Stress da lavoro correlato e licenziamento per superamento del periodo di comporto
05 Aprile 2023
Massima
Il “mal d'ufficio” dovuto ad una amplificazione da parte della lavoratrice delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno, in assenza di prova di intento illecito e di condotta illegittima del datore di lavoro, non può assumere rilevanza giuridica. Il caso
La lavoratrice, addetta al reparto gastronomia di un punto vendita sito a Mestre, viene inviata in trasferta presso il punto vendita di Cornuda, a circa 60 km di distanza e – a causa delle ripercussioni della nuova situazione lavorativa sul suo menage personale (due ore di viaggio in automobile al giorno tra andata e ritorno; orario spezzato con pausa pranzo anche di 3-4 ore; oltre dodici ore al giorno fuori casa…) – manifesta una sindrome ansioso-depressiva, per cui supera il periodo di comporto di 180 giorni di malattia in un anno solare e viene licenziata.
In primo grado il licenziamento viene ritenuto illegittimo, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione e alla corresponsione di dodici mensilità, perché avrebbe violato gli obblighi in materia di sicurezza imposti dall'art. 2087 c.c. Infatti, a fronte delle segnalazioni della lavoratrice e di un primo lungo periodo di malattia (di circa sessanta giorni), il datore di lavoro non ha sottoposto la dipendente alla visita da parte del medico competente (ai sensi dell'art. 41 T.U. in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro) e, quindi, i giorni di malattia successivi non possono essere conteggiati ai fini del superamento del periodo di comporto.
La società datrice di lavoro impugna la sentenza e propone reclamo davanti alla Corte d'appello di Venezia, chiedendo di accertarne l'erroneità, ingiustizia e violazione di legge e di dichiarare la legittimità del licenziamento intimato. La lavoratrice chiede la conferma della pronuncia di primo grado. Le questioni
La società contesta l'errata valutazione dei fatti da parte del giudice di prime cure ed evidenzia come la scelta della lavoratrice in questione per l'invio in trasferta sia stato motivato dal fatto che si tratti di soggetto automunito, non avente particolari carichi di famiglia, né oneri di assistenza ai sensi della L. n. 104/1992. Lamenta anche la circostanza di non essere stata messa in grado di conoscere l'effettivo stato di salute della dipendente, in quanto i certificati di malattia, susseguitisi nel tempo, erano di breve durata e non contenevano la diagnosi. Inoltre, il documento di valutazione dei rischi ha classificato come “basso” il rischio da stress lavoro correlato per il reparto gastronomia.
Alla luce di ciò, la società contesta la propria responsabilità in merito alla mancata sottoposizione della lavoratrice alla visita del medico competente, trattandosi di mansioni non soggette a sorveglianza sanitaria.
Dal canto suo, la lavoratrice evidenzia di aver subìto un provvedimento di trasferta orale – senza indicazione della motivazione, né della durata – e con orari di lavoro considerati eccessivi. Ciò ha comportato una situazione stressogena e generato un grave disagio psicofisico sfociato in episodi di attacchi di panico e sindrome depressiva, non contestati in primo grado dal datore di lavoro. Le soluzioni giuridiche
La Corte d'appello di Venezia accoglie il ricorso sulla base del pacifico superamento del periodo di comporto stabilito dal contratto collettivo, attestato dal computo delle giornate di malattia risultanti dai certificati medici. Non condivide, pertanto, le argomentazioni e le conclusioni alle quali è pervenuto il giudice in primo grado, in quanto le mansioni di addetta alla gastronomia sono considerate dal DVR prestazioni a basso rischio e non rientrano tra le categorie sottoposte a sorveglianza sanitaria, per cui non sussisteva alcun obbligo di sottoporre la lavoratrice a visita medica dopo il primo periodo di malattia e, dunque, non è ravvisabile alcuna violazione dell'art. 2087 c.c. e degli obblighi datoriali in materia di tutela dell'integrità psicofisica dei lavoratori. Inoltre, prima del licenziamento, non era stato presentato alcun certificato che attestasse specificamente lo stato ansioso-depressivo lamentato dalla lavoratrice.
