Niente tentativo per il reato di mercato di voto (o forse si?)

23 Febbraio 2023

La decisione della Corte di cassazione verte sul tema della (non) rilevanza penale del tentativo nel delitto di mercato di voto ex art. 233 LF (e, oggi, ex art. 339 CCII), laddove la proposta proveniente da una delle parti rimanga non accolta dall'altra, neppure in termini di avvio di una trattativa. Chiarisce la Corte, tuttavia, che ciò non vale ad escludere in toto la configurabilità della fattispecie tentata del reato in discorso.
La massima

La fattispecie delittuosa di cui all'art. 233 l. fall. è lato sensu riconducibile alla categoria della corruzione sicché ove - come nel caso di specie - la condotta si è esaurita nella proposta di una delle parti integrante al più un'istigazione, essa, in mancanza di una disposizione, nell'ambito in questione, speculare a quella di cui all'art. 322 c.p. o al novellato art. 2635 c.c., rimane non punibile.



Il caso

In secondo grado, la Corte di appello, modificando radicalmente la decisione di primo grado, condannava per il delitto tentato di mercato di voto l'amministratore di una società creditrice di altra persona giuridica che aveva in precedenza presentato istanza di concordato preventivo. In particolare, l'imputato avrebbe prospettato ad un altro creditore della società in stato di insolvenza il pagamento di euro 1.000.000,00 per esprimere parere favorevole al concordato preventivo presentato dalla prima. Posto che la proposta corruttiva, ritenuta indiscussa dai giudici di merito, non era stata accettata dall'altro soggetto, i fatti sopra descritti sono stati qualificati dalla Corte d'appello come tentativo di mercato di voto.

In sede di Cassazione si censurava la decisione – per quanto di interesse in questa sede – nella parte in cui aveva erroneamente ritenuto integrato il tentativo di mercato di voto in assenza di trattative bilaterali. In particolare, si evidenziava che la fattispecie di cui agli artt. 233 e 236, comma 2, n. 4) l. fall., prevede, al pari delle fattispecie di corruzione, una struttura bilaterale a concorso necessario, in cui il creditore e il fallito (o altri, nell'interesse del fallito) devono accordarsi e stipulare vantaggi in favore del creditore quale contropartita dell'espressione del voto favorevole di quest'ultimo alla proposta di concordato. Ed invero, la compresenza di almeno due soggetti in concorso è richiesta dalla norma incriminatrice, come elemento costitutivo della fattispecie, la quale, pertanto, non può essere realizzata da una sola persona. Si rileva che tale peculiarità permea qualunque forma di manifestazione del reato, compreso il tentativo, nell'ambito del quale è requisito imprescindibile un comportamento tenuto da entrambi i soggetti, in assenza di una specifica norma di legge che attribuisca rilevanza penale a condotte unilaterali. In quest'ottica, la fattispecie tentata del delitto di mercato di voto è ammissibile unicamente nel caso in cui sussistano atti idonei diretti in modo non equivoco alla commissione del delitto (ad esempio, l'aver intrattenuto tra le parti una serie di trattative circa un possibile accordo), tenuti da entrambi i soggetti, concorrenti necessari del reato. Di conseguenza la sola proposta del creditore, non accettata dal debitore, è riconducibile alla fattispecie dell'istigazione, non accolta, che ai sensi dell'art. 115 cod. pen. non è punibile.

Ciò posto, ad avviso della difesa, nel caso in esame, le stesse modalità con le quali, secondo la ricostruzione della Corte di appello, sarebbero avvenuti gli incontri fra il proponente la proposta “corruttiva” ed il destinatario della stessa (che vi avrebbe partecipato con un registratore in tasca allo scopo di documentare le dichiarazioni dei partecipanti alle riunioni, poi denunciando l'offerta ricevuta) avrebbero svelato in maniera univoca come non vi fosse mai stata alcuna intenzione di instaurare trattative per giungere a un accordo illecito.

Una conferma a tale impostazione sarebbe derivata dal quadro normativo e giurisprudenziale che regola il delitto del mercato di voto, in cui manca una norma simile a quella contenuta nell'art. 322 cod. pen. che prevede e punisce la fattispecie di istigazione in relazione ai reati di corruzione, caso eccezionale che consente di punire anche l'istigatore che non ottenga la partecipazione del concorrente necessario. A sostegno si richiamava la giurisprudenza di legittimità riguardo alla distinzione tracciata, ancorché in tema di corruzione, tra le iniziative unilaterali, difficilmente riconducibili allo schema del tentativo, e le trattative bilaterali, punibili ex art. 56 cod. pen. in quanto situazioni in cui entrambi i protagonisti del rapporto pongono in essere una trattativa, svolgendo un ruolo attivo, ma questa fallisce. Alla luce della richiamata disamina dell'art. 322 cod. pen., si rimarcava l'assenza di una norma analoga prevista in tema di mercato di voto; assenza che avrebbe comportato la non punibilità dell'iniziativa infruttuosa del creditore, alla stregua di quanto disposto dall'art. 115 cod. pen..

