La moratoria nel pagamento dei crediti muniti di prelazione nel concordato preventivo alla luce del Codice della crisi

15 Marzo 2023

L'Autore fa il punto sui profili di maggiore criticità in tema di moratoria per il pagamento dei creditori prelazionari nel concordato preventivo, sia in continuità aziendale, che liquidatorio, alla luce della disciplina dettata dagli artt. 86 e 109 del Codice della crisi.
L'art. 86 CCII sulla moratoria e l'art. 186-bis l. fall. che ne costituisce l'immediato precedente. La controversa tesi della S. Corte sull'applicabilità della dilazione anche ai concordati liquidatori

L'art. 86 CCII detta una specifica disciplina per l'istituto della moratoria, utilizzabile per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca dal debitore che proponga un concordato in continuità aziendale.

Infatti, allo stesso modo dell'art. 186-bis, comma 2, lett. c), l.fall., che ne costituisce l'immediato precedente normativo, anche l'art. 86 del Codice della crisi disciplina la moratoria esclusivamente con riguardo al concordato in continuità aziendale (come è reso evidente anche dalla rubrica, che appunto recita: «Moratoria nel concordato in continuità»), e ancora una volta escludendone specificamente l'operatività ove sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione.

Merita forse evidenziare sin da subito che la moratoria si risolve in una clausola facoltativamente inseribile nel piano del concordato in continuità aziendale (come facoltativa è, parimenti, l'applicazione della nuova regola della priorità relativa quanto alla distribuzione del surplus da concordato, prevista sempre e solo per il concordato in continuità aziendale). Non è, cioè, una clausola inevitabile e necessaria. Pertanto, potranno darsi casi in cui, anche se non sia prevista la liquidazione dei beni oggetto di garanzia, il debitore non intenderà avvalersi della moratoria, o casi in cui intenderà avvalersene, ma solo limitatamente ad alcuni crediti, che, in tal caso, dovrebbero però inserirsi in apposita ed autonoma classe.

Va segnalato, altresì, che il reiterato (duplice) utilizzo nell'art. 86 del termine «pagamento» riferito ai crediti muniti di prelazione, espressione che ha dato adito in passato a qualche problema nel parallelo ambito dell'art. 186-bis l. fall., si pone in contraltare con il termine «soddisfazione» o «soddisfacimento», dal significato evidentemente più ampio (comprendendo qualunque modalità satisfattiva, come la conversione di crediti in capitale di rischio, o la datio in solutum, ecc.), utilizzato nell'art. 84 del Codice laddove vengono delineate le possibili tipologie di concordato e le relative caratteristiche tipizzanti. Sembra pertanto di doverne arguire che la moratoria può essere proposta, con riguardo ai crediti muniti di prelazione, solo se poi il pagamento venga effettuato in denaro, e non quando sia prevista una soddisfazione con altri mezzi.

Ciò precisato, la notazione più importante da fare è che, se il legislatore ha riproposto anche nel Codice della crisi la possibilità per il debitore di fruire della moratoria, ma (ancora una volta, e ancor più significativamente) solo con una norma riguardante il concordato in continuità aziendale, dovrebbe ormai cadere definitivamente anche ogni eventuale e residuo dubbio sulla sua inapplicabilità ai concordati meramente liquidatori.

Dubbio che avrebbe avuto ragione altrimenti di porsi a causa di quel noto e molto criticato orientamento della S. Corte, con il quale pochi anni fa (cfr. Cass. 9 maggio 2014, n. 10112, poi seguita da altre decisioni conformi: Cass. 2 settembre 2015, n.17461; Cass. 23 febbraio 2016, n. 3482; Cass. 4 febbraio 2020, n. 2422) essa ha inopinatamente sdoganato la possibilità di applicare la moratoria anche al concordato liquidatorio, e per un tempo finanche superiore a quello entro il quale l'art. 186-bis l. fall. la limitava (e ancora la limita), o a quello imposto dai tempi tecnici della liquidazione, e ciò a dispetto del fatto che l'art. 186-bis l. fall., disciplinando la moratoria per l'appunto solo con specifico riferimento al concordato in continuità aziendale, avesse mostrato per ciò stesso di rivestire natura di norma eccezionale, come tale inestensibile in via analogica (sia per analogia legis che per analogia juris) ad altre fattispecie, ed essendo quindi a maggior ragione insuscettibile di essere interpretata con creative manipolazioni finalizzate ad ampliarne l'applicazione (per di più sostanzialmente sine die).

