Come concretamente evidenziato negli esempi comparativi allegati alla sezione “Casistica” le due tabelle (milanese e romana), seppur improntate ai medesimi principi, si differenziano sul piano dei valori e dei meccanismi di calcolo in concreto utilizzati, portando a risultati monetari tra loro potenzialmente differenti.
Non solo. La stessa selezione dei legittimati attivi (più ampia quella romana) conduce a conseguenze diverse, a seconda del tipo di tabella in concreto applicata.
Potrà dunque accadere che i danneggiati chiedano l'applicazione della tabella milanese o di quella romana spinti, a seconda dei casi, da ragioni di pura convenienza.
Il che non ci pare possa significare che il giudice di merito sia vincolato alla richiesta o all'indicazione che la parte attrice vorrà dare nell'incardinare la causa e formulare la propria domanda risarcitoria in citazione; potrà, ma non dovrà necessariamente, applicare la tabella milanese del danno parentale (oggi “sdoganata” dalla Suprema Corte) laddove invocata dall'attore, così come disattendere tale richiesta e preferire quella romana, sostenendo la propria scelta con adeguata motivazione (e viceversa, naturalmente). Da chiedersi dunque se, come nel caso deciso dalla Corte, i parenti lesi che contestino la mancata applicazione dell'una o dell'altra tabella abbiano ancora la possibilità di ricorrere in Cassazione assumendo la violazione della regola equitativa prevista dall'art. 1226 c.c. (dal momento che secondo l'ordinanza n. 37009 entrambe le tabelle sembrano, seppur tra loro diverse, ossequiarne ugualmente il contenuto).
Rimane il fatto che l'incertezza sui criteri liquidativi in concreto seguiti – se milanesi o romani, a seconda del “sentire” del giudice – complicano un poco la pur fondamentale finalità deflattiva del contenzioso che il metodo tabellare persegue, ponendo potenzialmente a rischio (nel dubbio su quale tabella applicare) il buon esito del dialogo stragiudiziale volto alla liquidazione bonaria del danno, specie nel settore dell'assicurazione sanitaria e della rc auto (quest'ultima, peraltro, caratterizzata dagli stretti vincoli imposti all'assicuratore, quanto alla tempestiva offerta di una congrua offerta o di un motivato rifiuto della stessa).
È opportuno poi osservare come la segnalata differenza valutativa emerga con particolare evidenza soprattutto allorché si tratti del danno riflesso: e dunque non della perdita ma della grave lesione del rapporto parentale (si pensi ad esempio al caso della madre che chieda il risarcimento del danno, morale e dinamico relazionale, subito a seguito del grave danno alla salute riportato dal proprio figlio convivente, al quale dovrà dare assistenza vita natural durante).
Al riguardo, la Tabella Capitolina fornisce precise indicazioni, confermando la propria impostazione a punti e individuando il valore del punto base (6.000 euro), suddividendolo in due componenti, l'una afferente alle sofferenze morali e l'altra allo sconvolgimento del rapporto parentale sul piano dinamico relazionale (sconvolgimento a sua volta diversamente valutato in funzione del riconoscimento o meno, a favore della vittima primaria, di prestazioni assistenziali da parte di terzi).
A chiudere il cerchio, la valutazione complessiva del danno si ottiene moltiplicando la risultante del calcolo puntuale per la percentuale del danno biologico residuato alla vittima primaria.
Non altrettanto avviene nella tabella Milanese, la quale, nella sua nuova edizione 2022 - nel proprio allegato 2 (“domande e risposte”) - giustifica la mancanza di una tabella ad hoc con la non reperibilità di un numero di sentenze utile a una significativa ricognizione statistica. Per questo il giudice potrà valutare se avvalersi della stessa tabella “sul danno da perdita del rapporto parentale corrispondente al tipo di rapporto parentale gravemente leso, opportunamente adattando e calibrando la liquidazione al caso concreto, per quanto dedotto e provato”. Nessun riferimento a punti o alla misura del danno alla salute sofferto dal parente (macro)leso (riteniamo, peraltro, che la pretesa risarcitoria non sia neppure sostenibile in caso di lesioni di lieve o media entità). Ne deriva, con patente evidenza, che (soprattutto) in relazione al danno “riflesso” le due Tabelle non risultano affatto equipollenti, tantomeno sul piano dell'approccio metodologico. E mentre quella romana appare fedele all'impostazione abbracciata dalla Cassazione, quella milanese finisce per attribuire al giudice una libertà valutativa tanto piena da risultare antitetica alle indicazioni della Suprema Corte. È certamente apprezzabile l'onestà con la quale l'Osservatorio milanese ha dichiarato di non essere in condizione di stilare una tabella a punti, in assenza di basi statistiche adeguate a sostenerla.