A riprova dell'irrilevanza nei termini affermati in appello del comportamento del ricorrente quale tentativo di mercato di voto, la Corte di merito non avrebbe considerato nemmeno che la contestazione di un tentativo di mercato di voto avrebbe richiesto l'esercizio dell'azione penale, non solo nei confronti del ricorrente, ma anche del destinatario della proposta corruttiva quale concorrente necessario, al quale di contro non è stato riconosciuto nessun profilo di responsabilità dato il suo rifiuto di avviare alcuna trattativa.



La questione

Il reato di mercato di voto – originariamente disciplinato dall'art. 233 R.D. n. 267 del 1942 ed oggi dall'art. 339 del d.lgs. n. 14 del 2019 – tutela la regolarità della procedura concorsuale tendendo a prevenire condotte di inquinamento delle operazioni di voto ed è ravvisabile anche nei casi in cui il comitato dei creditori è chiamato a deliberare, anche in seno al concordato preventivo e fallimentare, ma non in altre ipotesi concordatarie non disciplinate dalla legge fallimentare (LO CASCIO, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Milano, 2007, 1346; BRICHETTI, MUCCIARELLI, SANDRELLI, Disposizioni penali, in Il nuovo diritto fallimentare, a cura di A. Jorio, Torino, 2010, 834).

È un delitto necessariamente plurisoggettivo, che richiama la struttura della corruzione, la cui condotta prevede la stipulazione di vantaggi indebiti estranei alla fisiologia concordataria (BELLÈ, Convenienza e legittimità delle soluzioni concordatarie, in Fall., 2012, 511), anche se non pregiudizievoli per l'asse fallimentare finalizzati ad indurre il creditore a “dare il voto”. La consumazione si riscontra nell'accordo di pattuizione o promessa (indipendentemente dall'espressione del voto o dalla esecuzione delle intese) ed è ammessa la forma tentata. In assenza di ulteriori specificazioni quanto alle modalità della condotta, la quale si connota col raggiungimento dell'accordo insito nella «stipula», rimane evidente la struttura consensuale e bilaterale del reato, che si perfeziona quindi con la consacrazione del patto illecito tra i privati

Quanto al tempo di commissione del reato, la norma evidentemente richiede che l'accordo che perfeziona il delitto intervenga in un momento antecedente la votazione; tuttavia, alcuni autori sostengono che il reato sussista anche allorquando l'intesa sia finalizzata ad ottenere la revoca - ovviamente validamente esperibile - di un voto già in precedenza espresso.

È necessario che l'accordo fra creditore e fallito abbia ad oggetto esclusivamente il voto del primo, essendo irrilevante, sotto il profilo della disposizione, una convenzione, inerente, ad esempio, l'impegno del creditore a desistere dall'insinuazione, a rendersi assuntore del concordato o a cedere il credito, quand'anche la cessione si concreti in un vantaggio per il cedente ed il cessionario sia persona disposta a favorire il fallito; è invece controversa la rilevanza penale di accordi volti ad ottenere la rinuncia all'opposizione al concordato, anche se la dottrina è prevalentemente orientata in senso favorevole, anche se diversi autori giustamente evidenziano come la disposizione sanzionatoria in parola riguardi solo la compravendita di voto, ma non consideri l'ipotesi del “non voto” (SANDRELLI, Responsabilità penale della banca nella gestione stragiudiziale dell'insolvenza, in Fall., 1997, 555).

Come soggetti attivi del reato, vengono indicati il creditore ed il fallito, ovvero soggetti che abbiano contrattato con il creditore nell'interesse del fallito.

Quanto ai creditori, l'espressione indica solo quanti, avendo un credito nei confronti del fallito, si siano insinuati nella procedura e quindi siano divenuti creditori del fallimento; di conseguenza, non sarà punibile il fallito che prometta vantaggi al suo creditore affinché questi non si insinui nel fallimento. Occorre inoltre che il singolo creditore sia in grado, giuridicamente, di esprimere il proprio voto, mentre ogni eventuale impedimento ex lege porterà ad un'aprioristica esclusione del soggetto dal novero dei destinatari del precetto.

Quanto alla possibilità di applicare la disposizione in discorso anche a quanti rivestano la qualifica di creditori nell'ambito di procedure diverse da quella fallimentare, è pacifica, secondo quanto dispone l'art. 341, commi 2 e 3, d.lgs. n. 14 del 2019, la rilevanza penale della condotta in discorso nell'ambito del concordato preventivo, degli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa o di convenzione di moratoria, nonché nel caso di omologa di accordi di ristrutturazione ai sensi dell'art. 63, comma 2-bis, d.lgs. n. 14 del 2019.

