Come dapprima riferito, l'art. 26 comma 5-bis D.P.R. 633/1972 si occupa esplicitamente soltanto del caso in cui, successivamente all'emissione della nota di variazione in diminuzione da parte del creditore, “il corrispettivo sia pagato, in tutto o in parte”.
Con il principio di diritto n. 1/2023 è stato in proposito confermato che detta disposizione opera unicamente in caso di successivo pagamento, in tutto in parte del corrispettivo con riguardo al quale il creditore si sia avvalso della facoltà di emettere la nota di variazione in diminuzione ai sensi del comma 3-bis. In sostanza l'Agenzia ha affermato il principio per cui l'obbligo di emettere una variazione in aumento ai sensi del citato comma 5-bis ricorre “solo a fronte del pagamento, totale o parziale, del corrispettivo che ha costituito oggetto della precedente nota di variazione in diminuzione, eventualmente emessa”,
Nel caso di piani attestati di risanamento pubblicati nel registro delle imprese (ma anche, evidentemente, di accordi di ristrutturazione omologati), il creditore, che si sia avvalso della facoltà di emettere una nota di variazione in diminuzione, è dunque tenuto ad effettuare una variazione in aumento per la medesima operazione solo a fronte del successivo pagamento, integrale o parziale, del relativo corrispettivo per un importo superiore a quello previsto in sede di emissione della nota di variazione in diminuzione: nelle intenzioni del legislatore, infatti, è questo l'unico presupposto idoneo a far scattare l'obbligo di operare la “rettifica della rettifica”.
L'integrazione della rettifica in diminuzione
Visto che l'art. 26 comma 5-bis del D.P.R. 633/1972 si configura come una norma di chiusura, destinata a trovare applicazione solo per gli eventuali importi residuali “in eccesso” ed il cui contenuto non è perciò riferibile all'integrazione della rettifica nel caso opposto (vale a dire quello in cui l'ammontare del credito incassato risulti inferiore rispetto alle previsioni iniziali), occorre allora domandarsi se il creditore possa recuperare la quota-parte dell'imposta non rettificata con l'emissione della nota di variazione in diminuzione in sede di apertura della procedura.
Si è però dapprima riferito che, se il creditore non ha esercitato il diritto di recuperare l'imposta in occasione dell'apertura della procedura secondo i dettami del comma 3-bis dell'art. 26 D.P.R. 633/1972, egli ha comunque diritto a farlo in occasione della conclusione (infruttuosa) della stessa, potendo comunque contare sul diverso e autonomo presupposto sancito dal comma 2 per operare la variazione in diminuzione.
Lo stesso diritto dovrebbe quindi spettare ai creditori che all'avvio della procedura abbiano esercitato detto diritto soltanto in misura parziale, i quali devono perciò attendere la conclusione definitiva della procedura per rettificare l'operazione in via definitiva, ai sensi del comma 2 dell'art. 26, attraverso l'emissione di una nuova nota di variazione in diminuzione relativamente all'importo inizialmente non rettificato.
Questa conclusione, del resto, costituisce logico corollario della precisazione fornita dall'Agenzia delle Entrate circa il fatto che il comma 3-bis non può essere interpretato nel senso che il creditore fruisce automaticamente del diritto di rettificare per intero il proprio credito al momento di apertura della procedura, ma solo di recuperare la quota-parte dell'imposta di cui può essere fondatamente escluso il recupero già in tale momento.
Gli effetti della sopravvenuta risoluzione dell'accordo
Occorre inoltre domandarsi se l'obbligo di rettificare in aumento la variazione in diminuzione operata in sede di apertura della procedura, previsto dall'art. 26 comma 5-bis D.P.R. 633/1972, ricorra anche in caso di successivo inadempimento dell'obbligazione assunta nell'accordo cui si fonda il piano attestato (ovvero nell'accordo di ristrutturazione omologato) e conseguente risoluzione dello stesso, in quanto risulterebbe venuto meno il presupposto che ne aveva legittimato l'emissione.
In proposito con il principio di diritto n. 1/2023 l'Agenzia delle Entrate ha opportunamente affermato che l'eventuale risoluzione dell'accordo resta un evento del tutto irrilevante ai fini dell'applicazione della norma testé citata, atteso che, a fronte dell'acclarato omesso pagamento da parte del cessionario/committente, l'obbligazione iniziale rimane inadempiuta e l'eventuale risoluzione dell'accordo raggiunto in base al piano non muta tale aspetto, aprendo anzi “alla possibilità di procedere ad una nuova variazione in diminuzione ……….”.
Tale affermazione è condivisibile perché la risoluzione dell'accordo non consente certamente al creditore di recuperare i crediti che ha precedentemente considerato irrecuperabili, relativamente ai quali ha emesso una nota di variazione in diminuzione iva; al contrario, essa acclara e rende manifesta l'incapacità dell'impresa debitrice di far fronte persino all'obbligazione risultante dalla ristrutturazione dei debiti (ancorché per la stessa più favorevole rispetto a quella originaria). Anzi, come ha osservato l'Agenzia, può dare luogo a nuove perdite e quindi al presupposto di una successiva e ulteriore variazione in diminuzione.
