La negoziazione assistita nelle controversie di lavoro

24 Febbraio 2023

A decorrere dal 1° marzo 2023 il procedimento di negoziazione assistita sarà applicabile anche alle controversie di lavoro di cui all'art. 409 c.p.c., affiancandosi al nutrito novero di mezzi di risoluzione stragiudiziale già contemplati dal codice di rito e da leggi speciali.
Il sistema laburistico di alternative dispute resolution

Tra le principali novità introdotte dal d.lgs. n. 149/2022, attuativo della legge delega n. 206/2021, è da annoverare lo strumento della negoziazione assistita nelle controversie di lavoro, che andrà ad aggiungersi, successivamente al 28 febbraio 2023 (il termine originario risulta anticipato dalla l. n. 197/2022), al nutrito novero di mezzi stragiudiziali di risoluzione delle controversie di lavoro previsti dal codice di rito o da leggi speciali.

L'art. 9 del d.lgs., introducendo l'art. 2-ter all'interno del corpo normativo di cui al d.l. n. 132/2014, convertito con modificazioni nella l. n. 162/2014, contempla, fermo restando quanto disposto dall'art. 412-ter c.p.c. la facoltà di ricorrere alla negoziazione assistita nelle controversie previste dall'art. 409 c.p.c.,, con l'ausilio di avvocati o consulenti del lavoro, senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda. L'accordo eventualmente raggiunto andrà trasmesso agli organismi di cui all'art. 76 d.lgs. n. 276/2003 e sarà assoggettato all'applicazione dell'art. 2113 c.c..

Parallelamente, risulta abrogato, con pari decorrenza, l'inciso contenuto nell'art. 2 comma lett. b), che escludeva dal novero delle controversie negoziabili, oltre a quelle concernenti diritti indisponibili, la materia del lavoro.

L'esigenza di una definizione conciliativa delle controversie, quale imprescindibile misura deflattiva del contenzioso, è particolarmente avvertita in ambito giuslavoristico, in ragione delle peculiari esigenze di celere definizione delle controversie, tipiche di un sistema di gestione di diritti sensibili, quali il diritto al lavoro ed alla percezione della retribuzione che, secondo l'art. 36 cost., deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto ed in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Nel novero degli esistenti mezzi stragiudiziali di risoluzione delle controversie di lavoro, la principale suddivisione è tra procedure conciliative di natura obbligatoria e facoltativa, risultando le prime condizioni di procedibilità del ricorso giurisdizionale.

Dopo una prima fase di generalizzazione dell'obbligatorietà del tentativo di conciliazione, ad opera dell'art. 36 d.lgs. n. 80/1998 per le controversie di lavoro di natura privata e del d.lgs. n. 29/1993 per le controversie di lavoro di natura pubblica, si è tornati al regime di facoltatività, per effetto dell'intervento della l. 183/2010 (cd Collegato lavoro), che ha riformato funditus le norme codicistiche in materia di conciliazione (410-412 quater c.p.c.).

L'attuale sistema prevede, innanzitutto, la facoltà di ricorrere alle commissioni di conciliazione, istituite presso la Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente sulla base dei criteri di cui all'art. 413 c.p.c., e dell'articolato procedimento contemplato dall'art. 410 c.p.c., con facoltà di farsi assistere da organizzazione sindacale o legale di fiducia e devolvere, secondo quanto previsto dal successivo art. 412 c.p.c., la risoluzione arbitrale della controversia o di parte della stessa.

L'ulteriore forma di conciliazione facoltativa in sede sindacale non è soggetta, per espressa previsione dell'art. 411 c.p.c. alle disposizioni di cui all'art. 410 c.p.c., essendo attivata e regolamentata sulla base delle specifiche procedure previste da contratti ed accordi collettivi. La caratteristica distintiva di tale forma di conciliazione riposa nel fatto che il processo verbale di avvenuta conciliazione debba essere depositato presso la Direzione provinciale del lavoro, a cura di una delle parti o per il tramite di un'associazione sindacale e, successivamente depositato presso la cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto, previa verifica della sua autenticità e riconducibilità a rappresentanti di associazioni sindacali rappresentative.

