Gli elementi costitutivi dell'azione di arricchimento senza causa sono cinque: 1) l'arricchimento; 2) il pregiudizio; 3) la correlazione tra pregiudizio ed arricchimento; 4) la mancanza di giusta causa; 5) la sussidiarietà dell'azione.
A differenza di quanto accade nel sistema giuridico tedesco, non viene dal nostro ordinamento affermato il principio generale che vieta di arricchirsi senza causa a spese di un altro, relegandosi l'azione in una posizione del tutto marginale e residuale, dopo la ripetizione dell'indebito e la gestione d'affari altrui. La scarsa attenzione data a tale rimedio fa sì che il divieto generale che vieta di arricchirsi senza causa resti sullo sfondo, con il rischio tuttavia di non essere ben chiari né i contenuti né l'ambito di operatività di tale azione.
Nell'ordinamento italiano la sussidiarietà dell'azione è stata da sempre intesa in senso astratto, come «non spettanza di azioni rientranti nella previsione di altre norme giuridiche» (Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli 2017, 712); ciò in quanto la possibilità di esperire una azione per ottenere l'indennizzo escluderebbe una situazione di definitivo impoverimento del danneggiato, anche in considerazione del fatto che se si opinasse diversamente si rischierebbe di offrire all'attore la possibilità di ottenere duplicazioni risarcitorie.
Anche la giurisprudenza ragiona in questo senso, tuttavia precisandosi che l'impossibilità di esperire l'azione di arricchimento deriva dalla presenza non già di un qualunque rimedio, ma di una azione tipica, i.e. relativa ad un contratto o prevista dalla legge (Cass. 31 gennaio 2017, n. 2350; Cass. 22 marzo 2012, n. 4620, in Vita Notar., 2012, 793; Cass. 5 agosto 1996, n. 7136).
Da tale premessa discendono quali naturali conseguenze che l'azione di ingiustificato arricchimento non è esperibile quando: 1) l'azione tipica non sia più possibile perché l'impoverito è incorso in prescrizione o decadenza (Cass. 27 novembre 2018, n. 30614; Cass. 29 dicembre 2011, n. 29916; Cass. 10 giugno 2005, n. 12265); 2) il giudice adito ha rigettato l'azione tipica nel merito (Cass. 13 marzo 2013, n. 6295; Cass. 5 marzo 1991, n. 2283). Al contrario, l'azione deve ritenersi ammissibile quando l'azione tipica dia esito negativo per carenza ab origine dell'azione stessa derivante da un difetto del titolo posto a suo fondamento, oppure qualora la domanda ordinaria, dopo essere stata proposta, non sia stata più coltivata dall'interessato (Cass. 2 agosto 2013, n. 18502).
A tale nozione di sussidiarietà se ne contrappone un'altra declinata per così dire in senso concreto, a mente della quale è possibile agire ex art. art. 2041 c.c. quando, per qualsiasi ragione, non vi sia la possibilità di utilizzare altri rimedi per rimuovere il pregiudizio subito. Tale possibilità, in passato ammessa sporadicamente in giurisprudenza con particolare riguardo alle ipotesi di arricchimento indiretto, nelle quali l'incremento patrimoniale è realizzato da una persona diversa rispetto a quella cui era destinata la prestazione dell'impoverito (Cass. 22 maggio 2015, n. 10663; Cass. 3 agosto 2002, n. 11656, in Corr. giur., 2003, 1177), appare quella a mio avviso maggiormente condivisibile, alla luce delle seguenti considerazioni.
A prescindere dalla circostanza che in molti altri ordinamenti quali quelli di common law e quello tedesco l'azione di arricchimento non è considerata residuale, va considerato che nella realtà il problema della sussidiarietà sorge soprattutto quando il rimedio concorrente non è più usufruibile.
Ora, si è visto come in giurisprudenza si stia consolidando sempre di più una nozione di sussidiarietà "in astratto", in virtù della quale ai fini dell'esclusione del rimedio non si richiede in concreto la prova di un rimedio concorrente concretamente utilizzabile, ma è sufficiente che un tale rimedio risulti configurato "in astratto", anche se poi "in concreto" l'azione non sia esperibile per questioni processuali, preliminari di merito (si pensi alla prescrizione) o attinenti al merito.
Seguendo questa impostazione si finisce però per ridurre all'osso le possibilità di applicazione dell'azione di arricchimento, nonostante tale conclusione non discenda dall'art. 2042 c.c., il quale non implica affatto di per sé la regola di sussidiarietà in astratto accolta dalla Corte di Cassazione, ben potendo la norma essere interpretata anche nel senso di consentire il ricorso ai rimedi restitutori per lo meno quando i rimedi concorrenti non sono più di fatto usufruibili (c.d. sussidiarietà in concreto).
Lungi dall'approvare le tendenze (vecchie e nuove) manifestate dalla giurisprudenza, meriterebbe allora di essere rivista e ridiscussa l'intera questione della sussidiarietà, fermo restando la necessità di evitare che mediante l'azione di arricchimento si possa aggirare o frodare la legge (art. 1344 c.c.).
Come è stato correttamente osservato, è proprio in base al combinato disposto degli artt. 2042 e 1344 c.c. che va interpretato il principio di sussidiarietà, escludendo che «ogni applicazione dell'azione di arricchimento la cui funzione sia quella di aggirare, escludere, o in qualche modo eludere l'applicazione di norme imperative» (Gallo, Arricchimento senza causa, in Dig. disc. priv., Sez. civ., 2011, 99 ss., in part. 112).