In relazione alla posizione del fallito – e di quanti contrattino per conto dello stesso – la dottrina si pone problematicamente con riferimento alla possibilità di applicare la disposizione in esame nell'ambito di procedure diverse da quella fallimentare, posto che, per l'appunto, agli imprenditori insolventi che vengono sottoposti a procedure concorsuali diverse da quella fallimentare non compete certo la qualifica di “fallito”. Voci autorevoli, però, ritengono di poter in qualche modo aggirare tale difficoltà, estendendo la portata della previsione in parola anche nelle ipotesi ora considerate, sostenendo, da un lato, la preoccupante potenzialità lesiva di tutti i soggetti coinvolti nelle procedure de quibus e, dall'altro, evidenziando come, anche non volendo qualificare i soggetti sottoposti a tali procedure quali falliti, la loro punibilità potrebbe essere riconosciuta a titolo di concorso ex art. 110 c.p. nella condotta dei creditori.

Occorre che la pattuizione determini vantaggi per il creditore, considerato uti singulus, giacché il delitto non sussiste se il creditore con il suo comportamento ottiene vantaggi in capo all'intera massa. La nozione di vantaggio viene intesa in dottrina in maniera assai ampia, come comprensiva di qualsiasi forma di corrispettivo, anche di natura non patrimoniale, con la conseguenza che il vantaggio perseguito dal creditore non deve necessariamente incidere sull'ammontare dell'attivo fallimentare (SANDRELLI, Responsabilità penale della banca, cit., 555).

Al vantaggio del creditore deve corrispondere un interesse in capo al fallito, il quale deve procedere alla stipula dell'accordo proprio per soddisfare tale sua posizione.

Quanto all'elemento soggettivo, alcuni autori richiedono il solo dolo generico, concretantesi nella volontà di stipulare vantaggi a proprio favore quale corrispettivo della prestazione di voto e senza che la rappresentazione del vantaggio ottenuto distolga il soggetto dall'agire, mentre altri richiedono una sorta di dolo specifico, dove la finalità della condotta andrebbe rinvenuta nello scopo di ottenere vantaggi patrimoniali.



La decisione della Cassazione

Il ricorso, nel caso di specie, è stato accolto dalla S. Corte, che ha ritenuto fondata la doglianza in ordine alla inconfigurabilità del tentativo rispetto alla fattispecie concreta per come delineata nella stessa pronuncia impugnata, essendosi giudicato erroneo attribuire all'imputato l'esecuzione di atti idonei, diretti, in modo univoco, ad ottenere vantaggi compensativi a fronte dell'esercizio del voto in favore dell'ammissione alla procedura di concordato pre-falllimentare, senza considerare il comportamento assunto dal destinatario della pretesa nell'intera vicenda e limitandosi a registrare la sua mancata accettazione quale elemento sufficiente a far ritenere integrato il reato contestato, laddove, invece, si trattava di saggiare nello specifico la condotta assunta dalla persona offesa versandosi in un'ipotesi criminosa - quale è appunto quella del mercato di voto - a consumazione necessariamente bilaterale e a concorso necessario.

Secondo la Cassazione, la fattispecie di cui all'art. 233 R.D. n. 267 del 1942, per come è strutturata, presuppone la par condicio contractualis, limitandosi, essa, a rimandare alla stipulazione, ossia a un concetto giuridico che implica l'incontro libero e consapevole della volontà delle parti. Ne consegue che per configurare il tentativo di tale fattispecie, necessariamente bilaterale, occorre che la trattativa sia pervenuta ad uno stadio tale da consentire di ravvisare l'idoneità degli atti diretti in modo non equivoco alla stipula dell'accordo e che l'accordo poi non si sia concluso per cause indipendenti dalla volontà degli autori; sicché ove, invece, la proposta proveniente da una delle parti sia rimasta - come nel caso di specie - non accolta dall'altra neppure in termini di avvio di una trattativa, il tentativo non è configurabile.

