La sentenza in commento affronta un tema certamente complesso in quanto ruota intorno all'istituto delle collaborazioni organizzate dal committente, di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 81/2015, come modificato dalla l. n. 129/2019, fattispecie con cui il legislatore ha cercato di offrire copertura normativa e tutele piene a quelle nuove tipologie contrattuali, frutto dell'evoluzione del mercato del lavoro e dell'economia digitale, che sono emerse negli ultimi anni, ponendosi lungo il crinale tra lavoro subordinato e lavoro autonomo.
Lo scopo del legislatore è stato quello di contrastare le nuove forme di precariato, cercando di superare l'inadeguatezza degli istituti contrattuali classici, colmando un vuoto normativo sulla spinta anche dell'azione della giurisprudenza che ha riservato massima attenzione a tali fenomeni, in primis a quello dei cd. riders, categoria lavorativa emblematica della Gig-economy, le cui sorti sono divenute di grande attualità per l'ampiezza del fenomeno e per i suoi risvolti sociali ed economici.
Una vexata questio che tale è rimasta anche a seguito dell'intervento normativo ex art. 2 d.lgs. n. 81/2015.
La ratio della norma è chiara: estendere le tutele del lavoro subordinato a quelle categorie di lavoratori autonomi soggetti alla completa etero-organizzazione dell'imprenditore; estendere tali tutele senza creare un terzo tipo contrattuale e senza volere che il rapporto di collaborazione si trasformi in rapporto di lavoro subordinato.
Nell'estensione del campo di applicazione della disciplina del lavoro subordinato, ferma la volontà di non trasformare la natura del rapporto, il legislatore non si è posto il problema della compatibilità delle norme sulla subordinazione con lo schema contrattuale delle collaborazioni, tant'è che la formulazione della norma non contiene alcuna clausola di salvezza in tal senso. Ne consegue un'interpretazione obbligata della norma, sebbene evidentemente radicale, troppo drastica, ossia quella per cui è da ritenersi applicabile l'intera disciplina del lavoro subordinato.
Peraltro, questa è la linea interpretativa emersa anche in sede amministrativa, oltre che giudiziaria, giacché il Ministero del Lavoro, con la Circolare n. 3/2016, ha affermato il principio dell'integrale applicabilità delle norme del lavoro subordinato, di fatto sposato anche dall'Ispettorato Nazionale del Lavoro, che, con la Circolare n. 7/2020, ha valutato alcuni istituti ispettivi ed alcune tutele lavoristiche ai fini della loro applicabilità alle collaborazioni ex art. 2 d.lgs. n. 81/2015, scontrandosi, comunque, per alcune tematiche, con la intrinseca differenza che c'è tra tale modello contrattuale e quello della subordinazione. Tale complessa conciliabilità è emersa, soprattutto, in tema di tempi di lavoro e specificatamente in relazione ai limiti massimi dell'orario di lavoro, alle pause e ai riposi (ex d.lgs. n. 66/2003), risultando, per alcune forme di collaborazione proprio come quelle dei ciclo-fattorini (riders), una complessità difficilmente risolvibile.
Il problema della compatibilità, superabile a fronte della possibilità, caso per caso, di affrontare alcune difficoltà applicative, si pone in materia antinfortunistica, anti-discriminatoria, per alcune norme di tutela della libertà e dignità dei lavoratori di cui al Titolo I della legge n. 300/1970, in ordine alla tutela retributiva, nonché sul fronte previdenziale e contributivo.
Invero, proprio Cassazione n. 1663/2020, sentenza cardine – come detto – in materia, la quale ha tracciato un completo e significativo indirizzo interpretativo sulla qualificazione dell'attività dei raiders e, più in generale, sulla norma ex art. 2 d.lgs. n. 81/2015, tanto da orientare la giurisprudenza successiva ed il dibattito dottrinale, ha affermato che non possono escludersi situazioni in cui l'applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell'ambito dell'art. 2094 c.c.
