Posto che il fatto oggetto delle pronunce è assodato e non discusso, la questione giuridica si incentra sulla norma richiamata.
L'art. 1, comma 1, della legge 19 aprile 1925, n. 475, recante “Repressione della falsa attribuzione di lavori altrui da parte di aspiranti al conferimento di lauree, diplomi, uffici, titoli e dignità pubbliche”, dispone che «Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta come proprii, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno». Ed il capoverso sancisce che «la pena delle reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito».
La disposizione va coordinata, per una visione d'insieme, con il comma 1 del successivo art. 2, in forza del quale «Chiunque esegue e procura dissertazioni, progetti tecnici, e in genere lavori per gli scopi dell'articolo precedente, è punito a norma della prima parte dell'articolo stesso. È punito a termine del capoverso del detto articolo se l'aspirante consegua l'intento».
Appare ben ovvia la vetustà della norma, pressoché centenaria, nonché la classica immagine che ne deriva: lo studente che presenta una tesi di laurea in realtà opera altrui ovvero che ad un esame (ad esempio: quello di maturità) consegna un elaborato fornitogli da altri (di soppiatto…).
Si tratterebbe, quindi, di vagliare se il caso non rientri nella fattispecie fissata dall'art. 1 della legge n. 475 e, di conseguenza, il richiamo sarebbe un'operazione analogica, ovvero se possa, invece, rientrarvi mediante un'operazione ermeneutica di interpretazione estensiva.
Com'è noto, le preleggi, dopo aver disposto, all'art. 12, comma 2, la regola generale dell'analogia per l'ordinamento giuridico, ne vieta l'applicazione per il settore penale nel successivo art. 14, ove testualmente afferma che “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o a altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. Divieto di analogia, peraltro, sancito anche dall'art. 25, comma 2, Cost. e dall'art. 1 c.p.
Come affermato, anche di recente, dalla Corte costituzionale, il divieto di applicazione analogica della legge penale a sfavore del reo rappresenta un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice dal momento che il testo della legge deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore. Il divieto di analogia rappresenta un corollario indefettibile tanto della riserva di legge, quanto della determinatezza della fattispecie penale: assicura il rispetto della separazione dei poteri, da un lato, e la garanzia soggettiva della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, dall'altro, garantendo, al contempo, il monopolio delle scelte punitive in capo al Parlamento e una percezione sufficientemente chiara ed immediata, nei confronti di ciascun cittadino dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (Corte cost., 14 maggio 2021, n. 98).
Di converso, l'interpretazione estensiva si ha quando l'ambito di applicazione di una norma penale viene esteso ad un caso che, pur non essendo espressamente ivi previsto, si deve ritenere compreso nella norma stessa risalendo alla intenzione del legislatore, cui si riferisce l'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale. In altri termini, l'interpretazione estensiva non amplia il contenuto effettivo della norma, ma impedisce che fattispecie ad essa soggette si sottraggano alla sua disciplina per un ingiustificato rispetto di manchevoli espressioni letterali. È infatti dovere dell'interprete applicare la norma più ampiamente di quanto la dizione letterale comporterebbe, in modo da far coincidere esattamente la portata della norma stessa con il pensiero e la volontà del legislatore (Cass. pen., sez. V, 2 aprile 1986, in Cass. pen, 1987, p. 1116; Cass. pen., sez. V, 8 gennaio 1980, ivi, 1981, p. 1033).
Pertanto, l'interpretazione estensiva è un criterio ermeneutico con il quale si attribuisce il più ampio significato, fra quelli possibili, ai termini che definiscono la norma, che trova, però, il proprio limite invalicabile nella stessa lettera della legge. L'analogia, invece, è un procedimento di astrazione logica, attraverso il quale viene risolto un caso non previsto dalla legge, applicando la disciplina espressamente prevista per un caso diverso, ma collegato a quello in esame da un rapporto di similitudine (Cass. pen., sez. II, 27 febbraio 2003, n. 21168, in Giur.it., 2004, c. 1926).
In definitiva, nel diritto penale, a fronte del divieto dell'analogia è pur consentita un'interpretazione estensiva (Cass. pen., sez. IV, 30 gennaio 2019, n. 27539; Cass. pen., sez III, 16 ottobre 2013, n. 2856; Cass. pen., sez. VI, 24 maggio 2011, n. 29581; Cass. pen., 13 luglio 2009, n. 39078).