Quest'ultima variazione, tuttavia, non può discendere automaticamente dalla mera risoluzione dell'accordo concluso in esecuzione del piano attestato, non originando di per sé tale risoluzione alcuna delle fattispecie che, in base alla legge, giustificano una variazione in diminuzione, ma può derivare solo da un ulteriore piano attestato o dal ricorso ad altro strumento di regolazione della crisi (ad esempio un accordo ex art. 57 CCII o un concordato preventivo), per effetto del quale il soddisfacimento del creditore subisca una falcidia maggiore di quella precedentemente convenuta.
Ciononostante, nel caso in cui la variazione in diminuzione sia stata eseguita dal creditore in misura inferiore a quella prevista dall'accordo concluso con l'impresa debitrice e poi risolto (ad esempio, nella misura del 50%, a fronte di un pagamento previsto dal piano nella misura del 40% del credito e dunque di uno stralcio pari al 60%), la risoluzione dell'accordo, attestando l'incapacità dell'impresa debitrice di pagare anche solo l'importo convenuto (nell'esempio quello corrispondente al 40%), consente l'emissione di una ulteriore nota di variazione per la differenza fra lo stralcio previsto dal piano e quello oggetto della variazione effettivamente eseguita (nell'esempio che precede una variazione pari al 10% del credito determinata dalla differenza tra la misura del 60% e quella del 50%), pur non permettendo di per sé, la risoluzione, l'emissione di una nota di variazione per un ulteriore ammontare, che, come si è precisato, richiede invece il ricorso a un nuovo strumento di regolazione della crisi.
Come si è già esposto, nel principio di diritto n. 1/2023 l'Agenzia delle Entrate ha affermato che l'eventuale risoluzione dell'accordo raggiunto in base al piano apre “alla possibilità di procedere ad una nuova variazione in diminuzione” aggiungendo però a questa frase le parole “dopo quella in aumento”, le quali destano qualche perplessità. È infatti oscura la ragione per cui la possibilità di procedere ad una nuova variazione in diminuzione dovrebbe poter essere esperita solo “dopo quella in aumento”, visto che - come dianzi rilevato - è la stessa Agenzia a riconoscere che il legislatore ha stabilito “l'obbligo di una variazione in aumento solo a fronte del pagamento, totale o parziale, del corrispettivo che ha costituito oggetto della precedente nota di variazione in diminuzione, eventualmente emessa”.
In caso di rettifica in diminuzione “parziale”, il creditore ha il diritto di operare un'ulteriore rettifica in diminuzione ai sensi dell'art. 26 comma 2 D.P.R. 633/1972, al fine di recuperare la residua imposta non rettificata inizialmente sulla base del piano attestato (si veda l'esempio sopra riportato, in cui, seppur in presenza di una stralcio convenuto nella misura del 60%, il creditore esegue inizialmente una variazione del 50%, da cui discende il suo diritto a effettuare un'ulteriore variazione del 10%); così come, a seguito della risoluzione dell'accordo e della pattuizione, mediante altro accordo o per effetto di altro strumento di regolazione della crisi, di un maggior stralcio, il creditore ha il diritto di eseguire una nuova variazione pari all'eccedenza della falcidia definitivamente stabilita rispetto a quella prevista dall'accordo oggetto di risoluzione. Si assuma, riprendendo l'esempio che precede, che dopo la risoluzione dell'accordo che prevedeva uno stralcio del 60% ne venga concluso un altro da cui discenda una falcidia dell'80%: in questo caso, dopo la originaria variazione di 50 e quella “integrativa” di 10 (consentita dalla misura dello stralcio del 60% inizialmente convenuta), il creditore ha il diritto di effettuare una nuova variazione pari al 20% del credito sulla base del nuovo accordo. Tali diritti spettano al creditore indipendentemente dal fatto che abbia precedentemente eseguito una variazione in aumento, a rettifica di quella in diminuzione anteriormente effettuata, dovuta al ricevimento di un pagamento maggiore di quello previsto dall'accordo concluso.
Anzi, posto che la variazione in aumento deve essere eseguita dal creditore solo se, ricevendo questi un pagamento maggiore di quello previsto dal piano, l'ammontare della variazione in diminuzione eseguita a seguito dell'accordo si rivela superiore alla perdita effettivamente subita dal creditore, è fisiologicamente da escludere che il presupposto dell'esecuzione della variazione in aumento possa essersi verificato ogniqualvolta l'accordo venga risolto a causa dell'inadempimento dell'impresa debitrice.
Pertanto, le suddette parole “dopo quella in aumento” contenute nel principio di diritto sono da considerare, quanto meno con riguardo alla generalità dei casi, prive di rilevanza.