Ulteriori fattispecie di conciliazione stragiudiziale sono state nel tempo introdotte dalla normativa di settore di rango primario.

Merita, in tale ambito, un cenno il mezzo di deflazione del contenzioso in materia di licenziamenti, introdotto dall'art. 6 1° co. d.lgs. n. 23/2015, attuativo del cd Jobs Act, applicabile ai contenziosi relativi ai lavoratori assunti, convertiti a tempo indeterminato, o qualificati da rapporti di apprendistato a partire dal 7 marzo 2015. Entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento il datore di lavoro, in sede protetta, può offrire, al fine di evitare l'impugnazione giudiziale, un importo defiscalizzato e non soggetto a contribuzione, che per effetto della modifica apportata dall'art. 3 comma 1 bis del d.l. 12 luglio 2018, n. 87, è stato innalzato ad una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a tre e non superiore a ventisette mensilità.

L'efficacia di tale meccanismo conciliativo risulta, tuttavia, attenuata dall'intervento della sentenza della C. cost. n. 194 del 8 novembre 2018 la quale, pronunciando l'illegittimità costituzionale dell'art. 3 comma 1 d.lgs. 23/2015, ha eliminato l'automaticità della quantificazione dell'indennità risarcitoria sulla base degli anni di anzianità di servizio o frazioni di esso, così rendendo non più pronosticabile, con esattezza, l'indennità risarcitoria conseguibile, in caso di declaratoria giudiziale dell'illegittimità del licenziamento.

Uniche fattispecie residue di obbligatorietà del tentativo antegiudiziale di conciliazione, sia pure nel senso peculiare di cui si dirà, risultano essere quelle previste dall'art. 31, omma 2, l. n. 183/2010 e dall'art. 1, comma 40, l. n. 92/2012.

La prima fattispecie conserva la caratteristica di obbligatorietà del tentativo stragiudiziale per le controversie relative ai cd contratti certificati di cui all'art. 80, comma 4, del d.lgs. n. 276/2003. La certificazione è una procedura di carattere volontario, finalizzata ad attestare che il contratto che si vuole sottoscrivere abbia i requisiti di forma e contenuto richiesti dalla legge, con funzione di riduzione del contenzioso in materia di qualificazione di contratti di lavoro.

I negozi giuridici oggetto di certificazione sono passibili di impugnazione giudiziale cd a critica vincolata, nei casi di erronea qualificazione del contratto, di difformità tra il programma negoziale certificato e la successiva attuazione e per vizi del consenso. In tal caso occorrerà procedere obbligatoriamente al tentativo di conciliazione presso la medesima commissione di certificazione che ha adottato l'atto. Secondo la tesi prevalente, il mancato esperimento del tentativo di conciliazione assurge a causa di improcedibilità della successiva domanda giudiziale.

Ai sensi dell'art. 1, comma 40, l. n. 92/2012, nel caso di licenziamenti individuali, plurimi o collettivi, dipendenti da riorganizzazione e ristrutturazione aziendale, cessazione dell'attività, inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni, irrogati da datori di lavoro che occupino, in ciascuna sede o nell'ambito comunale, più di 15 dipendenti, ovvero più di 60 dipendenti in ambito nazionale, sarà necessario attivare la procedura prevista dalla legge dinanzi alla commissione di conciliazione istituita presso la Direzione provinciale del lavoro.

In caso di mancata conciliazione il datore di lavoro potrà provvedere al licenziamento del lavoratore, che avrà effetto dalla data di comunicazione dell'avvio del procedimento alla Direzione territoriale.

L'obbligatorietà del tentativo di conciliazione di cui all'art. 1, comma 40, l. n. 92/2012 va, tuttavia, inteso in senso peculiare, quale condizione di legittimità del licenziamento irrogato e non di procedibilità del successivo ricorso giurisdizionale.

