristrutturazione e trasformazione, non costituiscono condizioni necessarie dell'azione di rilascio né il possesso della prescritta concessione edilizia per l'esecuzione di tali opere, né il rilascio dell'autorizzazione amministrativa per il mutamento della destinazione d'uso, salvo che la disciplina urbanistica precluda, in modo inderogabile, l'adozione dei predetti provvedimenti, così da rendere impossibile l'attuazione della nuova destinazione.

Neppure vale ad integrare (ad avviso di Cass. civ., sez. III, 5 aprile 1995, n. 4003) un caso di impossibilità giuridica “assoluta” il vincolo ostativo alla progettata destinazione che sia impresso da una variante al piano regolatore adottata, ma non ancora approvata, malgrado la previsione di misure di salvaguardia, considerato che, in tal caso, l'impossibilità di realizzazione delle opere o del mutamento di destinazione è transitoria e suscettibile di venir meno per effetto della mancata approvazione della variante.

La destinazione dell'immobile all'esercizio di attività con finalità istituzionali degli enti pubblici

Il diniego di rinnovo può essere intimato, sempre ai sensi della lett. b), seconda parte,del comma 1 dell'art. 29 della l. n. 392/1978, anche nell'ipotesi in cui pubbliche amministrazioni, enti pubblici o di diritto pubblico - distinzione, quest'ultima, in pratica equivalente - vogliano esercitare, all'interno dell'immobile, attività che siano tendenti al conseguimento delle loro finalità istituzionali.

Si è osservato, in proposito, che il potere di diniego di questi soggetti è conferito per una finalità assai ampia, non strettamente identificabile con le attività istituzionali, ma per qualsiasi attività “tendente” al conseguimento delle finalità istituzionali (non nascondendosi che ciò potrebbe dar luogo ad abusi).

Non possono, tuttavia, esercitare il diniego le associazioni private portatrici di interessi collettivi, come i partiti e i sindacati: sul punto, gli ermellini (Cass. civ., sez. III, 26 aprile 1985, n. 2727;Cass. civ., sez. III, 17 ottobre 1985, n. 5118) hanno ritenuto manifestamente infondata - per pretesa violazione degli artt. 2 e 3 Cost. - la questione di legittimità costituzionale del citato art. 29, lett. b), in quanto la diversità di regolamentazione del diniego della rinnovazione del contratto alla prima scadenza, ammesso solo se la qualità del locatore sia rivestita da pubbliche amministrazioni e non pure da associazioni private che perseguono finalità collettive, si spiega perché l'una categoria è portatrice di interessi collettivi che realizza in modo esclusivo, mentre l'altra persegue interessi di parte, anche se talvolta non egoistici.

Egualmente, stante il dato letterale della disposizione - P.A., enti pubblici o di diritto pubblico - che, con la sua tassatività, evidenzia il carattere eccezionale e, quindi, l'impossibilità di estendere ad altri soggetti tale legittimazione, non sono ricompresi (secondo Cass. civ., sez. III, 27 luglio 1993, n. 8380) nella previsione de qua gli enti con scopi di assistenza e beneficenza, anche di origine religiosa i quali, non essendo di diretta creazione statale, hanno natura di enti privati.

Non è richiesto, comunque, che l'esigenza del locatore, relativa allo svolgimento di attività rientranti nelle proprie finalità istituzionali, abbia carattere di definitività (Cass. civ., sez. III, 3 marzo 1989, n. 1194).

