La Suprema Corte fra analogia ed interpretazione estensiva di una norma centenaria
09 Marzo 2023
Massima
Comunicare per telefono cellulare ai candidati le soluzioni dei quesiti posti nella prova di ammissione nelle facoltà universitarie a “numero programmato” rientra nella fattispecie di cui all'art. 1, comma 1, della legge 19 aprile 1925, n. 475, senza ricorrere all'uso dell'analogia, peraltro vietata nel diritto penale. Il caso
Nel contesto delle prove di ammissione ad alcune facoltà universitarie c.d. “a numero programmato”, gli imputati ricevevano, tramite telefono cellulare, le soluzioni e le corrette risposte ai quesiti posti dai questionari oggetto di tali prove da parte di un soggetto che, per la sua qualifica, ne era a conoscenza. Il giudice di primo grado, derubricata l'iniziale imputazione di associazione a delinquere, li condannava ai sensi dell'art. 1, comma 1, della legge 19 aprile 1925, n. 475, riconoscendo le circostanze generiche e concedendo la sospensione condizionale della pena, nonché al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, patito dagli Atenei costituitisi parte civile. In sede di Appello, la Corte dichiarava gli imputati prosciolti in quanto i relativi reati erano estinti per prescrizione, e confermando, per quanto qui non rileva, le statuizioni civili. Nell'adire alla Corte di cassazione, i ricorrenti censuravano le statuizioni dei giudici di merito, sostenendo che la fattispecie concreta in oggetto non aveva rilevanza penale, mentre era stata effettuata una inammissibile interpretazione analogica della norma precettiva riferita e considerandone, pertanto, la violazione. La Suprema Corte rigettava il ricorso, affermando che la condotta può pienamente rientrare nell'ipotesi criminosa dell'art. 1, comma 1, legge n. 475/1925, senza dover ricorrere alla interpretazione analogica ma operando, sia pur limitatamente a certi lemmi della norma, un'interpretazione estensiva. La questione
Posto che il fatto oggetto delle pronunce è assodato e non discusso, la questione giuridica si incentra sulla norma richiamata. L'art. 1, comma 1, della legge 19 aprile 1925, n. 475, recante “Repressione della falsa attribuzione di lavori altrui da parte di aspiranti al conferimento di lauree, diplomi, uffici, titoli e dignità pubbliche”, dispone che «Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta come proprii, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno». Ed il capoverso sancisce che «la pena delle reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito». La disposizione va coordinata, per una visione d'insieme, con il comma 1 del successivo art. 2, in forza del quale «Chiunque esegue e procura dissertazioni, progetti tecnici, e in genere lavori per gli scopi dell'articolo precedente, è punito a norma della prima parte dell'articolo stesso. È punito a termine del capoverso del detto articolo se l'aspirante consegua l'intento». Appare ben ovvia la vetustà della norma, pressoché centenaria, nonché la classica immagine che ne deriva: lo studente che presenta una tesi di laurea in realtà opera altrui ovvero che ad un esame (ad esempio: quello di maturità) consegna un elaborato fornitogli da altri (di soppiatto…). Si tratterebbe, quindi, di vagliare se il caso non rientri nella fattispecie fissata dall'art. 1 della legge n. 475 e, di conseguenza, il richiamo sarebbe un'operazione analogica, ovvero se possa, invece, rientrarvi mediante un'operazione ermeneutica di interpretazione estensiva. Com'è noto, le preleggi, dopo aver disposto, all'art. 12, comma 2, la regola generale dell'analogia per l'ordinamento giuridico, ne vieta l'applicazione per il settore penale nel successivo art. 14, ove testualmente afferma che “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o a altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. Divieto di analogia, peraltro, sancito anche dall'art. 25, comma 2, Cost. e dall'art. 1 c.p. Come affermato, anche di recente, dalla Corte costituzionale, il divieto di applicazione analogica della legge penale a sfavore del reo rappresenta un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice dal momento che il testo della legge deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore. Il divieto di analogia rappresenta un corollario indefettibile tanto della riserva di legge, quanto della determinatezza della fattispecie penale: assicura il rispetto della separazione dei poteri, da un lato, e la garanzia soggettiva della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, dall'altro, garantendo, al contempo, il monopolio delle scelte punitive in capo al Parlamento e una percezione sufficientemente chiara ed immediata, nei confronti di ciascun cittadino dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (Corte cost., 14 maggio 2021, n. 98). Di converso, l'interpretazione estensiva si ha quando l'ambito di applicazione di una norma penale viene esteso ad un caso che, pur non essendo espressamente ivi previsto, si deve ritenere compreso nella norma stessa risalendo alla intenzione del legislatore, cui si riferisce l'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale. In altri termini, l'interpretazione estensiva non amplia il contenuto effettivo della norma, ma impedisce che fattispecie ad essa soggette si sottraggano alla sua disciplina per un ingiustificato rispetto di manchevoli espressioni letterali. È infatti dovere dell'interprete