La negoziazione assistita nelle controversie di lavoro

A partire dal 1° marzo 2023 a tali mezzi di risoluzione stragiudiziale delle controversie si aggiunge la negoziazione assistita. A ben vedere, la scelta del legislatore è stata quella di operare un rinvio ricettizio alla norma di cui all'art. 409 c.p.c., contenente l'elencazione delle controversie attribuite al giudice del lavoro, comprensive di controversie di lavoro in senso stretto e proprio e di controversie diverse, originariamente devolute alla cognizione del giudice del lavoro e ora refluite in capo a diverse articolazioni giurisdizionali.

I blocchi fondamentali, contenuti nella disposizione richiamata, soggetti all'applicazione del rito speciale, possono ricondursi al rapporto di lavoro subordinato, da suddividersi nell'impiego privato ed in quello pubblico (nn. 1, 4 e 5 art. 409 c.p.c.), e alla vasta e frammentata area della parasubordinazione (n. 3 art. 409 c.p.c.). A seguito dell'istituzione delle sezioni specializzate agrarie, in relazione al combinato disposto di cui all'art. 53, ultimo comma, l. n. 203/1982 ed art. 9 l. n. 29/1990, è venuta meno la competenza del giudice del lavoro con riferimento alle controversie di cui al n. 2 art. 409 c.p.c., (mezzadrìa, colonìa parziaria, compartecipazione agraria, affitto a coltivatore diretto, altri contratti agrari). Allo stato, dunque, le residuali controversie agrarie sono devolute alle sezioni specializzate agrarie, dinanzi alle quali sarà applicato il rito del lavoro di cui agli artt. 414 e ss. c.p.c..

Il rinvio, operato dal nuovo art. 2-ter d.l. n. 132/2014, all'elencazione di cui all'art. 409 c.p.c. lascia, dunque, intendere come la procedura di negoziazione assistita possa, per il futuro, trovare applicazione sia alle controversie laburistiche in senso stretto, ivi incluse quelle relative al pubblico impiego privatizzato, che a quelle rientranti nell'area della parasubordinazione, nonché alle residuali controversie agrarie che, pur assoggettate al rito speciale del lavoro, risultano assegnate alle sezioni specializzate agrarie.

Lo strumento si affianca agli ulteriori mezzi già contemplati nell'ordinamento laburistico, la cui esistenza ed operatività resta inalterata. L'art. 2-ter contiene una previsione di salvezza dell'art. 412-ter, norma che disciplina la conciliazione e l'arbitrato, nelle materie di cui all'art. 409 c.p.c., presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentativi.

La ragione per la quale il legislatore della riforma abbia inteso richiamare, facendone salva l'applicazione per il futuro, solo tale disposizione appare poco chiara. Non vi è, difatti, dubbio, stante la profonda diversità strutturale tra gli istituti della negoziazione assistita e dell'arbitrato, che l'eventuale omissione di tale previsione di salvezza all'interno dell'art. 2-ter non avrebbe creato particolari dubbi circa la sopravvivenza, nel sistema dei mezzi di conciliazione alternativa delle controversie laburistiche, dell'arbitrato irrituale previsto dalla contrattazione collettiva.

Né, del resto, la disposizione dell'art. 412-ter esaurisce il novero dei mezzi extragiudiziali di risoluzione di natura arbitrale, atteso che il successivo art. 412-quater contempla il procedimento innanzi al collegio di conciliazione e arbitrato irrituale, sulla base della composizione, modalità di costituzione e procedura previsti dal comma 2 e ss.

Opportuna appare, viceversa, stante l'ambivalente portata della negoziazione assistita che, nelle controversie di cui all'art. 3 d.l. n. 132/2014 costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale, la precisazione secondo cui l'esperimento della modalità di negoziazione non espleti tali effetti rispetto alla domanda giudiziale eventualmente incardinata dinanzi al giudice del lavoro (o, per quanto detto, delle sezioni specializzate agrarie).

