Al via l'Anno giudiziario tributario 2023 per la CGT II della Lombardia

27 Marzo 2023

Il 25 marzo, presso l'Aula magna del Palazzo di Giustizia di Milano, si è tenuta l'inaugurazione dell'Anno giudiziario tributario 2023 della Corte di Giustizia tributaria di 2° della Lombardia. Di seguito proponiamo l'intervento conclusivo del Prof. Gianfranco Gaffuri che nella sua analisi ha dato particolare attenzione a due principi cardine del sistema tributario:1- il principio di capacità contributiva che cessa di fronte a un iperbolico e irrazionale allargamento degli impegni finanziari pubblici;2- il principio di certezza del comando giuridico che non può prescindere dall'inequivocabilità concettuale della prescrizione e dalla comprensibilità del linguaggio normativo adottato.
Premessa

Onorato e riconoscente per essere stato chiamato a interloquire in questo importante consesso, rendo omaggio alle Autorità, ossequio le Signore e saluto i Signori presenti.

Mi pare non peregrino, in questa temperie in cui si enunciano, in modo talvolta scomposto, gli intenti riformatori in materia tributaria, il proposito di richiamare almeno due principi - cardine del diritto positivo e della connessa cultura giuridica, lanciandoli nell'etere come mere suggestioni, con una assai lieve traccia d'impertinenza.

Il principio di capacità contributiva

Il principio di capacità contributiva, che evoco per primo, regge e informa di sé l'intero sistema dei prelievi.

È nota (e non intendo soffermarmi sul punto) la nozione corrente, contrastata peraltro da taluno, secondo la quale solo le manifestazioni di ricchezza, genericamente intesa, o di forza economica sono indici imprescindibili della idoneità a sostenere, in misura adeguata, il peso dei prelievi forzosi.

Oso, tuttavia, proporre in via interpretativa un collegamento organico e strettamente funzionale tra il concetto di capacità contributiva e il concorso alle spese pubbliche, come stabilisce l'art. 53, primo comma, della Costituzione. Credo di poter affermare che, nonostante l'esistenza dell'attitudine individuale a sopportare un carico fiscale, la capacità contributiva (o addirittura qualunque capacità contributiva) cessi di fronte a un iperbolico e irrazionale allargamento degli impegni finanziari pubblici.

Il loro controllo e la loro revisione periodica sono irrinunciabili e s'impone un sempre vigile coordinamento tra la gestione economica dell'ente impositore e i carichi tributari.

Nei recessi della storia si rinvengono straordinarie anticipazioni su questo tema.

Charles-Louis de Secondat, barone, tra l'altro, di Montesquieu, uomo del XVIII secolo, conosciuto con quest'ultimo nome, nell'opera fondamentale della sua produzione letteraria, ovvero Lo Spirito delle Leggi, libro XIII, capitolo primo, scrive poche frasi folgoranti. Le enuncio perché sono brevi: “ Le entrate dello Stato sono la parte che ciascun cittadino da di ciò che possiede per avere la sicurezza del restante o per goderne piacevolmente. Per fissare bene queste entrate, bisogna avere riguardo e alle necessità dello Stato e alle necessità dei cittadini. Naturalmente non è lecito togliere al popolo quello di cui ha un reale bisogno per gli immaginari bisogni dello Stato”.

Diversamente dunque – si può arguire - cessa l'attitudine contributiva. Mi spingo a dire che la questione assume connotati giuridici, quindi scrutinabili nella sede propria, e non affatto banalmente politici; la ragionevolezza è infatti un parametro consolidato di giudizio nella esperienza pratica del diritto.

Insomma il giusto prelievo e quindi il limite imposto dalla capacità contributiva si oppongono ai capricci e al settarismo di colui che amministra la cosa pubblica.

Certezza del comando giuridico

Il secondo principio (o, meglio, una prerogativa essenziale di qualunque contesto normativo), che vorrei richiamare con annotazioni scheletriche - lo dico per tranquillizzare l'uditorio - è la certezza del comando giuridico.

La chiarezza della regola di comportamento è talmente imprescindibile in ogni complesso disciplinare da apparire un principio ovvio; ciò nonostante, è non raramente negletta.

Il raggiungimento di questo stato ideale esige, intuitivamente, il rispetto di due condizioni rigorose:

  1. l'inequivocabilità concettuale della prescrizione e
  2. la comprensibilità del linguaggio normativo.

Il primo requisito può essere leso da divergenze in seno all'organo legislativo, superate mediante un compromesso contorto; il secondo dall'uso, per impreparazione tecnica, di un lessico e di una fraseologia non facilmente intellegibili.

Il compito di superare l'incertezza del precetto legislativo spetta alla dottrina, non asservita alle faziosità ideologiche; ma è funzione precipua della giurisprudenza – segnatamente dei suoi vertici, come enuncia l'articolo 65 dell'ordinamento giudiziario – e dell'impegno esegetico, che è opera di elaborazione critica riferita al caso concreto.

Ciò posto, intravvedo peraltro un'insidia.

Circola sempre più insistentemente (e ha trovato qualche cedimento normativo, per ora non compromettente) l'aspirazione ad una giustizia predittiva: ovvero l'intento non solo di prevedere, che è perfino auspicabile nella pratica, ma – secondo una concezione esasperata – di anticipare, mediante algoritmi, rispetto al concreto svolgimento della dialettica processuale (anzi, senza il bisogno di questo), il provvedimento decisorio.

Bisogna rifuggire da questi intenti. L'atto giurisprudenziale è il frutto della creatività umana ed è un'opera d'arte, non in senso estetico – anche se la cura della forma è irrinunciabile – ma in senso intellettuale. Tale sua natura è incompatibile con metodi schematici, con processi meccanici e ripetitivi e con criteri mediatici, che non siano solo strumenti di supporto, ma sostituiscano addirittura, nelle idee di innovatori spregiudicati, il lavoro cerebrale, ossia, appunto, la indispensabile interpretazione e comprensione del caso specifico.

Ho concluso e mi taccio, facendo uso di una curiosa espressione dantesca (Inferno, canto X, versetto 120) e auguro a tutti un superbo pomeriggio primaverile.

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