applicare la norma più ampiamente di quanto la dizione letterale comporterebbe, in modo da far coincidere esattamente la portata della norma stessa con il pensiero e la volontà del legislatore (Cass. pen., sez. V, 2 aprile 1986, in Cass. pen, 1987, p. 1116; Cass. pen., sez. V, 8 gennaio 1980, ivi, 1981, p. 1033). Pertanto, l'interpretazione estensiva è un criterio ermeneutico con il quale si attribuisce il più ampio significato, fra quelli possibili, ai termini che definiscono la norma, che trova, però, il proprio limite invalicabile nella stessa lettera della legge. L'analogia, invece, è un procedimento di astrazione logica, attraverso il quale viene risolto un caso non previsto dalla legge, applicando la disciplina espressamente prevista per un caso diverso, ma collegato a quello in esame da un rapporto di similitudine (Cass. pen., sez. II, 27 febbraio 2003, n. 21168, in Giur.it., 2004, c. 1926). In definitiva, nel diritto penale, a fronte del divieto dell'analogia è pur consentita un'interpretazione estensiva (Cass. pen., sez. IV, 30 gennaio 2019, n. 27539; Cass. pen., sez III, 16 ottobre 2013, n. 2856; Cass. pen., sez. VI, 24 maggio 2011, n. 29581; Cass. pen., 13 luglio 2009, n. 39078). Le soluzioni giuridiche
La Cassazione delinea, sia pur sommariamente nella parte motiva della sentenza in oggetto, tale distinzione fra analogia ed interpretazione estensiva, condividendo la precedente giurisprudenza sul tema, ma conclude nel senso che la fattispecie concreta rientra perfettamente nella norma, escludendo così che la Corte d'appello abbia operato un'interpretazione analogica, come sostenuto dalla difesa dei ricorrenti. Il primo punto era la previsione, nella norma del 1925, dell'uso di lavori altrui per il conseguimento di “lauree” o (…) ogni altro “titolo accademico”, mentre nel caso in esame trattavasi di prove da sostenere onde accedere alla iscrizione ad università universitarie a “numero programmato”. Ad avviso della Suprema Corte tali prove rientrano assolutamente della previsione normativa, posto che il positivo superamento delle stesse costituisce il “titolo”, cioè la condizione abilitante per ottenere la successiva iscrizione al corso di laurea in questione. E sottolinea come sia irrilevante, ai fini del perfezionamento del reato, il fatto che, poi, il soggetto abbia o meno utilizzato detto “titolo” onde ottenere la iscrizione al corso in questione. L'ulteriore questione riguardava la descrizione normativa della condotta incriminata, ossia presentare come propri “lavori che siano opera di altri”, tenendo presente che il fatto consisteva nel ricevere da terze persone la soluzione da dare ai quesiti sottoposti in sede di esame. Le due fattispecie (concreta ed astratta) sarebbero pienamente calzanti in base ad una interpretazione estensiva del lemma “lavori”, da intendersi come ogni sorta di “elaborati” frutto di un qualche impegno altrui, che il candidato faccia passare come propri. Concludendo, la Cassazione esclude che la Corte di Appello, come sostengono i ricorrenti, abbia fatto cattivo governo delle disposizioni che inibiscono, nella materia penale incriminatrice, l'uso dello strumento dell'analogia, posto che non sussistono lacune normative nella disposizione e che, pertanto, deve confermarsi la rilevanza penale delle condotte poste in essere. Correttamente, pertanto, il giudice del gravame, così rubricato il fatto, ne ha dichiarato l'avvenuta prescrizione. Osservazioni
Nell'esaminare la applicabilità di tale previsione normativa al caso in oggetto possono presentarsi alcuni dubbi in ordine a vari elementi, quali, ad esempio, la trasmissione (allora impensabile) di un suggerimento orale tramite telefono cellulare, e la compilazione di un questionario, ove le soluzioni ai singoli quesiti vengono fissate tramite un segno marcato (in genere: una X) su quelle ritenute corrette fra le molteplici possibilità evidenziate: ben diverse, quindi, da “dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici o lavori altrui” menzionati all'art. 1, comma 1, legge n. 475/1925. In ogni caso, a tale proposito può evidenziarsi come la stessa Suprema Corte, in riferimento all'art. 2 legge 475/1925, che richiama, come già cennato, il precedente art. 1 per la punibilità di chi comunica al candidato le soluzioni ai quesiti posti dalla prova, ha ritenuto che la condotta prevista da tale normativa è configurabile anche laddove l'agente, attraverso una comunicazione telefonica, abbia fornito all'esaminando le risposte dell'esame teorico per l'ottenimento della patente di guida (Cass. pen., sez. V, 30 marzo 2017, n. 26438). Infatti, la citata disposizione riguarda non solo la composizione di un atto materiale apparentemente attribuibile all'autore, ma anche il fornire per telefono indicazioni e soluzioni atte a mettere in condizione l'apparente titolare del lavoro presentato per superare un test, un esame o una qualsivoglia prova che dia diritto a un riconoscimento di natura giuridica (Cass. pen., sez. V, 15 luglio 2020, n. 25027). Il riferimento a tale giurisprudenza, particolarmente pertinente al caso scrutinato, avrebbe forse potuto evitare alla Corte, nel caso di cui alla sentenza de qua, uno slalom ermeneutico fra interpretazione analogica e quella estensiva ovvero, comunque, rafforzarne la pronuncia.
Riferimenti
Pittaro, Interpretazione della legge penale, in IUS Penale (ius.giuffrefl.it), 15 marzo 2018. |