Nel caso affrontato dalla sentenza in commento non è la fattispecie in sé ad essere incompatibile ontologicamente con l'integrale applicabilità della disciplina del lavoro subordinato, più nello specifico incompatibile con le norme sui contratti a tempo determinato ma emerge che è proprio tale disciplina ad essere incompatibile con l'intera categoria delle collaborazioni etero-organizzate.
Il Giudice capitolino sostiene questa interpretazione sistematica, sviluppandola attraverso due argomentazioni. In primis, afferma che “la disciplina normativa di cui al d.lgs. 81/2015 in tema di nullità del termine e di abuso della contrattazione a termine, che prevede la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato e la tutela indennitaria, presuppone pur sempre la sussistenza tra le parti di un contratto di lavoro subordinato, ciò che invece nel caso di specie è stato escluso”.
Però, questa considerazione, a parere di scrive, non è decisiva. Certamente la normativa sui contratti a termine, anche nella sua portata rimediale/sanzionatoria, si innesta sul corpo della disciplina del contratto a tempo indeterminato: data la regola ordinaria della durata indeterminata del contratto di lavoro subordinato, è ammesso che esso sia a termine, ma alle condizioni di cui agli artt. 19 e ss. d.lgs. n. 81/2015. Se assumiamo il principio -che è poi ha la sua fonte nella norma di legge – che alle collaborazioni continuative etero-organizzate vada applicata per interno la disciplina del contratto di lavoro subordinato, ne consegue, in ordine alla durata, che varrà la regola ordinaria, che peraltro apre il corpo normativo del d.lgs. n. 81/2015, nonché quella speciale di cui agli art. 19 e ss.
Peraltro, proprio l'assetto sistematico del d.lgs. n. 81/2015 indurrebbe a sostenere che la disciplina sui contratti a termine si applichi anche alle collaborazioni organizzate dal committente, di cui all'art. 2, unitamente a tutta l'altra disciplina relativa al lavoro subordinato. Tale corpo normativo si apre, all'art. 1, con la previsione che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisca la forma comune di rapporto di lavoro. Segue l'art. 2 che prevede che si applichi la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Data la generica previsione normativa e la collocazione sistematica della norma, verrebbe da ammettere l'applicabilità della disciplina della subordinazione in tema di durata dei rapporti.
Però sopraggiunge la riflessione che il Giudice di Roma ha formulato in seconda battuta, ossia che l'art. 2 d.lgs. n. 81/2015 si limita a stabilire l'estensione delle tutele del rapporto subordinato a rapporti che comunque continuano a mantenere la loro natura, la quale resta tecnicamente autonoma. Il ragionamento conclusivo del Giudice è che, applicando invece le norme sui contratti a termine, si finirebbe con il trasformare la natura del rapporto, in qualche modo violando la disposizione di cui al citato art. 2. Il che indurrebbe a ritenere non compatibile l'applicazione delle disposizioni di cui all'art. 19 e ss. d.lgs. n. 81/2015.
Volendo sviluppare ulteriormente il condivisibile approdo del Giudice, che si arresta a tale considerazione, vi è da osservare che, ritenuta applicabile e violata la normativa sull'apposizione del termine, con conseguente nullità dello stesso, rendendo il rapporto a tempo indeterminato, per effetto della conversione prevista dall'art. 19, il lavoratore diverrebbe stabilmente inserito nell'organizzazione aziendale dell'imprenditore, per una prestazione resa in via continuativa ed esclusiva, con un suo conseguente ed inevitabile assoggettamento al novero completo dei poteri datoriali, previsto dallo statuto normativo della subordinazione.
Questo, in prima battuta, ci porterebbe a considerare che ciò non avrebbe un riflesso solo sul rapporto di lavoro individuale (di carattere rimediale, a tutela dello specifico lavoratore), bensì anche sull'assetto organizzativo e produttivo datoriale, incidendo inevitabilmente sulla determinazione dell'organico aziendale e, dunque, sugli istituti normativi o contrattuali connessi alle soglie dimensionali dell'azienda, che è l'effetto che si determina con la riqualificazione del rapporto di lavoro autonomo in lavoro subordinato.