Resta fermo (ad avviso di Cass. civ., sez. III, 4 maggio 1993, n. 5150) che la comunicazione del diniego della rinnovazione del contratto ai sensi dell'art. 29, lett. b), qualora il locatore, trattandosi di una P.A. o di un ente pubblico (sia esso economico o non economico) o di diritto pubblico, intenda adibire l'immobile all'esercizio di attività tendenti al conseguimento delle sue finalità istituzionali, non può limitarsi ad un generico richiamo dei fini istituzionali dell'ente, ma deve specificare, ai sensi del penultimo comma dell'art. 29 citato, la concreta attività da svolgere nell'immobile, perché, anche per le locazioni degli immobili della P.A., il conduttore ed il giudice debbono essere posti in grado di verificare la serietà e l'attuabilità dell'intenzione indicata nonché, in sede contenziosa, di verificare la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento del diritto di diniego del rinnovo, oltre che rendere possibile il successivo controllo sull'effettiva destinazione dell'immobile all'uso indicato, in caso di richiesta di applicazione delle misure sanzionatorie previste dall'art. 31.

La necessità di eseguire interventi edilizi nell'immobile locato

Il diniego di rinnovo, ai sensi delle lett. c) e d) del comma 1 dell'art. 29 della l. n. 392/1978 - che attengono a situazioni obbiettive riguardanti solo l'immobile locato - può essere intimato in vista dell'esecuzione, sullo stesso, di opere consistenti in demolizione ai fini della ricostruzione, nell'integrale ristrutturazione o nel completo restauro; il diritto del locatore a riottenere la disponibilità del bene si configura qualora egli intenda eseguire un intervento sulla base di un programma pluriennale di attuazione o ristrutturare l'immobile al fine di rendere la superficie dei locali adibiti alla vendita conforme a quanto previsto dall'art. 12 della l. n. 426/1971.

Al riguardo, si è avuto modo di evidenziare il particolare momento in cui la l. n. 392/1978 è stata discussa e approvata, che vedeva, all'esame del Parlamento, anche il provvedimento sull'edilizia residenziale, e registrava un certo invecchiamento del patrimonio edilizio esistente e la ricerca di strumenti per sollecitare i proprietari ad interventi conservativi su di esso, per cui il buon funzionamento di taluni similari istituti della normativa vincolistica hanno sollecitato il legislatore a valorizzare una tale finalità; in questa prospettiva, in tema di determinazione dell'equo canone degli immobili adibiti a uso di abitazione, è stato stabilito l'azzeramento del coefficiente della vetustà (che indica proprio l'invecchiamento dell'immobile) in caso di interventi di integrale ristrutturazione o di completo restauro (art. 20); inoltre, questi, o altri, interventi sono stati posti a base della facoltà del locatore di recedere dai contratti in corso (sia con riferimento agli immobili destinati ad uso di abitazione ex art. 59, che a quelli non abitativi), oppure - per quel che qui interessa - per denegare il rinnovo del contratto alla prima scadenza.

Ai fini del diniego di rinnovo, rilevano i lavori edilizi concernenti la sola unità immobiliare locata, e non necessariamente l'intero edificio in cui esso si trova situato, come è ben possibile che vi sia un'indipendenza funzionale del singolo immobile locato dall'edificio di cui fa parte.

Ciò è reso evidente, innanzitutto, dalla lettera della legge, che usa la dizione “immobile” e non quella di “edificio”, termini che il legislatore del 1978 mostra, peraltro, di adoperare in un ben preciso significato, tant'è che, a proposito dell'analoga situazione (sia pure di diritto transitorio) disciplinata dall'art. 59, n. 3), della l. n. 392/1978, parla di “immobile locato [...] compreso in un edificio gravemente danneggiato”.

Inoltre, anche l'integrale ristrutturazione o il completo restauro del singolo immobile possono essere impediti dalla permanenza in esso del conduttore (per alcune applicazioni dei suesposti principi, v. Cass. civ., sez. III, 22 marzo 1995, n. 3266; Cass. civ., sez. III, 15 gennaio 1991, n. 296; Cass. civ., sez. III, 17 maggio 1985, n. 3018; Cass. civ., sez. III, 3 settembre 1984, n. 4740; Cass. civ., sez. III, 21 luglio 1983, n. 5021).

