Si può considerare consolidato l'orientamento giurisprudenziale di legittimità che ammette alla tutela sociale contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali le patologie determinate dalle condizioni organizzativo/ambientali di lavoro, che si aggiungono a quelle derivate dai tradizionali rischi chimici, fisici e biologici, che l'INAIL tutela da tempo.
Nel 1986 l'Organizzazione Internazionale del Lavoro ha definito i rischi psicosociali, come quei rischi che generano “una interazione tra contenuto del lavoro, gestione, organizzazione del lavoro, condizioni ambientali e organizzative e tra competenze ed esigenze dei lavoratori dipendenti”.
Si tratta, allora, di patologie che scaturiscono dall'organizzazione aziendale delle attività lavorative, come, ad esempio, da stress lavoro correlato, da mobbing o da costrittività organizzativa.Secondo una definizione fornita dal National Institute for Occupational Safety and Health “lo stress dovuto al lavoro può essere definito come un insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste poste dal lavoro non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore. Lo stress connesso al lavoro può influire negativamente sulle condizioni di salute e provocare persino infortuni” (NIOSH, Stress at work, 1999). Nell'Accordo quadro sul valore dello stress lavorativo e sulle politiche da adottare per prevenirlo, sottoscritto nel 2004 dalle quattro maggiori organizzazioni europee rappresentative delle parti sociali (ETUC, UNICE, UEAPME e il CEEP), lo stress è definito come “una condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all'altezza delle aspettative” (art. 3 dell'Accordo).
Per mobbing, in assenza di una definizione normativa, si intende normalmente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.
Ai fini della sua configurabilità devono ricorrere: “a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi” (Cass. 11 dicembre 2019, n. 32381).
Per quanto riguarda la costrittività organizzativa, l'INAIL ne ha elencato, in termini esemplificativi, alcune ipotesi, come la marginalizzazione dalla attività lavorativa, lo svuotamento delle mansioni, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata, la mancata assegnazione degli strumenti di lavoro, i ripetuti trasferimenti ingiustificati, la prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto, la prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psico-fisici, l'impedimento sistematico e strutturale all'accesso a notizie, l'inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l'ordinaria attività di lavoro, l'esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale, l'esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo (circolare 17 dicembre 2003, n. 71).
L'Autorità giudiziaria amministrativa, come si è ricordato nella descrizione del caso, ha annullato sia la circolare summenzionata sia il decreto ministeriale 27 aprile 2004, contenente l'elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi dell'art. 139, DPR n. 1124/65; ciò non ha impedito all'Istituto di continuare ad indennizzare le tecnopatie derivate dalle disfunzioni dell'organizzazione del lavoro riportate dal lavoratore assicurato, attualmente inserite negli elenchi di cui al D.M. 10 giugno 2014 (GU 12 settembre 2014, n. 212), trattandosi di malattie professionali non tabellate, il cui accesso alla tutela è subordinato alla dimostrazione, in termini di ragionevole certezza o di rilevante grado di probabilità (Cass. 10 aprile 2018, n. 8773), della loro connessione causale con lo stress lavoro-correlato.
La Corte di Cassazione, pertanto, non poteva che annullare le sentenze delle Corti territoriali, proprio perché fondate sul principio del rischio professionale, inteso come rischio proprio dell'impresa, oramai superato dal fondamento costituzionale della tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, entrambi assunti dall'art. 38 Cost. come eventi generatori di un bisogno socialmente rilevante, tutelabili per il semplice fatto che siano stati causati dal lavoro in sé e per sé considerato.
Dunque tutte le malattie professionali, anche quelle non contenute nelle tabelle di cui agli artt. 3 e 211, d.P.R. n. 1124/65, come quelle derivate dallo stress, dal mobbing o da episodi di costrittività organizzativa, sono indennizzabili se il lavoratore ne dimostri l'origine professionale (art. 10, comma 4, D.lgs. n. 38/2000).