La natura facoltativa del mezzo comporta, dunque, la possibilità di proporre direttamente ricorso giurisdizionale, senza transitare per la negoziazione assistita o, in caso di proposizione della stessa, attendere l'eventuale esito negativo o abbandonarla in corso di svolgimento, al fine di incardinare il giudizio dinanzi al tribunale del lavoro.

Innovazione di rilievo, foriera di molteplici problematiche ermeneutiche è rappresentata dalla possibilità che le parti siano assistite, oltre che da almeno un avvocato, anche da un consulente del lavoro.

Ambedue i professionisti devono risultare iscritti al relativo albo professionale, non potendosi ammettere all'assistenza negoziale i praticanti avvocati, benché abilitati all'esercizio della professione, iscritti in apposito registro, né figure affini al consulente del lavoro, quali dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali, risultando l'iscrizione all'albo professionale istituito dalla l. n. 12/1979 condizione legittimante lo svolgimento di attività assistenziale. Le amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001 dovranno affidare la convenzione di negoziazione alla propria avvocatura, ove presente, in caso diverso potranno affidarsi ad un libero professionista del foro.

L'inserimento della figura del consulente del lavoro, in assenza di adeguamento delle disposizioni di cui alla l. 132/2014, che regolano la procedura di negoziazione, pone numerosi problemi di ordine sistematico.

Le disposizioni sulla negoziazione assistita, difatti, conferiscono all'avvocato (cfr. art. 2, comma 6, d.l. n. 132/2014) specifici poteri di certificazione dell'autografia delle sottoscrizioni apposte alla convenzione, sotto la propria responsabilità professionale, che si aggiungono ai poteri di certificazione ed autentica già previsti dal codice di rito (es: procura alle liti ex art. 83 c.p.c.) e dalle leggi speciali (art. 16-bis, comma 9-bis, d.l. n. 179/2012).

In assenza di un'espressa previsione è lecito, tuttavia, dubitare della sussistenza di un analogo potere certificativo in capo ai consulenti del lavoro, che ne risultano normalmente sprovvisti, così come deve escludersi l'applicazione, a tale categoria professionale, del dovere di informativa circa la possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita, previsto dal successivo comma 7 a carico degli avvocati, che testualmente origina dal conferimento dell'incarico procuratorio legale.

Assai complesso risulta, inoltre, l'adattamento all'attività assistenziale del consulente del lavoro, del controllo di legalità sostanziale dell'accordo, non limitato alla sottoscrizione dello stesso ma esteso all'accertamento della conformità o contrarietà dell'accordo a norme imperative e all'ordine pubblico, che secondo certa giurisprudenza (Trib. Roma, sez. IV, 17 giugno 2019, n. 12727), rientrerebbe nei compiti dell'avvocato in ambito negoziale, risultando il consulente del lavoro sprovvisto delle competenze funzionali all'esercizio di tale verifica.

Analogo problema emerge dalla previsione delle nuove facoltà di istruzione della controversia, che la novella introduce a mezzo degli artt. 4-bis e 4-ter. Le facoltà di invitare un terzo a rendere dichiarazioni su fatti specificamente individuati e rilevanti in relazione all'oggetto della controversia (4-bis) e quella di invitare la controparte a rendere per iscritto dichiarazioni su fatti, specificamente individuati e rilevanti in relazione all'oggetto della controversia, ad essa sfavorevoli e favorevoli alla parte nel cui interesse sono richieste (4-ter), risultano, difatti, testualmente riferite ai soli avvocati, oltre che rientranti nel perimetro professionale degli stessi, trattandosi di facoltà paragiurisdizionali, modellate sull'escussione dei testi e assunzione dell'interrogatorio formale. L'art. 4-bis prevede, per altro, che l'assunzione delle dichiarazioni del terzo abbia luogo nel contraddittorio con la controparte e l'avvocato che l'assiste, ed abbia luogo nello studio professionale dell'avvocato che assume l'iniziativa.