Secondo la Corte, l'esistenza di ragioni oggettive e le modalità con le quali la lavoratrice era stata inviata presso il punto vendita di Cornuda inducono ad escludere la prova, anche presuntiva, della vessatorietà della condotta datoriale ai fini della configurazione dello straining, che consiste in una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo.
Il “cuore” della pronuncia è racchiuso nella riflessione finale, con la quale la Corte, preso atto della complessità della vicenda dal punto di vista del fatto e degli aspetti relazionali, sottolinea come lo stato di sofferenza e di disagio provato dalla dipendente per la situazione lavorativa – definito “mal d'ufficio” – sia dovuto ad un'amplificazione delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno. Pertanto, in assenza di prova dell'intento illecito o della condotta illegittima del datore di lavoro, non può assumere alcuna rilevanza giuridica. Osservazioni
Le questioni affrontate dalla sentenza in commento sono molteplici e, nonostante le ben ventiquattro pagine con le quali la Corte d'appello di Venezia descrive i fatti di causa e argomenta le proprie decisioni, le soluzioni proposte non soddisfano del tutto.
In primo luogo, appare un po' sbrigativo il passaggio sulla genuinità della trasferta, considerato che questa fa da sfondo all'intera vicenda, per la durata di un intero anno solare. Per quanto le esigenze organizzative poste alla base della scelta imprenditoriale siano più volte evocate (carenza di organico e sostituzione di personale assente per ferie o malattia nel punto vendita di Cornuda), non può non suscitare qualche perplessità l'assenza o, perlomeno, l'evanescenza del requisito della occasionalità e temporaneità, nonché del riferimento alla data precisa del rientro in sede (sul punto, v. Cass. 26 gennaio 1989, n. 475, secondo la quale il provvedimento del datore di lavoro, pur qualificandosi formalmente come “trasferta”, deve essere considerato alla stregua di un trasferimento se non contiene l'indicazione di una precisa data di rientro, o se omette del tutto tale indicazione. Più di recente, v. Trib. La Spezia 20 febbraio 2012, secondo cui per configurarsi una trasferta, il tempo di durata dello spostamento deve essere, ancorché non determinato, determinabile). Inoltre, la giurisprudenza è costante nel ritenere che, ai fini della configurazione della trasferta del lavoratore, sia necessaria la sussistenza del permanente legame del prestatore con l'originario luogo di lavoro (v. Cass. 21 marzo 2006, n. 6240; Trib. Milano 7 maggio 2009), ma, nel caso di specie, anche durante i periodi di malattia, sulle buste paga viene comunque indicata come sede di lavoro quella di Cornuda, anziché quella di appartenenza. Tali elementi indurrebbero a riflettere sull'eventuale uso distorto del provvedimento di trasferta, a maggior ragione alla luce della constatazione che, laddove si fosse trattato di trasferimento – ossia del mutamento definito della sede di lavoro – a prescindere dalla sussistenza delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, sarebbe stato necessario il nulla osta dell'organizzazione sindacale di cui la lavoratrice in questione era stata nominata RSA (art. 22 Stat. lav.).
La genuinità della trasferta assume ancor più rilevanza alla luce del fatto che il lamentato stato ansioso-depressivo non è conseguente allo svolgimento delle mansioni di addetta al reparto gastronomia – che, come più volte ribadito, sono considerate a basso rischio – ma ai disagi conseguenti al mutamento del luogo di lavoro e al suo protrarsi indefinitamente nel tempo.
Dalla pronuncia, inoltre, non sembrano emergere dubbi sulla veridicità della malattia e sulle attestazioni mediche rilasciate, eppure viene esclusa la riconducibilità alle scelte organizzative datoriali, sulla base dell'assunto che, id quod plerumque accidit, non possano risultare pregiudizievoli, a prescindere dalla concretezza del caso de quo.
In un contesto normativo che dedica sempre maggiore attenzione alla protezione della salute psicofisica dei lavoratori, nonché alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (v., di recente, d. lgs. 30 giugno 2022, n. 105, in attuazione della direttiva UE 2019/1158; in precedenza, v., ad es., art. 18 l. n. 81/2017 sul lavoro agile), lascia perplessi che tali beni giuridici, nella pratica, non vengano adeguatamente presi in considerazione e tutelati. |