E va di converso rilevato come la struttura tabellare romana non faccia alcun cenno circa il campione di sentenze che sarebbero state “osservate” prima di estrarre il valore del punto che è poi stato posto a fondamento del criterio di calcolo. Anche per tale ragione rimane, sullo sfondo, il dubbio che il danno parentale, e soprattutto il danno riflesso, non si presti a misurazioni esatte, ricavate dall'analisi della prassi, e sia invece meglio gestibile mediante una valutazione equitativa da compiersi caso per caso, seppur entro alcune coordinate di massima (come sempre avvenuto in passato, prima del cambio di passo voluto dalla Cassazione).
Il tema conduce ad altre complesse considerazioni, che certamente non potremo che limitarci ad enunciare in questa sede, relative al sostanziale rischio di far sì che dietro l'applicazione della esasperata tassonomia aritmetica predicata dalla Suprema Corte finisca per celarsi il riconoscimento di un danno parentale in re ipsa, in quanto dato per esistente al semplice ricorrere delle presunzioni anagrafiche proposte dai muovi metodi tabellari a punti. “Danno in re ipsa” che, in realtà, la stessa ordinanza in commento sconfessa espressamente, affermando apertis verbis che il danno parentale non sfugge all'onere della sua allegazione e prova, sia pure con presunzioni “non essendo predicabile, nel sistema della responsabilità civile, l'esistenza di una fattispecie di danno in re ipsa”. Al riguardo la Cassazione richiama la recentissima decisione con cui le Sezioni Unite (in senso conforme, di recente, Cass. sez. un. n. 33645/2022) hanno cercato di risolvere il contrasto tra l'orientamento della seconda e quello della terza civile in tema di liquidazione del danno nell'ipotesi di occupazione sine titulo di immobile. La questione posta dal contrasto era, al fondo, se di per sé la violazione del contenuto del diritto di proprietà, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria.
E le Sezioni Unite hanno dato al quesito risposta positiva, nei termini emersi nella linea evolutiva della giurisprudenza della seconda sezione civile, secondo cui la locuzione «danno in re ipsa» va sostituita con quella di «danno presunto» o «danno normale», privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato, premiando un'interpretazione che resterebbe coerente al significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subita in conseguenza di un fatto illecito e che si porrebbe come punto di mediazione fra la teoria normativa del danno, e quella della teoria causale del danno conseguenza. Ciò posto, il danno parentale costituisce altro terreno tipico di elezione in cui provare a riaffermare la teoria del danno in re ipsa, più o meno mistificato dietro al gioco di meccanismi presuntivi difficilmente vincibile da prova contraria. Certo, determinati eventi (come la morte di un parente) rappresentano, nella normalità, una perdita implicante dolore e sofferenza. Ma non sempre e non necessariamente. L'esperienza che si ritrae dal variegato e mutevole atteggiarsi delle relazioni umane rivela vicende familiari in cui la cifra affettiva è attenuata, se non azzerata e sostituite da sentimenti di ostilità. E non di rado, la fenomenologia del danno parentale è testimone di richieste risarcitorie svolte da parenti il cui legame affettivo con il de cuius si risveglia, quando non addirittura si genera, proprio in vista, e in funzione del confronto con il responsabile civile. Ecco perché occorre una certa attenzione nell'avallare percorsi probatori fondati su presunzioni frettolose o, peggio, su massime d'esperienza che potrebbero non riflettere affatto la consistenza e la qualità dello specifico rapporto affettivo (parentale) oggetto di indagine.