Si osserva, altresì, che il conduttore non può paralizzare l'avversa azione sull'assunto che gli aggettivi “completo” e “integrale” - riferiti, rispettivamente, al restauro ed alla ristrutturazione - dovrebbero necessariamente coinvolgere l'intero edificio per essere apprezzabili ai fini che qui interessano; del pari, il locatore non può esercitare la facoltà di diniego di rinnovo se i lavori, pur investendo in maniera più o meno massiccia l'edificio in cui l'immobile locato si trova, non coinvolgano necessariamente quest'ultimo.

Né è richiesto, ai fini del diniego di rinnovo, che la permanenza del conduttore all'interno di un immobile non interessato alle opere edilizie, comporti un disagio per il locatore: e cioè l'intervento edilizio deve riguardare l'immobile oggetto del contratto, a nulla rilevando che i progettati lavori interessino altre parti dell'edificio in cui detto immobile è situato, o che per la loro esecuzione il locatore abbia a subire un aggravio di spesa in conseguenza della permanenza del conduttore nello stesso, venendo quest'ultima situazione in rilievo solo nella diversa ipotesi, prevista dalla lett. d) del medesimo art. 29 (Cass. civ., sez. III, 14 maggio 1984, n. 2929).

Orbene, ai fini della differenziazione delle tipologie dei vari interventi edilizi, con particolare riguardo alla distinzione tra ristrutturazione e restauro, da un lato, e manutenzione, dall'altro, è stato attribuito primario rilievo a quanto stabilito dall'art. 31 della l. n. 457/1978, che, nelle definizioni degli interventi edilizi, ha carattere di norma generale e fondamentale in considerazione della sua collocazione tra le “norme generali per il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico esistente”, nonché del disposto dell'ultimo comma dello stesso articolo per il quale le definizioni in questione prevalgono “sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi” (fattispecie concrete sono state esaminate da Cass. civ., sez. III, 14 giugno 1988, n. 4033; Cass. civ., sez. III, 7 ottobre 1985, n. 4849; Cass. n. 3018/1985, cit.; Cass. civ., sez. III, 11 dicembre 1984, n. 6508; Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 1984, n. 403; Cass. n. 5021/1983, cit.).

Compete, comunque, al giudice la qualificazione delle opere giustificative del diniego: come osservato dalla Suprema Corte, l'art. 29, lett. c), prevede l'intenzione del locatore di effettuare lavori di un certo rilievo, specificati nell'integrale ristrutturazione, nel completo restauro, ecc., sicché, allorché l'attore agisca sul presupposto di dover eseguire degli interventi edilizi, il thema della lite viene ad incentrarsi sulla loro idoneità ad essere attratti in una delle suddette categorie, legittimanti il diniego, senza che la qualificazione che la parte ne abbia dato, in ipotesi in maniera errata, escluda il potere del giudice di inquadrarli nell'esatta categoria e pronunciare, di conseguenza, sulla domanda (Cass. n. 4740/1984, cit.).

Né la legittimità del diniego di rinnovo rimane influenzata dalla sussunzione delle opere edilizie che il locatore intende realizzare, nella disdetta motivata, in una categoria giuridica inappropriata (Pret. Benevento 20 marzo 1990).

A ben vedere, il successivo art. 31 della l. n. 392/1978 non menziona, tra i vari interventi di recupero dell'esistente patrimonio immobiliare, la demolizione e successiva ricostruzione dell'edificio: infatti, ai sensi dell'art. 29, lett. c), la ricostruzione dell'edificio, previa demolizione, comporta la cessazione dell'oggetto del rapporto, generato dal contratto di locazione, che è sostituito da un bene diverso, ancorché riproduca la struttura di quello demolito (Cass. civ., sez. III, 19 ottobre 1982, n. 5452).