Senza contare che la S. Corte, traendo ulteriori corollari extra legem da questa creativa premessa interpretativa, e per bilanciare il danno che avrebbero subito i creditori prelazionari a causa della dilazione di quel pagamento che, in base alle norme del codice civile e della legge fallimentare, sarebbe loro spettato immediatamente (ovvero subito dopo la riscossione del prezzo di vendita del bene oggetto di prelazione), ha previsto “in contraccambio”, a loro favore, un diritto di voto commisurato ad una somma (a titolo di interessi) equivalente al sacrificio da essi in ipotesi sopportato, e soggetta a determinazione – sulla base di un accertamento in fatto – da parte del Giudice di merito (alla luce della relazione giurata ex art. 160, comma 2, l. fall.), “tenuto conto dei tempi tecnici di realizzo dei beni gravati in ipotesi di soluzione alternativa al concordato, oltre che del contenuto concreto della proposta nonché della disciplina degli interessi di cui agli artt. 54 e 55 l. fall.”.

Ciò sulla base, da un lato, dell'illogica equazione secondo cui il pagamento anche non integrale dei creditori prelazionari, come consentito dall'art. 160, comma 2, l. fall. in caso di incapienza dei beni oggetto di prelazione, sarebbe stato assimilabile tout court al pagamento parziale che di fatto si realizzerebbe con un pagamento dilazionato, il che per ciò stesso avrebbe autorizzato la dilazione anche nei concordati liquidatori (quando invece non v'è chi non veda come l'incapienza del bene e la dilazione del pagamento fossero e siano due situazioni del tutto distinte e non assimilabili affatto); e, dall'altro, della pretesa idoneità degli artt. 182-ter e 186-bis l. fall., laddove prevedono, rispettivamente, in un caso la possibilità di proporre il pagamento dilazionato dei crediti tributari muniti di prelazione e, nell'altro, la possibilità di dilazionare il pagamento dei creditori privilegiati nel concordato in continuità, a dimostrare l'ipotetica esistenza di un'implicita e sistemica facoltà di pagamento non immediato dei crediti muniti di prelazione, qualunque forma abbia il concordato preventivo proposto, e non già ad esteriorizzare (come sarebbe stato invece logicamente corretto e necessario) il loro carattere eccezionale e quindi restrittivo (per una prima serrata critica all'orientamento della S. Corte, mi permetto di rinviare a F. Lamanna, L'indistinta ammissibilità del pagamento dilazionato dei crediti muniti di prelazione, in www.ilFallimentarista.it, 4 Giugno 2014, ove altri riff.).

Infine, ancor più sovvertendo – se possibile - la ratio e l'ambito applicativo ristretto dell'art. 186-bis l. fall., la S. Corte ha ritenuto possibile (cfr. Cass. 18 giugno 2020, n. 11882) perfino nel concordato in continuità aziendale il pagamento dei creditori prelazionari anche oltre il periodo della moratoria specificamente previsto da tale norma (prima limitato ad un anno e poi innalzato a due anni con una modifica introdotta dall'art. 20, comma 1, lett. g), d.l. n. 118/2021; su cui cfr. F. Lamanna, La massima durata della moratoria nel concordato preventivo in continuità, in www.ilFallimentarista.it, 6 Aprile 2020), affermando che “Nel concordato preventivo con continuità aziendale è consentita la dilazione del pagamento dei crediti privilegiati anche oltre il termine di un anno dall'omologazione, purché si accordi ai titolari di tali crediti il diritto di voto e la corresponsione degli interessi (…); il diritto di voto dei privilegiati dilazionati andrà calcolato sulla base del differenziale tra il valore del loro credito al momento della presentazione della domanda di concordato e quello calcolato al termine della moratoria, dovendo i criteri per tale determinazione essere contenuti nel piano concordatario a pena di inammissibilità della proposta”.

Ipotesi interpretativa, questa, a sua volta dirompente e diametralmente contraria al tenore letterale dell'art. 186-bis l. fall., secondo il quale, infatti, tutt'all'opposto, i creditori cui si applichi la moratoria (che – giova ripeterlo - la norma prevede solo nel concordato in continuità aziendale) “non hanno diritto al voto”.