Merita dunque di esser messa in discussione la tendenza seguita dalla Corte nel dar incondizionato accesso a percorsi probatori presuntivi che finiscono per trasformarsi in apodittiche affermazioni di un danno la cui (diabolica) confutazione viene rimessa al convenuto/responsabile. A un convenuto che, normalmente, non si trova nella possibilità di fornire argomenti istruttori volti a superare la presunzione semplice (di sofferenza per la perdita di un rapporto parentale “ontologicamente” affettivo, in quanto stretto) su cui si fonda la richiesta risarcitoria dei parenti che si affermano lesi. Valga, al riguardo, quanto la Cassazione ha sostenuto nel dichiarare che la prova del danno non patrimoniale da sofferenza interiore per la perdita del congiunto può essere fornita mediante presunzione fondata sull'esistenza dello stretto legame di parentela riconducibile all'interno della famiglia nucleare, superabile dalla prova contraria, gravante sul danneggiante, imperniata non sulla mera mancanza di convivenza (che, in tali casi, può rilevare al solo fine di ridurre il risarcimento rispetto a quello spettante secondo gli ordinari criteri di liquidazione), bensì sull'assenza di un legame affettivo tra i superstiti e la vittima nonostante il rapporto di stretta parentela (Cass. 24 aprile 2019, n. 11212 e Cass. 31 gennaio 2019, n. 2788).
Ci troviamo dunque, anche in questo caso, di fronte ad un “danno normale” o presunto di cui hanno discusso le Sezioni unite nella citata sentenza n. 33645/2022; danno la cui distinzione dalla categoria di un danno in re ipsa, rischia di rimanere soltanto nominalistica e, perciò stesso discutibile. Rimane il fatto che anche sotto questo profilo di indagine la tabella romana non è si sovrappone del tutto a quella milanese; la quale ultima sembra presentare insidie diverse e maggiori proprio sul piano del riconoscimento in fatto di un danno in re ipsa da perdita del rapporto parentale. Ed invero l'Osservatorio del Tribunale di Milano, trattando delle “cinque circostanze considerate ai fini della distribuzione dei punti”, distingue le prime quattro – corrispondenti all'età della vittima primaria e della vittima secondaria, della convivenza tra le due, della sopravvivenza di altri congiunti – dalla quinta, afferente alla qualità e intensità della specifica relazione affettiva perduta. Mentre le prime quattro circostanze “hanno natura “oggettiva” e sono quindi “provabili” anche con documenti anagrafici, la quinta circostanza è di natura “soggettiva” e riguarda sia gli aspetti cd “esteriori” del danno da perdita del parente (stravolgimento della vita della vittima secondaria in conseguenza della perdita) sia gli aspetti cd “interiori” di tale danno (sofferenza interiore) e deve essere allegata, potendo poi essere provata anche con presunzioni”.
Ora, il danno parentale, nella sua morfologia sofferenziale variabile, da caso a caso e di famiglia in famiglia, presenta sfumature difficilmente comprimibili in algoritmi meccanici, specie se fondati sulla (chimerica) pretesa di valorizzare in modo razionale presunzioni a matrice sostanzialmente anagrafica. Merita di essere menzionata, al riguardo, la recente sentenza Cass. n. 11689/2022, che ben evidenzia la necessità di valutare analiticamente – senza ricorrere ad apodittiche affermazioni che riducono la motivazione ad una sostanziale dimensione di apparenza – tutte le singole circostanze di fatto che risultino effettivamente specifiche e individualizzanti, allo scopo di non ricadere nel vizio consistente in quella surrettizia liquidazione del danno non patrimoniale in un danno forfettario o (peggio) in re ipsa. E, ancor prima, il medesimo provvedimento chiarisce che il pregiudizio parentale è un danno che, per sua natura, richiede la specifica considerazione delle singole occorrenze dei rapporti parentali individualmente considerati, senza che possa soddisfare, a tal fine, il mero richiamo a considerazioni che attengono all'esame di altre realtà familiari, inevitabilmente caratterizzate da esperienze non altrove esportabili.
