Novità significativa della riforma è la possibilità per le parti di svolgere «attività di istruzione stragiudiziale», come stabilito dalle lettere s) e t) dell'art. 1, comma 4 della legge delega e dal nuovo comma 2-bis dell'art. 2 del d.l. n. 132/2014, ai sensi del quale «La convenzione di negoziazione può inoltre precisare, nei limiti previsti dal presente capo: a) la possibilità di acquisire dichiarazioni di terzi su fatti rilevanti in relazione all'oggetto della controversia; b) la possibilità di acquisire dichiarazioni della controparte sulla verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli alla parte nel cui interesse sono richieste».
Dunque a tale attività di acquisizione probatoria si potrà giungere solo se le parti dell'accordo di negoziazione (e i loro avvocati) siano d'accordo specificamente sul punto.
La prima modalità che il legislatore consente di realizzare è quella dell'acquisizione di dichiarazioni di terzi su fatti rilevanti in relazione all'oggetto della controversia di cui al nuovo art. 4-bis d.l. n. 132/2014.
Le parti possono prevedere all'interno della convenzione di negoziazione la possibilità di acquisire dichiarazione ad opera di terzi su fatti specificamente individuati e rilevanti in relazione all'oggetto della controversia presso lo studio professionale degli avvocati delle parti o presso il Consiglio dell'ordine degli avvocati, nel rispetto del principio del contraddittorio. Evidentemente deve trattarsi di fatti non solo rilevanti, ma anche incerti o controversi.
Inoltre, occorre che i limiti oggettivi propri della controversia siano chiari, i.e. sia chiaro il rapporto giuridico che intercorre tra le parti, nonché siano facilmente identificabili i fatti posti a fondamento della pretesa ed il relativo oggetto o petitum.
I terzi chiamati a rendere tali dichiarazioni sono - o per lo meno sono ritenuti - evidentemente, informati di quei fatti, per le ragioni più disparate. Per la dottrina che per prima si è interrogata sull'ambito di operatività del nuovo istituto deve escludersi che sia possibile ascoltare terzi informati solo relativamente a fatti secondari della vicenda (Basilico, Note sull'attività di istruzione stragiudiziale secondo la riforma del processo civile, in www.giustiziacivile.com)
Il comma 2 della norma impone il rispetto di alcuni standard nell'acquisizione della prova.
In particolare, «l'informatore, previa identificazione, è invitato a dichiarare se ha rapporti di parentela o di natura personale e professionale con alcuna delle parti o se ha un interesse nella causa, ed è altresì preliminarmente avvisato: a) della qualifica dei soggetti dinanzi ai quali rende le dichiarazioni e dello scopo della loro acquisizione; b) della facoltà di non rendere dichiarazioni; c) della facoltà di astenersi ai sensi dell'art. 249 c.p.c.; d) delle responsabilità penali conseguenti alle false dichiarazioni; e) del dovere di mantenere riservate le domande che gli sono rivolte e le risposte date; f) delle modalità di acquisizione e documentazione delle dichiarazioni».
Una volta rese le dichiarazioni, esse saranno raccolte in un documento, il quale, previa integrale lettura, sarà sottoscritto dal dichiarante e dagli avvocati (commi 4 e 5).
Quanto al regime di efficacia delle dichiarazioni rese, stabilisce il comma 6 che il documento che le contiene costituisce piena prova di quanto in esso attestato; inoltre, esso può essere prodotto in giudizio al fine di essere valutato dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento, ai sensi dell'art. 116, comma 1, c.p.c. Il giudice può anche disporre che l'informatore sia escusso come testimone.
La norma prende poi in considerazione il caso in cui l'informatore non si presenti o si rifiuti di rendere dichiarazioni, prevedendo che in tale eventualità la parte che ritiene necessaria la sua deposizione può chiedere, nel giudizio instaurato a seguito del mancato raggiungimento dell'accordo, che il giudice ne ordini l'audizione (comma 7). Nel medesimo comma è poi prevista la possibilità per la parte interessato di attivare un procedimento di istruzione a futura memoria ai sensi dell'art. 692 c.p.c., che in tal caso potrà essere richiesto non già per il fondato timore che i testimoni stiano per mancare, ma in ragione del loro rifiuto di rendere le deposizioni in sede di procedura stragiudiziale.
La convenzione di negoziazione potrà poi altresì prevedere anche la possibilità per ciascun avvocato di invitare la controparte a rendere per iscritto dichiarazioni su fatti, specificamente individuati e rilevanti in relazione all'oggetto della controversia, ad essa sfavorevoli e favorevoli alla parte nel cui interesse sono richieste.
Una volta rese, le dichiarazioni saranno verbalizzate per iscritto e il relativo documento sarà sottoscritto dalla parte e dall'avvocato che la assiste anche ai fini della certificazione dell'autografia.