In tale contesto sistematico, nel quale le principali ed indefettibili prerogative procedimentali non soltanto appaiono testualmente riferite alla figura dell'avvocato, ma rientrano nel perimetro delle competenze professionali tipiche del patrocinante legale, non può che concludersi nel senso che, nella nuova negoziazione assistita ex art. 2-ter, il ruolo del consulente del lavoro sia quello di affiancarsi alla figura dell'avvocato, ma non di sostituirsi ad esso, non potendosi le due figure, alla luce delle limitazioni testuali e sistematiche di cui si è detto, considerarsi fungibili.

Risulta, dunque, istituzionalizzato e formalmente consacrato un ruolo di rilievo nevralgico nell'ambito delle controversie di lavoro, sovente caratterizzate dalla necessità di risolvere questioni di natura contabile attinenti, ad esempio, al calcolo delle retribuzioni non corrisposte o delle differenze retributive rivendicate dal lavoratore, delle provvigioni ed indennità spettanti all'agente.

Non può, dunque, ritenersi, anche alla luce dell'espressione utilizzata dal legislatore, che il consulente del lavoro possa figurare, in via esclusiva, accanto alla parte, risultando indispensabile la presenza di almeno un avvocato per parte, al quale saranno demandati i tradizionali poteri di certificazione delle firme e di verifica della conformità legale dell'accordo di negoziazione, oltre che i nuovi poteri di istruzione al fine di addivenire ad una bonaria composizione della controversia.

Il procedimento di negoziazione assistita nell'ambito delle controversie di lavoro, nei termini convenuti dalle parti, avrà uno svolgimento del tutto analogo a quello esperito nelle altre materie, con le novità, di natura istruttoria e relative alle modalità di conduzione delle trattative, previste dagli artt. 2-bis, 4-bis e 4-ter, introdotti dal d.lgs. n. 149/2022.

Questione del tutto peculiare ai rapporti tra negoziazione assistita e processo del lavoro, è quella del regime dei termini di decadenza stragiudiziale, previsti per l'impugnazione dei licenziamenti ai sensi dell'art. 6, co.1, l. n. 604/1966 (applicabile anche alle ipotesi previste della l. n. 183/2010, art. 32, commi 3 e 4, tra cui l'impugnativa del contratto di lavoro a termine), nella misura di 60 giorni, decorrenti dalla comunicazione del licenziamento o, se successiva, dei motivi, per l'impugnazione stragiudiziale, e di 180 giorni, decorrenti dalla impugnazione stragiudiziale, per la proposizione dell'impugnazione in sede giudiziale.

Soccorre, sul punto, l'art. 8 della d.l. n. 132/2014, che prevede che la comunicazione dell'invito a concludere una convenzione di negoziazione assistita ovvero la sottoscrizione della convenzione vanno non soltanto considerati atti interruttivi della prescrizione, valendo altresì ad impedire, per una sola volta, la decadenza.

Se, tuttavia, l'invito di una delle parti rivolto all'altra è rifiutato, o non è accettato nel termine di trenta giorni, previsto dall'art. 4, comma 1, la domanda giudiziale andrà proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal rifiuto, dalla mancata accettazione nel termine, ovvero dalla dichiarazione di mancato accordo certificata dagli avvocati.

Pur riferendosi testualmente alla sola domanda giudiziale, deve ritenersi che il rifiuto, la mancata accettazione o il mancato accordo, determinino la reviviscenza anche del prodromico termine di decadenza per l'impugnativa stragiudiziale eventualmente impedito dall'invito alla negoziazione o dalla sottoscrizione dell'accordo, che decorrerà nuovamente, sulla base delle indicazioni contenute nella norma.

All'accordo eventualmente raggiunto all'esito della procedura si applica, secondo quanto previsto dalla norma, l'art. 2113, comma 4, c.c.. L'alinea eccettua dall'applicazione dei commi 1, 2, e 3 dell'art. 2113 c.c. le conciliazioni intervenute ai sensi degli artt. 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater c.p.c..