Tali (giuste) considerazioni collidono con l'idea di una tabella a punti che riconosca il risarcimento per il sol fatto che determinati indici o parametri anagrafici siano integrati, a prescindere dal più concreto apprezzamento della dimensione relazionale e affettiva del singolo rapporto parentale di cui si discorre. Non sembra al riguardo del tutto condivisibile che, come oggi predica la Tabella la mera allegazione del certificato anagrafico (o dello stato di famiglia) legittimi il riconoscimento di un danno commisurato a bel il 70% (!) dei punti disponibili. Nello specifico, poi, alcuni dei singoli indici risultano potenzialmente forieri di distorsioni applicative. Ad esempio, la convivenza con la vittima primaria può lasciar presumere (in modo peraltro superabile) un'alterazione esistenziale più grave e diversa rispetto a quella patita da chi con la vittima non conviveva; ma non in termini assoluti; non 16 (od 8) punti o niente. Ma soprattutto, sommando acriticamente i punteggi relativi all'età della vittima primaria, della vittima secondaria, alla convivenza e al numero dei superstiti in una data realtà familiare si otterrebbe un risarcimento automatico del danno pari alla moltiplicazione del punto per i diversi coefficienti individuati. Per un risultato che sarebbe lo stesso tanto in una famiglia caratterizzata da rapporti affettivi stretti, veri e autentici quanto in un contesto familiare connotato da odi personali marcatissimi.
Certo si potrebbe obiettare che tale meccanismo presuntivo sia vincibile con prova contraria. Ma come potrebbe mai il danneggiato trovare argomenti utili per ribaltare tale asettica valutazione presuntiva e dimostrare l'effettivo stato delle relazioni e dei relativi pregiudizi? Forse dando incarico a investigatori privati, a cui affidare l'arduo compito di ricostruire (e a che prezzo...) la autentica fenomenologia di una data relazione parentale? Insomma, il rischio di un automatismo insidioso non convince del tutto, e non risulta ammortizzato dalla necessità di una più precisa prova (anche presuntiva) prevista dalla nuova tabella milanese per personalizzare il danno quotando (sino a un massimo di 30 punti…) la qualità ed intensità della relazione affettiva/prossimità di vita in funzione di altri indici (contatti e frequentazioni de visu, telefonici o digitali, condivisioni di vacanze, hobby e sport etc.). Qui si insinua un evidente paradosso: nel caso in cui, per avventura, una data relazione non fosse connotata da alcuna frequentazione personale (o digitale o telefonica), da nessuna condivisione di vacanze, festività, ricorrenze, lavoro o sportiva, ebbene anche in tali casi il danno non sarebbe comunque negato, al ricorrere degli altri indici presuntivi anagrafici (età, convivenza etc.).
E ciò pur a fronte di un quadro relazionale talmente desolante da lasciar (qui sì) presumere un totale azzeramento dell'usuale matrice affettiva che connota un normale rapporto parentale. Si tratta di un'impostazione opinabile, anche in considerazione del principio di vicinanza della prova che nella moderna società digitale potrebbe esser agevolmente fornita dal parente che agisce per il ristoro del proprio danno. È lui a disporre di tutti gli elementi utili (cronologia di messaggi, Whatsapp, prenotazioni on line, fotografie, social etc.) a strutturare (presuntivamente) la corteccia probatoria di base, ossia il fatto che quel dato rapporto parentale è davvero affettivo, stabile e sufficientemente assiduo da lasciar, del tutto naturalmente, ritenere che la sua perdita costituisca un danno per chi l'ha patita. Sarebbe dunque auspicabile un'inversione della logica presuntiva che, al contrario, oggi pare l'ubi consistam dello schema milanese, i cui (fin troppo) rigidi schemi anagrafici risultano, astrattamente, sufficienti a riconoscere un danno economicamente importante (sino 70% del montante disponibile), a cui andrebbero poi ad aggiungersi le poste incrementali fondate su coordinate relazionali che dovrebbero invece integrare il substrato probatorio dell'esistenza di ogni e qualsiasi relazione parentale autenticamente affettiva. L'attribuzione dei punti, a ben vedere, dovrebbe muovere da una logica inversa: provati gli elementi caratterizzanti la perdita/lesione del rapporto parentale (e solo una volta raggiunta tale prova), troverebbero applicazione i criteri “anagrafici”. Al contrario, per come è strutturata oggi la tabella meneghina, prima vengono attribuiti i punteggi che non riposano su allegazioni probatorie diverse dal certificato anagrafico/stato di famiglia, poi quelli che effettivamente concorrono a determinare l'esistenza di un pregiudizio parentale, in un cortocircuito probatorio opinabile.