In definitiva, la S. Corte ha completamente stravolto l'ordine normativo:

a) estendendo la moratoria di cui all'art. 186-bis l. fall. anche ai concordati liquidatori, dunque ben oltre l'ambito del concordato in continuità aziendale per cui è stata esclusivamente prevista dal legislatore;

b) ampliando a dismisura la sua durata in entrambe le tipologie di concordato;

c) ed “inventando”, per una sorta di compensazione del danno subito dai creditori prelazionari in quanto penalizzati dalla moratoria, un sistema di voto quantitativamente limitato (al sacrificio economico sopportato), del tutto straordinario, ed applicabile invariabilmente – dunque senza alcuna differenza rapportata alla diversa forma concordataria - sia nell'uno che nell'altro tipo di concordato.

Va da sé come tale orientamento non potesse che registrare numerosissime critiche, che non erano certo ignote al legislatore quando, varando poi il Codice della crisi, ha riproposto la disciplina della moratoria ancora una volta dettando una norma ad hoc – il già ricordato art. 86 - solo per il concordato in continuità aziendale.

Credo che, in tal modo, il legislatore del Codice abbia dato la più incisiva dimostrazione possibile della volontà di non applicare la moratoria ai concordati liquidatori, visto che, in caso contrario, anche alla luce della direttiva della legge delega n. 155/2017, che richiedeva – tra l'altro – di “riformulare le disposizioni che hanno originato contrasti interpretativi, al fine di favorirne il superamento, in coerenza con i principi stabiliti dalla presente legge” [art. 2, comma 1, lett. m)], certamente avrebbe dettato - visto il carattere palesemente controverso della tesi della S. Corte - un'ulteriore norma ad hoc per disciplinare la moratoria in modo specifico ed aggiuntivo anche per i concordati liquidatori.

Eppure, si leggono ancor oggi alcune opinioni, espresse da una parte della dottrina, consentanee ad una prolungata sopravvivenza della tesi della Cassazione.

Mi limito a ricordare solo quella – per l'autorevolezza dell'Autore - secondo cui nei concordati liquidatori, in mancanza di una disposizione che vieti la dilazione del pagamento oltre i tempi tecnici, comunque non vi sarebbero ostacoli a lasciare ai creditori la libertà di valutare se una proposta che preveda pagamenti dilazionati sia conveniente rispetto alle possibili alternative di soddisfacimento (come ipotizza G. Bozza, Le maggioranze per l'approvazione della proposta concordataria, in DC, 3 Agosto 2022, ma davvero inaspettatamente dopo aver lucidamente posto in rilievo le varie criticità della tesi prospettata dalla Cassazione). Argomento, però, chiaramente inefficace al cospetto dell'oggettiva evidenza che, come osservavo poc'anzi, il legislatore del Codice, pur consapevole delle preesistenti controversie interpretative in materia di moratoria nei concordati liquidatori, e pur avendo l'obbligo imposto dalla legge delega di eliminarle dettando norme ad hoc qualora avesse ritenuto di accogliere il controverso orientamento della Corte di legittimità, ha non dimeno omesso (in modo altrettanto chiaramente consapevole) di estendere la disciplina della moratoria anche ai concordati liquidatori, evitando così di attribuire al debitore in tale specie di concordati un beneficio che sarebbe stato esorbitante, ingiustificato e contraddittorio. Un'eventuale estensione espressa della moratoria ai concordati liquidatori, infatti, sarebbe stata - andando a favorire il debitore allo stesso modo previsto per il concordato in continuità aziendale - assai poco in linea, ed anzi del tutto incoerente, con la dichiarata intenzione del legislatore, che ha permeato profondamente il nuovo impianto codicistico, di privilegiare l'accesso al concordato in continuità aziendale, rendendo recessivo, viceversa, l'accesso al concordato liquidatorio. Sarebbe stata comunque incomprensibile l'attribuzione dello stesso beneficio del pagamento dilazionato dei crediti con prelazione per una tipologia di concordato che, comportando la liquidazione di tutto il patrimonio responsabile, consente naturaliter il pagamento dei suddetti creditori solo dopo la vendita dei beni oggetto della prelazione (rectius: subito dopo la riscossione del prezzo di alienazione), e non prima, come invece dovrebbe verificarsi – di norma - nel concordato in continuità aziendale, relativamente ai crediti con prelazione su beni di cui non sia prevista la vendita.



Le ulteriori ragioni che attualmente militano contro l'interpretazione estensiva della S. Corte

Non è un caso, del resto, che già proprio l'art. 186-bis l. fall., nel momento stesso in cui ha previsto la possibilità di moratoria nel concordato in continuità aziendale, ne ha escluso l'operatività quando con il piano sia prevista la liquidazione dei beni oggetto della prelazione (in quanto non funzionali all'esercizio dell'impresa: “il piano può prevedere … una moratoria fino a due anni dall'omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione”, formula poi ripetuta tal quale anche nell'art. 86 del Codice della crisi), così dimostrando esplicitamente come la possibilità di moratoria si ponga ex se in insanabile conflitto con una procedura in tutto o in parte liquidatoria (e comunque laddove la liquidazione riguardi beni oggetto di prelazione).