In altri termini, il naturale regime di impugnabilità delle rinunce e transazioni concluse dal prestatore di lavoro, aventi ad oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili della legge o di contratti ed accordi collettivi, ai sensi del 1° comma, trova eccezione nelle conciliazioni in sede amministrativa e sindacale, ovvero arbitrale, alla condizione che al lavoratore sia prestata assistenza effettiva, attuando correttamente la funzione di supporto che la legge assegna e garantendo al lavoratore piena conoscenza del diritto rinunciato e della misura di tale rinuncia (Cass. civ., sez. lav., 23 ottobre 2013, n. 24024).

La categoria dei diritti indisponibili - cui si applica, qualora abbiano formato oggetto di rinunzie o transazioni, l' art. 2113 c.c. - comprende non soltanto i diritti di natura retributiva o risarcitoria correlati alla lesione di diritti fondamentali della persona, ma, alla luce della ratio sottesa alla disposizione codicistica, posta a tutela del lavoratore, quale parte più debole del rapporto di lavoro, ogni altra posizione regolata in via ordinaria attraverso norme inderogabili, salvo che vi sia espressa previsione contraria (Cass. civ., sez. lav., 7 settembre 2021, n. 24078).

Per effetto dell'inciso di cui all'art. 2-bis, dunque, l'area dell'inoppugnabilità di rinunzie e transazioni concluse dal lavoratore che vertano su diritti indisponibili, si amplia ricomprendendo, accanto a quelle elencate dal 4 comma art. 2113, quelle trasfuse negli accordi di negoziazione assistita, sull'implicito presupposto che l'assistenza prestata al lavoratore dagli avvocati e, se del caso, dei consulenti del lavoro, determini quel sufficiente grado di consapevolezza, nella parte debole del rapporto, in ordine al significato del negozio giuridico, all'ampiezza delle rinunce e consistenza dei riconoscimenti.

Va, tuttavia, rammentato che, al pari delle conciliazioni raggiunte in sede giudiziale, sindacale ed amministrativa, anche quelle trasfuse negli accordi di negoziazione assistita possono essere oggetto di azione di nullità ed annullamento, in base alla disciplina comune dei contratti, con possibilità per il lavoratore di chiedere l'annullamento del negozio sostanziale racchiuso nell'accordo per incapacità naturale (artt. 1425, comma 2. e 428 c.c.) o legale (art. 1425, comma 1, c.c.) ovvero per un vizio della volontà (errore, violenza e dolo ai sensi degli artt. 1427 e ss. c.c.) con l'esclusione del solo errore di diritto relativo alle questioni oggetto di transazione ex art. 1969 c.c.; parimenti, il lavoratore può esperire azione ordinaria di nullità del negozio ai sensi degli artt. 1418 e ss. c.c. (cfr. Trib. Cosenza, sez. lav., 11 settembre 2019, n. 1475).

Il comma di chiusura dell'art. 2-bis prevede la trasmissione dell'accordo, a cura di una delle parti, entro dieci giorni, ad uno degli organismi di cui all'art. 76 d.lgs. n. 276/2003. Tali sono le commissioni di certificazione, istituite al fine di ridurre il contenzioso giurisdizionale avente ad oggetti i contratti certificati, confinandolo all'erronea qualificazione del contratto e alla difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione.

La disposizione non specifica le finalità di tale adempimento.

Deve escludersi, innanzitutto, che l'obiettivo della previsione sia quello di conseguire la certificazione dell'accordo di negoziazione, mediante il procedimento contemplato dall'art. 78, pur essendo le rinunce e transazioni ricomprese nel novero degli atti astrattamente certificabili, trattandosi di atti negoziali nei quali sia “dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro” (art. 75), Deve, difatti, ritenersi che il più ampio regime di inoppugnabilità dell'accordo di negoziazione ex art. 2113, comma 4, c.c., previsto dalla disposizione, consegua alla garanzia derivante dall'assistenza prestata da avvocati e consulenti al lavoratore. In tale contesto, l'attivazione del procedimento di certificazione su un accordo già concluso in condizioni di assistenza si tradurrebbe in adempimento del tutto pleonastico e, in quanto tale, irragionevole.