Secondo la magistratura di vertice (Cass. civ., sez. III, 29 novembre 1990, n. 11496), tenuto conto della ratio legis, volta a consentire al locatore di un immobile urbano destinato ad uso diverso da quello di abitazione una diversa utilizzazione o un migliore godimento dell'immobile, il recesso di cui all'art. 29, lett. c), trova applicazione anche se il locatore di un terreno inedificato, sul quale il conduttore abbia costruito un immobile, intenda costruire un nuovo immobile previa demolizione di quello esistente, ferma restando l'applicazione della disciplina, tuttora vigente, sui miglioramenti e sulle addizioni dettata dagli artt. 1592 e 1593 c.c.

Nel distinguere, poi, gli interventi di integrale ristrutturazione e completo restauro, i giudici di legittimità (Cass. n. 5452/1982, cit.), inizialmente, hanno stabilito che l'integrale ristrutturazione comporta, come risultato, la modificazione della struttura dell'edificio, che viene ad assumere un diverso modo d'essere e, perciò, il sorgere di un quid novi; il completo restauro, in particolare, comporta il ripristino dell'edificio nel suo modo di essere originario, attraverso il quasi integrale rifacimento delle parti distrutte o deteriorate e l'eliminazione di aggiunzioni sovrapposte.

In seguito, si è chiarito che rientrano, nella nozione di integrale ristrutturazione - distinta dalla manutenzione straordinaria, avente finalità solo conservative - gli interventi che comportano, come risultato, la modificazione della struttura dell'immobile, che viene a costituire “un'entità ontologicamente o qualitativamente diversa da quella precedente” (così Cass. civ., sez. III, 10 giugno 1987, n. 5058).

E si è aggiunto (da parte di Cass. civ., sez. III, 12 agosto 1988, n. 4934) che il completo restauro consiste in un intervento caratterizzato da un insieme sistematico di opere, tra loro coordinate ed effettuate in una visione di compiutezza su una pluralità di parti dell'immobile, sì da conferire a questo, pur nel rispetto dei suoi elementi tipologici, formali e strutturali, una nuova identità, o comunque un quid novi che, appunto, presenti l'immobile come ontologicamente e qualitativamente diverso da quello precedente.

Il concetto di quid novi, che connota anche i lavori di ricostruzione, attesa la maggiore estensione dell'intervento in questa ipotesi attuato, comporta l'assimilazione delle diverse fattispecie prese in considerazione dal legislatore: infatti, nelle differenti ipotesi della ristrutturazione, della ricostruzione e del restauro, rileva la diversità ontologica o qualitativa tra il prima ed il dopo, graduata in dipendenza del tipo dei lavori: così il restauro mira a riportare a nuovo l'immobile, mentre le prime due ipotesi realizzano, oggettivamente, un qualcosa di diverso (nel modo di essere per la ristrutturazione, e nella sua entità in ipotesi di ricostruzione previa demolizione).

Ne consegue che il completo restauro comprende i lavori diretti a realizzare la conservazione e la funzionalità dell'immobile nel rispetto degli elementi tipologici e strutturali di esso, quali il consolidamento, il ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi, l'inserimento di impianti richiesti dalle esigenze di uso e l'eliminazione di elementi estranei alla fisionomia architettonica dell'edificio (Cass. n. 3018/1985, cit.).

L'integrale ristrutturazione può implicare, oltre che il rifacimento o rafforzamento degli elementi essenziali dell'immobile, anche i casi di modificazione e trasformazione, che lo interessino nella sua totalità e si traducano nella realizzazione, dal punto di vista qualitativo, di un'entità del tutto diversa da quella preesistente (Cass. n. 3266/1995, cit.; Cass. civ., sez. III, 9 maggio 1986, n. 3098).

È da escludere, comunque, che ristrutturazione e restauro presuppongano la demolizione, anche parziale, dell'immobile: invero, il legislatore ha parlato di demolizione in contrapposto alla ricostruzione, separando nettamente gli altri due concetti di ristrutturazione e di restauro che - se pur ammettono possibilità di demolizione parziale - non la presuppongono, avendo per loro fine la conservazione dell'esistente (Pret. Savona 29 settembre 1979); ad ogni buon conto, non sembra necessario che si agisca sulle strutture fondamentali della cosa locata (Cass. n. 3266/1995, cit.; Cass. n. 4934/1988, cit.).