Ebbene, come si diceva poc'anzi, il Codice continua a prevedere la moratoria, ed ancora solo per il concordato preventivo in continuità, riproducendo anche la regola secondo cui la moratoria non può comunque operare relativamente a beni (non funzionali) di cui sia prevista la liquidazione.

Ne dovrebbe conseguire dunque, a maggior ragione – e a rigor di logica -, che la moratoria non possa mai operare in caso di concordato meramente ed integralmente liquidatorio.

Non dovrebbe dunque affatto dubitarsi sulla sorte recessiva della tesi estensiva prospettata dalla Suprema Corte, che merita ormai di cadere definitivamente alla luce del Codice della crisi (ma allo stesso modo dovrebbe cadere anche nell'ambito ed in sede di consapevole e aggiornata applicazione delle norme della legge fallimentare), visto che la voluntas del legislatore concorsuale appare del tutto inequivoca nel limitare l'operatività della moratoria solo al concordato in continuità aziendale e solo relativamente a crediti prelazionari aventi ad oggetto beni di cui non sia prevista la liquidazione.

Nel concordato in continuità aziendale, infatti, quando sia prevista la liquidazione di alcuni beni (non funzionali), il pagamento del creditore deve eseguirsi subito dopo la riscossione del prezzo di alienazione del bene, alienazione che dovrà avvenire a sua volta entro il termine di esecuzione indicato nella proposta e nel piano (fatto salvo il pagamento degli interessi endo-concorsuali secondo la disciplina ad hoc riguardante i crediti con prelazione).

Nel caso dei beni funzionali all'esercizio dell'impresa, invece, di essi, per definizione, non dovrebbe risultare programmata la liquidazione, e quindi i creditori muniti di prelazione su tali beni andrebbero pagati immediatamente dopo l'omologa, ovvero nei tempi tecnici necessari successivi all'omologa. Pagandoli, però, l'impresa verrebbe a perdere una liquidità spesso essenziale per proseguire nell'attività d'impresa. Da qui appunto l'interesse a posticipare il pagamento di tali crediti privilegiati e quindi la concessione della possibilità di moratoria; esigenza non ricorrente ed irriproducibile nel concordato liquidatorio.

Tale moratoria, giustappunto, è forse superfluo ribadirlo, riguarda solo il periodo successivo all'omologazione, quando, appunto, vanno eseguiti i pagamenti in esecuzione del concordato, e solo ora, in base alla vigente disciplina del Codice, è possibile fruirne – a differenza di quanto previsto nella legge fallimentare e di quanto previsto dallo stesso Codice prima delle modifiche apportate con il Secondo Correttivo - senza più alcun limite temporale (ma ovviamente il pagamento dovrà comunque avvenire entro il termine finale di adempimento del concordato), salvo che per i crediti privilegiati dei lavoratori, in cui la dilazione non può comunque superare i sei mesi.

Anche tale eccezione, peraltro, nel porre un limite temporale del tutto peculiare e specifico per crediti privilegiati ex art. 2751-bis c.c., concorre a dimostrare come la disciplina della moratoria sia del tutto speciale, e quindi non riproducibile tal quale nel concordato liquidatorio, né compatibile con la tesi della S. Corte sull'applicabilità della moratoria anche ad esso.

Secondo la tesi della Cassazione, infatti, qualunque credito prelazionario potrebbe fruire, nel concordato liquidatorio, della moratoria, e senza alcun limite temporale predeterminato, dunque in aperto contrasto con la specifica regola contenuta nell'art. 86 del Codice, che impone comunque di pagare i crediti privilegiati ex art. 2751-bis c.c. non oltre i sei mesi dopo l'omologa.

Come può dunque ancora convivere la giurisprudenza della Cassazione con la nuova disciplina del Codice?

La risposta a tale domanda (retorica), ovviamente, non può che essere negativa: la tesi della Cassazione, laddove fa di ogni erba un fascio considerando possibile una moratoria sine die in entrambe le tipologie di concordato, ormai non può più reggere – semmai potesse farlo prima - né in caso di concordato in continuità aziendale, né rispetto al concordato liquidatorio.