L'assoggettamento pieno ai poteri datoriali disattende e travolge, però, il momento genetico del rapporto, quello dove si costituisce e si radica la sua natura autonoma, per la facoltà attribuita pattiziamente al lavoratore di obbligarsi o meno alla prestazione. Tale accordo conferisce natura autonoma al rapporto lavorativo, poiché – come osservato in giurisprudenza – in tal modo difetta geneticamente il quid proprium della subordinazione e cioè il potere del datore di lavoro di obbligare il lavoratore ad eseguire la prestazione e l'obbligo di quest'ultimo di renderla. Ne consegue che se il committente acquisisse tutti i poteri assegnati al datore di lavoro, dalla disciplina sulla subordinazione, si impossesserebbe anche del potere di imporre la prestazione al lavoratore e di pretenderla conforme ad ogni propria richiesta, sottraendola alla disponibilità del lavoratore, ossia alla sua facoltà di eseguirla o meno. Facoltà che verrebbe persa, così da dover rilevare una mutazione genetica del rapporto, che avrebbe perso la sua natura autonoma, frutto dell'accordo a monte, per acquisire di fatto quella subordinata, ma in violazione chiara del disposto di cui all'art. 2 d.lgs. n. 81/2015.
In conclusione, non si può non osservare come la previsione normativa di cui all'art. 2 d.lgs. n. 81/2015, soprattutto per ciò che riguarda le collaborazioni etero-organizzate tramite piattaforma digitale, sia alquanto lacunosa, lasciando aperte alcune questioni interpretative che sono fonte di incertezza applicativa, creando problematiche ben intercettate dal dibattito dottrinale e che dividono la giurisprudenza di merito.
La norma, seppur apprezzabile nell'intento e nella funzione cui è protesa, manifesta un evidente grado di genericità, conseguenza evidentemente di un intervento legislativo frettoloso e non sistematico. Il punto non è rappresentato dalla mancanza di una clausola di compatibilità, che di per sé non risolverebbe del tutto i problemi interpretativi di cui è afflitta la norma, che si sconterebbero comunque sul piano della valutazione degli istituti legislativi e contrattuali della subordinazione applicabili, in quanto compatibili con la fattispecie delle collaborazioni etero-organizzate.
Il limite maggiore della norma in analisi, a parere di chi scrive, è che, nella sua genericità, non si dimostra adatta a contemplare i variegati modelli lavorativi che l'economia digitale ha fatto emergere negli ultimi anni. È la concezione del lavoro ad essere mutata; non è solo un problema di esatta qualificazione del rapporto di lavoro instaurato o questione affrontabile solo mutuando totalmente o parzialmente le tutele lavoristiche di un tipo di contrattuale, corrispondente ad altri modelli economici, com'è quello della subordinazione. Nell'economia digitale, il “lavoro” dell'individuo mantiene certamente una sua centralità, a volte più accentuata a volte meno, a seconda del settore di impresa, ma risulta rimodulato differentemente rispetto ai suoi schemi classici. Ciò che realmente ha rivoluzionato l'avvento del digitale è la modalità di fare impresa, in quanto ha determinato un cambio netto nei modelli organizzativi societari e dei processi di produzione dei beni e della fornitura dei servizi.
Questo ha avuto un'incidenza sul mondo del lavoro, dando vita a nuove dinamiche circa la modalità di svolgimento della prestazione, così da doversi chiedere se il diritto del lavoro debba calcare una nuova frontiera. Prendendo atto dell'evoluzione dei rapporti di lavoro, bisognerebbe interrogarsi se si stiano imponendo nuove forze negoziali sul fronte datoriale e se siano necessarie, conseguentemente, nuove e specifiche tutele lavoristiche, visto che la tecnologia ha sostanzialmente fatto superare concetti tradizionali di luogo, tempi e modalità di esecuzione della prestazione lavorativa. È un problema di assetto normativo e contrattuale, oltre che di trattamento economico. E, da questa più ampia prospettiva valutativa, l'art. 2 d.lgs. n. 81/2015 appare con tutta la sua inadeguatezza.