Per queste ragioni viene ritenuto non corretto qualificare l'offerta dell'accordo che preveda un vantaggio per il singolo creditore alla condizione dell'espressione di voto favorevole nella procedura concordataria come condotta idonea finalizzata al conseguimento dell'accordo, rispetto alla quale il mancato recepimento della proposta da parte del debitore - come accaduto nel caso di specie - renderebbe punibile esclusivamente l'azione del creditore proponente, ragion per cui sarebbe pienamente configurabile il tentativo. Infatti, in tale ricostruzione si ammette, sia pure implicitamente, che nel caso di specie la proposta del creditore non fu accolta neppure in termini di trattativa, laddove si finisce per ravvisare delle trattative nel - solo - fatto che vi sia stato più di un incontro. L'offerta dell'accordo altro non è che la proposta del creditore di stipula dell'accordo criminoso che, in quanto tale, si risolve nell'istigazione tipica quale atto unilaterale. Esso è e rimane imputabile al solo proponente in mancanza di una qualche adesione del destinatario, quanto meno alla fase delle trattative che essa può innescare ove non sia immediatamente accettata; sicché, nel caso in cui - come in quello di specie - il comportamento del destinatario non si ponga in termini di una condotta giuridicamente rilevante, quanto meno, come avvio di una trattativa 'contrattuale', e si atteggi piuttosto a tentativo contrario teso a far desistere il proponente dall'illecito proposito, nessun reato, neppure nella forma tentata, è ravvisabile in capo a colui che si è limitato a prospettare i termini dell'accordo, sia pure istigando il destinatario all'adesione.

In tal caso - esaurendosi la condotta del proponente nella sua stessa sfera giuridica, rimanendo circoscritti i suoi effetti al suo ambito nella misura in cui la sua esteriorizzazione si è risolta in un nulla di fatto - non può ritenersi innescato un meccanismo idoneo (neppure) a porre in pericolo il bene tutelato. La condotta dell'imputato è rimasta priva di conseguenze anche sul piano giuridico della fattispecie penale, che, nel richiedere la soglia minima della bilateralità per ritenere minacciato il bene giuridico tutelato - il corretto svolgimento delle operazioni fallimentari -, evidentemente lo considera scalfito solo in presenza di un atto che ecceda la sfera del proponente ed incontri quanto meno un cenno positivo da parte del destinatario, sicché ove difetti un benchè minimo riscontro - che la disposizione normativa per come costruita tende a scoraggiare prevedendo, in caso contrario, la punizione del debitore -, nessuna lesione può ritenersi integrata.

Secondo la Cassazione, in sostanza, nel caso di specie, non si era approdati nemmeno ad un abbozzo di trattativa, posto che l'amministratore della società da sottoporre a concordato preventivo si era limitato a recepire la richiesta, reiterata in due occasioni dall'imputato, di elargire una ingente somma (ancorché rateizzata) ad un creditore, a fronte della quale questi, detentore del 51% dei crediti, avrebbe espresso il proprio voto favorevole alla richiesta di concordato preventivo presentata al Tribunale.

L'istruttoria avrebbe evidenziato non lo svolgersi di una trattativa (che per definizione postula l'esistenza di proposte e controproposte, e comunque un comune obiettivo teso al raggiungimento di un accordo), ma solo la formulazione di una proposta da parte dell'imputato, a cui la persona offesa frapponeva un contegno passivo (che anzi evolveva in un tentativo di convincere controparte a desistere dal proposito criminoso); proposta che, conclude la decisione, non può essere neppure qualificata come pretesa estorsiva, essendo rimasto sullo sfondo l'accenno alle ripercussioni negative conseguenti al rifiuto della proposta e alla non ammissione del concordato.



Considerazioni conclusive

La sentenza della Cassazione pare da condividere.

Infatti, la fattispecie delittuosa di cui all'art. 233 R.D. n. 267 del 1942è lato sensu riconducibile alla categoria della corruzione, la quale, tuttavia, sia che si riferisca a rapporti fra privati e pubblici funzionari, ovvero alla corruzione tra privati di cui all'art. 2635 cod. civ., prevede, a differenza di quanto previsto con riferimento al delitto di “mercato di voto”, la rilevanza criminale anche della sola proposta corruttiva, della sola mera sollecitazione di denaro o altre utilità, quand'anche la stessa non sia accolta.

Tale aspetto, invece, non è considerato penalmente rilevante in sede fallimentare, per cui ove - come nel caso di specie - la condotta si esaurisca nella proposta di una delle parti integrante al più un'istigazione, essa, in mancanza di una disposizione, nell'ambito in questione, speculare a quella di cui all'art. 322 cod. pen. o all'art. 2635 cod. civ., rimane non punibile.

E' il caso, tuttavia, di valutare con completezza e con adeguata attenzione la pronuncia della Cassazione.

Infatti, i giudici di legittimità non hanno escluso – come erroneamente potrebbe ritenersi – la possibilità che il delitto di “mercato di voto” sia realizzato nella forma del tentativo. Semplicemente, per configurare il tentativo di tale fattispecie, necessariamente bilaterale, occorre che la trattativa sia pervenuta ad uno stadio tale da consentire di ravvisare l'idoneità degli atti diretti in modo non equivoco alla stipula dell'accordo e che l'accordo poi non si sia concluso per cause indipendenti dalla volontà degli autori.

Solo se la proposta proveniente da una delle parti rimane non accolta dall'altra, neppure in termini di avvio di una trattativa, il tentativo non è configurabile.



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