Per espressa previsione normativa (art. 4-ter, comma 2), la dichiarazione così resa ha il valore di confessione stragiudiziale di cui all'art. 2735 c.c.
Particolarmente gravi sono le conseguenze del rifiuto della parte a rendere la dichiarazione, prevedendosi che «il rifiuto ingiustificato di rendere dichiarazioni sui fatti di cui al comma 1 è valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio, anche ai sensi dell'articolo 96, commi primo, secondo e terzo, del codice di procedura civile» (comma 3).
Siffatta previsione, invero, lascia perplessi: in un contesto ove già è stabilito che il giudice può valutare il rifiuto di negoziare come motivo di responsabilità aggravata o di concessione dell'esecutività provvisoria a un decreto ingiuntivo (art. 4, comma 1, l. n. 162/2014, non modificato dalla Riforma), prevedere l'applicazione dell'art. 96 anche alla parte che si sottrae all'interrogatorio stragiudiziale chiesto dalla controparte allo scopo di ottenere una confessione sembra francamente eccessivo, soprattutto quando si consideri che tali prove sono poi utilizzabili nel successivo eventuale processo che verrà attivato a seguito del fallimento della procedura di negoziazione.
Più in generale, può poi osservarsi come la possibilità di utilizzare le risultanze istruttorie acquisite stragiudizialmente all'interno del giudizio se da un lato costituisce un fattore di accelerazione dei tempi processuali, dall'altro riduce le garanzie difensive e il contraddittorio affidandoli nelle mani dei difensori.
A ciò si aggiunga che, come è stato plasticamente osservato (Tedoldi, Le ADR nella delega per la riforma del processo civile, in Questione giustizia, 2021, fasc. 3, 150) sperare «che nel contesto della negoziazione assistita parti e difensori s'impegnino a «vuotare il sacco» e a ricostruire i fatti controversi, con puro metodo adversarial e senza alcun coordinamento di un soggetto terzo, consentendo che le prove formatesi e le dichiarazioni rese vengano poi acquisite nel successivo processo coram iudice in caso di mancata conciliazione, appare wishful thinking francamente utopistico e, per vero, assai poco coerente con le finalità conciliative della negoziazione assistita, cui dovrebbero rimanere tendenzialmente estranei l'apparato e l'armamentario retorico della dialettica processuale e che dovrebbe, semmai, restare protetta dai successivi svolgimenti contenziosi, esattamente come avviene per la mediazione, soggetta a riservatezza e a divieti di utilizzazione delle dichiarazioni e delle attività anche istruttorie svolte in seno alla stessa, a mente degli artt. 9 e 10 d.lgs. n. 28/2010, come peraltro prevede anche l'art. 9 d.l. n. 32/2014 per la negoziazione assistita da avvocati, proprio allo scopo di agevolare un dialogo schietto e franco tra le parti, con incontri anche separati, senza il timore di esprimersi e, ancor meno, di rendere dichiarazioni con efficacia confessoria o di dare corso a prove contrarie ai propri interessi».
Insomma, la scelta legislativa non appare pienamente convincente, sia con riguardo alle dichiarazioni confessorie sia con riferimento alla acquisizione di dichiarazioni da parte di terzi. Relativamente a queste ultime molti ad esempio sono gli ostacoli che possono incontrare nella trasposizione dalla sede stragiudiziale a quella processuale; infatti, una volta prodotta la dichiarazione in giudizio, il giudice non potrà esimersi dal valutare quella testimonianza sulla base delle tradizionali regole di cui al codice civile e di quello processuale. Potrebbe allora accadere che la prova testimoniale sia illecita o sia raccolta illecitamente per cui non potrà essere utilizzata in giudizio; oppure la prova, seppure ammissibile, sarà ritenuta dal giudice non sufficientemente attendibile, per cui non ne terrà conto ai fini della decisione ed eventualmente ne disporrà la rinnovazione in fase istruttoria.
Da quanto appena osservato se ne ricava la scarsa utilità dello strumento, al netto di una sua intrinseca pericolosità: come già rilevato, la trasposizione dell'attività istruttoria al di fuori del processo e dunque in assenza di quell'organo di garanzia, qual è il giudice, costituisce l'ennesimo tentativo di «privatizzare» una attività che da secoli è affidata agli organi pubblici per evidenti ragioni di garanzia e di tutela degli interessi delle parti: «l'attività istruttoria non è promiscua, non è, cioè, realizzabile indistintamente dentro o fuori dal processo, perché la presenza del giudice è imprescindibile ed esclusiva: il giudice non opera, e quindi non governa, attività istruttoria fuori dal processo» (Basilico, Note sull'attività di istruzione stragiudiziale secondo la riforma del processo civile, cit.).