Né, del resto, appare ragionevolmente sostenibile, per altro in assenza di un'espressa previsione, che l'adempimento costituisca condizione per l'acquisizione di efficacia esecutiva dell'accordo trattandosi, per altro, di effetto già annesso all'accordo di negoziazione da parte dell'art. 5, comma 1, d.l. n. 132/2014.

Può, dunque, ipotizzarsi che, in assenza di ulteriori indicazioni, la natura della trasmissione dell'accordo di negoziazione alle commissioni ex art. 76 possa non esorbitare la mera informativa, funzionale ad un'attività di verifica e monitoraggio sull'andamento del nuovo mezzo di risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro. In tal senso depone anche l'estrema genericità della previsione di chiusura, che non fornisce elementi di identificazione della specifica commissione cui inviare l'accordo negoziale (dovendosi, con ogni verosimiglianza, fare riferimento ai criteri di cui all'art. 77 d.lgs. n. 273/2006) né annette alcuna conseguenza all'inosservanza del termine di dieci giorni, previsto per l'esecuzione dell'incombente.

In conclusione

L'efficacia della negoziazione assistita, quale nuovo mezzo di risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro, in termini di concreta attitudine alla deflazione del contenzioso giurisdizionale lavoristico, potrà essere valutata soltanto all'esito di un congruo periodo di pratica ed osservazione.

Rispetto ai mezzi preesistenti alla stessa, disciplinati dagli artt. 411 e ss. c.p.c., con i quali intratterrà relazioni di coesistenza ed alternatività, la negoziazione introduce novità di rilievo, sotto un profilo concettuale e culturale, prima ancora che tecnico applicativo.

Come condivisibilmente rilevato da taluni commenti agli albori della novità legislativa, viene accantonata la logica del contraente debole contrapposto al contraente forte, il cui corollario è l'assegnazione a figure istituzionali, quali commissioni di conciliazione, enti certificatori, giudici, sindacato, di ruoli assistenziali del lavoratore in favore di una visione paritetica dei contraenti, la cui consapevolezza, in ordine al percorso di risoluzione della controversia ed alla portata dell'eventuale accordo, avente efficacia di titolo esecutivo e caratteristiche di inoppugnabilità, nei limiti di quanto previsto dall'art. 2113 c.c., è demandata all'attività di avvocati e consulenti del lavoro.

Il secondo aspetto da rimarcare è quello dell'ampliamento del procedimento di negoziazione, per effetto dell'introduzione degli artt. 4-bis e 4-ter, in seno al d.l. n. 132/2014, sino al punto di assumere connotazioni paragiurisdizionali.

Laddove la soluzione di controversie richieda, difatti, l'approfondimento di talune circostanze di fatto, le parti, con l'assistenza degli avvocati, potranno acquisire dichiarazioni in capo a soggetti terzi. Sotto altro profilo, le parti potranno sollecitare dichiarazioni confessorie, su punti nodali della controversia, in capo alla controparte.

Sia pure in assenza di un organo terzo o imparziale, quale il giudice o l'arbitro, adibito alla valutazione delle risultanze di tale attività, la possibilità di versare tali dichiarazioni in un futuro giudizio potrà indurre le parti ad addivenire ad un accordo di negoziazione anche sulla base di tali risultanze.

Né va obliterato che, laddove sia necessaria la risoluzione di questioni di natura contabile, le stesse potranno essere affidate ai consulenti del lavoro, il cui ruolo viene formalmente riconosciuto ed istituzionalizzato dalla disposizione di nuova introduzione.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.