Stante che l'integrale ristrutturazione ed il completo restauro richiedono la modificazione ontologica o qualitativa del bene locato, la Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 29 novembre 1995, n. 12397) ha qualificato come riparazioni straordinarie le opere consistenti in “rifacimento globale di pavimentazioni, intonaci, servizi igienici, infissi e rifacimento copertura”, dovendosi escludere che tale attività edilizia, pur sempre di natura conservativa ancorché consistente e migliorativa, abbia arrecato modificazioni alla struttura dell'immobile così da far assumere a questo una nuova identità, un diverso modo di essere, ponendosi come un quid novi; situazione che si sarebbe verificata, ad esempio, se i lavori avessero determinato, con l'abbattimento delle tramezzature o l'inserimento di ulteriori elementi, una diversa distribuzione dei locali interni o l'aggiunta di uno o più vani.

Anche tali interventi devono presentare, peraltro, una loro sistematicità e compiutezza, sicché è da escludere, ad esempio, che possa farsi rientrare, nella fattispecie prevista dalla legge, la mera unificazione di locali contigui (Cass. civ., sez. III, 3 settembre 1985, n. 4581); parimenti, si è escluso (secondo Cass. civ., sez. III, 25 gennaio 1991, n. 758) che l'integrale ristrutturazione ed il completo restauro possano consistere nella costruzione di un bagno, nell'installazione di un impianto di riscaldamento e di un citofono.

Riguardo ai lavori di manutenzione, la dottrina ha osservato che quest'ultima, sia ordinaria sia straordinaria, è attività intesa alla conservazione dell'edificio, per impedirne il deterioramento o per riparare un deterioramento verificatosi; e la distinzione tra manutenzione ordinaria e manutenzione straordinaria dipende dalla consistenza delle opere da eseguire, se normali (nel senso di ordinaria e periodica ricorrenza) o eccedenti la normalità, e dall'entità della spesa; perciò, trattandosi pur sempre di attività edilizia di conservazione, non ne risulta un quid ontologicamente o qualitativamente diverso.

Del resto, non può ammettersi che l'inerzia del locatore ai propri obblighi contrattuali - tra i quali è certamente compresa la manutenzione straordinaria dell'immobile, pena altrimenti lo snaturarsi del contratto di locazione - si traduca in un vantaggio del medesimo soggetto.

In giurisprudenza (v., tra le altre, Cass. n. 4934/1988, cit.), è pure costantemente affermato che gli interventi di manutenzione straordinaria difettano delle connotazioni - di sistematicità, di compiutezza e di idoneità a dar vita al “nuovo” - che, appunto, sono proprie delle opere di completo restauro ed integrale ristrutturazione, onde non possono essere assimilati all'una o all'altra fattispecie, conseguendone che gli interventi di manutenzione straordinaria, i quali non danno luogo alla facoltà di recesso, pur consistendo, in genere, in opere di una certa consistenza dirette a rinnovare e sostituire parti anche strutturali dell'immobile, si concretano in un'attività edilizia di conservazione, che non comporta una modificazione ontologica di risultato rispetto a ciò che preesisteva, né, in relazione all'estensione dell'intervento, una diversità qualitativa dell'immobile.

Completando l'analisi, l'art. 29 consente, altresì, di denegare il rinnovo, alla lett. c), qualora il locatore intenda eseguire sull'immobile un intervento sulla base di un “programma pluriennale di attuazione ai sensi delle leggi vigenti”, nonché, alla lett. d), nel caso in cui intenda ristrutturare l'immobile per adeguarlo alle previsioni della normativa di settore in tema di distribuzione, richiamando, a tal fine, l'art. 12 della l. n. 426/1971, oggi abrogata in forza dell'art. 26, comma 6, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114, sulla riforma della disciplina del commercio (c.d. decreto Bersani).