Tanto più in considerazione di quanto sostenuto dalle Sezioni unite a proposito del fatto che l'onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass. 31 agosto 2020, n. 18074), in relazione ai quali “poiché́ non si compie l'effetto di cui all'art. 115, comma 1, c.p.c., per i fatti ignoti al danneggiante l'onere probatorio sorge comunque per l'attore, a prescindere dalla mancanza di contestazione” (Cass. sez. un. n. 33645/2022).
Diversa invece pare l'impostazione del Tribunale di Roma, la cui relazione illustrativa alla tabella del danno parentale sembrerebbe riportare l'operatività dei meccanismi presuntivi entro rapporti di interazione più razionali e più rispettosi degli ordinari principi di allegazione e (vicinanza della) prova degli elementi fondanti attorno ai quali si struttura l'essenza prima del danno parentale. Il condizionale è però d'obbligo, dal momento che quella stessa relazione illustrativa presenta passaggi critici e contraddittori, tra loro difficilmente armonizzabili. Così, in prima battuta, si chiarisce che i cinque fattori di influenza del risarcimento (rapporto di parentela, età del congiunto, età della vittima e convivenza) operano una volta ritenuta provata la esistenza di una seria relazione affettiva; il che sembra riportare in capo all'attore quell'onere della prova che del tutto naturalmente dovrebbe assolvere (anche a mezzo di presunzioni specifiche e non genericamente anagrafiche) per dimostrare l'esistenza di un rapporto familiare affettivamente qualificato e come tale meritevole di tutela. Sennonché individuando il differente punteggio attribuito ai diversi gradi di parentela della vittima secondaria con il de cuius la relazione afferma che “Il punteggio può essere diminuito fino alla metà in relazione alla situazione correlata alla effettiva esistenza di un serio rapporto affettivo o annullato in caso di prova di assenza di un vincolo effettivo”.
Ciò pone più di un problema di lettura, lasciando aperto il dubbio su chi debba dimostrare l'intensità di quel vincolo affettivo, la cui totale “assenza” sembrerebbe peraltro dover esser dimostrata dal responsabile civile, a superamento della presunzione anagrafica di partenza. D'altra parte vien da chiedersi cosa dovrebbe accadere agli altri parametri laddove il punteggio relativo alla relazione parentale si azzerasse, dovendosi immaginare che tale azzeramento – riguardando la stessa matrice affettiva di base, in assenza della quale di danno neppure dovrebbe potersi parlare - dovrebbe precludere qualsiasi possibilità di applicare in automatico gli altri fattori di modulazione del danno parentale risarcibile. Anche parlando di convivenza, poi, la Tabella Romana mostra poca chiarezza espositiva: da un lato, dopo averla definita (soltanto in relazione al danno riflesso…) come un rapporto affettivo caratterizzato da un serio e prolungato vincolo di natura parafamiliare da cui si desuma un intento di programmare una vita comune, afferma che il riconoscimento del punteggio “postula” (e quindi da per presupposta, ndr) la prova di un rapporto affettivo concretamente esistente.
Dall'altro sostiene che tale punteggio “può essere ridotto fino alla metà o annullato in situazioni in cui ciò̀ non si desuma (si pensi ad una separazione con addebito al coniuge superstite, o una mancata frequentazione pluriannuale con un familiare trasferitosi altrove etc.). Affermazione che non pare compatibile con quella, contenuta in un passaggio precedente della relazione, in cui si afferma che la mancata convivenza comporta una riduzione del computo finale del risarcimento (in misura - diversamente e non coerentemente indicata in due diversi passi – pari ad un terzo o ad un mezzo del valore totale desunto dalla sommatoria degli altri indici).