Peraltro, prima delle modifiche apportate con il Secondo Correttivo al Codice della crisi, la moratoria nel concordato in continuità aziendale, come già previsto con l'art. 186-bis l. fall. (e sempre con esclusivo riferimento al concordato in continuità aziendale), era invece limitata per qualunque credito prelazionario ad un solo anno (limite poi innalzato, come già sopra ricordato, a due anni, dall'art. 20, comma 1, lett. g), d.l. n. 118/2021).

A sua volta l'art. 86 CCII, secondo il testo originario del D.Lgs. n. 14/2019, poneva alla possibilità di dilazione un termine-limite massimo insuperabile, come poi ancor più chiaramente specificato con il Primo Correttivo (D.Lgs. n. 147/2020) laddove il riferimento anteriore ad una “moratoria fino a due anni” è stato sostituito con quello ad una “moratoria non superiore a due anni”. La stessa Relazione accompagnatoria al D.Lgs. n. 147/2020, d'altronde, evidenziava che la modifica era funzionale a chiarire “che la moratoria per il pagamento dei crediti assistiti da cause di prelazione, legittima esclusivamente nel concordato in continuità, non può mai eccedere i due anni dall'omologazione”, così apertamente sconfessando l'opposto orientamento della Corte di legittimità sulla possibilità di una dilazione illimitata e della sua applicabilità, per di più, al concordato liquidatorio.

Il suddetto orientamento a maggior ragione si rivela oggi superato ed inattuale anche quanto alla ritenuta limitata legittimazione al voto dei creditori prelazionari assoggettati a moratoria. Come abbiamo visto, l'art. 186-bis l. fall., anche nel testo attualmente vigente, chiaramente non ammette i creditori privilegiati al voto. La Suprema Corte, però, con le sopra citate pronunce, li ha invece paradossalmente considerati legittimati al voto per una somma ragguagliata al sacrificio da essi sopportato a causa della dilazione. Contraddizione – questa - rimasta finora insanata (e comunque non ulteriormente riproponibile).

Per altro verso ora il Codice della crisi adotta un'articolata disciplina del tutto nuova e diversa quanto al voto in caso di moratoria, ma, è forse il caso di ripeterlo ancora, per quanto possa apparire stucchevole, solo per il concordato in continuità aziendale (così sconfessando anche in tema di voto – appunto - la tesi estensiva della S. Corte).

Viene stabilito, in particolare, con l'art. 109, comma 5, come richiamato dall'art. 86 del Codice, che i creditori muniti di diritto di prelazione non votano solo se vengono soddisfatti in denaro, integralmente, entro centottanta giorni dall'omologazione, e purché la garanzia reale che assiste il credito ipotecario o pignoratizio resti ferma fino alla liquidazione, funzionale al loro pagamento, dei beni e diritti sui quali sussiste la causa di prelazione (ma nel caso di crediti assistiti dal privilegio di cui all'articolo 2751-bis, n. 1, del codice civile, il termine è di trenta giorni).

Se non ricorrono tali condizioni (e quindi laddove operi la moratoria), i creditori muniti di diritto di prelazione votano (e, per la parte incapiente, sono inseriti in una classe distinta).

Dunque, nel concordato in continuità aziendale – la sola tipologia in cui la moratoria è possibile e legittima – non è affatto necessario fare calcoli più o meno astrusi per determinare il sacrificio in ipotesi sopportato dai creditori prelazionari sfavoriti dalla moratoria; essi votano sempre e comunque per l'intero credito, essendo stati ritenuti con valutazione legal-tipica ex ante – proprio a causa della dilazione – come creditori “interessati”.



Conclusioni

Le precedenti considerazioni chiaramente dimostrano, in definitiva, come la tesi della S. Corte, già inaccettabile prima, sia del tutto inattendibile ancor più oggi, alla luce del Codice della crisi.

Sembra dunque giunto il momento per disattenderla completamente, anche perché, dinanzi alle critiche decisive che ne dimostrano l'inattendibilità, la finalità di incondizionata tutela del debitore che essa esprime (assecondando una deriva lassista mascherata da tutela dell'impresa, del tutto contraddittoria ed indifendibile dinanzi ad un tipo di concordato, quello liquidatorio, che invece prelude alla dissoluzione definitiva dell'impresa) sembra non solo ormai superata dalle più aggiornate e mature valutazioni sulle dinamiche sottese alle crisi economiche, comprese quelle più recenti ed ancora in atto, ma comunque anche incoerente con la “filosofia” del nuovo Codice, protesa in modo inequivoco ad incentivare il ricorso al solo concordato in continuità aziendale e non a quello liquidatorio.



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