In conclusione

Per completezza, riguardo alla diversa tipologia locatizia avente ad oggetto gli “immobili adibiti all'esercizio di albergo, pensione o locanda” (anche se ammobiliati), il comma 2 dell'art. 29 della l. n. 392/1978 stabilisce che il locatore possa denegare la rinnovazione del contratto nelle ipotesi previste dall'art. 7 della l. n. 191/1963, modificato dall'art. 4-bis del d.l. n. 460/1967, convertito, con modificazioni, nella l. n. 628/1967, se l'immobile sia oggetto di intervento sulla base di un “programma pluriennale di attuazione”.

In buona sostanza, è consentito al locatore di ottenere anticipatamente la disponibilità dell'immobile purchè si riproponga di ricostruire quest'ultimo, ferma restando la destinazione alberghiera, e di apportarvi notevoli migliorie che ne aumentino la capienza recettiva o che, comunque, ne comportino un passaggio dell'azienda in una categoria superiore.

La ratio della norma è stata individuata nel fatto che, per questo tipo di attività, non una qualsiasi opera edilizia sull'immobile può giustificare, da parte del locatore, l'esercizio del diniego del rinnovo alla prima scadenza contrattuale, ma solo quegli interventi che rivestano i caratteri indicati nelle summenzionate disposizioni, e che siano finalizzati ad un'attività edilizia innovativa (ricostruzione) e migliorativa dell'immobile, di modo che il contributo che la nuova entità immobiliare apporti all'attività turistica sia concreto e di dimensioni tali da giustificare la compressione del diritto del conduttore all'intera durata contrattuale della locazione de qua.

È previsto che il locatore possa, altresì, intimare disdetta ove nell'immobile egli intenda esercitare personalmente, o farvi esercitare dal coniuge o dai parenti entro il secondo grado in linea retta, la “medesima attività del conduttore”, osservate le disposizioni di cui all'art. 5 della l. n. 191/1963, come sopra modificato (ricordando che tale legge è stata abrogata dall'art. 24 del d.l. n. 112/2008, convertito con modificazioni dalla l. n. 133/2008).

Riguardo, poi, al caso dell'esercizio dell'attività alberghiera da parte del locatore o dei suoi parenti non occorrono particolari approfondimenti, potendosi richiamare i rilievi svolti supra con riferimento all'ipotesi di cui alla lett. b) dell'art. 29.

Sul presupposto della natura speciale del comma 2 rispetto al comma 1, contenente una regolamentazione autonoma per gli immobili adibiti ad attività alberghiere, va considerata esclusa, ad esempio, l'ipotesi di cui alla lett. a) (così espressamente Cass. civ., sez. III, 8 maggio 2015, n. 9286): invero, riguardo a tali locazioni alberghiere, sono invocabili unicamente le ipotesi di recesso come sopra elencate ed indicate specificamente nel comma 2 dell'art. 29; va ricordato che già il giudice delle leggi (Corte Cost. 21 gennaio 1988, n. 63) aveva ritenuto “manifestatamente infondata” la questione di legittimità costituzionale dell'art. 29, nella parte in cui, riguardo alle locazioni alberghiere, limitano la facoltà del locatore di impedire la rinnovazione alla prima scadenza alle sole ipotesi previste dal comma 2, in riferimento agli artt. 3, 41 e 35 Cost.

In quest'ottica, il locatore non potrebbe recedere adducendo la necessità di adibire l'immobile ad abitazione propria o dei congiunti, o di destinare l'immobile all'esercizio di una delle attività di cui all'art. 27 diverse da quella alberghiera (Cass. civ., sez. III, 12 agosto 1991, n. 8789; Cass. civ., sez. III, 17 dicembre 1990, n, 11954; Cass. civ., sez. III, 13 maggio 1989, n. 2206; Cass. civ., sez. III, 27 settembre 1998, n. 5259).

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