Licenziamento del lavoratore disabile per superamento del comporto e discriminazione indiretta

06 Aprile 2023

Disabile e superamento del periodo di comporto, se il ccnl non prevede un termine differenziato il licenziamento è discriminatorio per violazione della normativa europea sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.
Massime

Appello Napoli, sez. lav., 17 gennaio 2023, n. 168

Applicare indistintamente la disciplina del licenziamento per superamento del periodo di comporto sia nei confronti dei lavoratori affetti da patologie transitorie che di quelli divenuti, nel corso del rapporto di lavoro, disabili per malattia grave ed irreversibile rappresenta una forma di discriminazione indiretta.

La nozione di discriminazione fondata sulla disabilità include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole; sono comportamenti idonei ad evitare la discriminazione indiretta la non computabilità nel periodo di comporto delle assenze dovute alla malattia che ha cagionato la disabilità, la riduzione dell'orario di lavoro, l'avviso dell'approssimarsi della scadenza del periodo di comporto o della possibilità di fruire di aspettativa non retribuita o di fruire delle ferie residue, tutti accomodamenti ragionevoli.

Appare irrilevante la conoscenza o conoscibilità dello stato di handicap del lavoratore per il carattere imperativo del principio comunitario di parità di trattamento; pertanto, a prescindere dalla conoscenza che il datore di lavoro abbia o meno dello stato di handicap (sebbene nel caso concreto risulti poco verosimile la non conoscenza della patologia da cui risulta affetto il lavoratore), deve essere comunque eliminato l'effetto di una discriminazione anche indiretta indipendentemente dall'applicazione apparentemente neutra di una norma di diritto o negoziale o di una prassi laddove la stessa ridondi in un trattamento deteriore per il portatore di handicap.

Cass., sez. lav., 31 marzo 2023, n. 9095

Poiché il lavoratore disabile è esposto, rispetto a un lavoratore non disabile, a un maggiore rischio di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità ed è quindi più esposto al rischio di licenziamento per eccesso di assenze per malattia, costituisce discriminazione indiretta in ragione della disabilità la fissazione di un unico termine di comporto, identico sia per disabili che per non disabili; il licenziamento comminato sulla base di tale unico termine va dunque qualificato come discriminazione, essendo a tal fine irrilevante – stante la natura oggettiva dei divieti di discriminazione - che il datore di lavoro avesse conoscenza della specifica malattia che aveva dato luogo alla assenza.

La discriminazione opera in modo oggettivo ed è irrilevante l'intento soggettivo dell'autore. Non è dunque decisivo l'assunto di parte ricorrente di non essere stata messa a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, perché i certificati medici delle assenze inoltrati al datore di lavoro non indicavano la specifica malattia a causa dell'assenza.

Il caso

La sentenza della Corte d'Appello di Napoli riguarda il caso di un lavoratore affetto da sclerosi multipla, che veniva licenziato per superamento del periodo di comporto, in quanto risultava assente per malattia derivante dalla menzionata patologia per 821 giorni fra il 2017 ed il 2020, superando il periodo di comporto fissato dal CCNL applicabile pari a 180 nell'arco di un anno solare. La decisione ha confermato la sentenza del Giudice di prime cure che aveva accolto il ricorso del lavoratore, ritenendo sussistente il carattere discriminatorio del licenziamento.

La sentenza della Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d'Appello di Milano che aveva ritenuto discriminatorio il licenziamento di un dipendente con mansioni di spazzino stradale o spazzino porta-sacchi, riconosciuto portatore di handicap ai sensi dell'art. 3, comma 1, legge n. 104/1992, con capacità lavorativa ridotta del 75% e che era rimasto assente dal lavoro per 375 giorni nell'arco di 1095 giorni, superando il periodo di comporto breve pari a 365 giorni entro i 1.095 giorni precedenti ogni nuovo ultimo episodio morboso.

Le questioni

Le sentenze in oggetto affrontano la fattispecie del licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto, tema attualmente al centro di un dibattito giurisprudenziale, fra chi ritiene discriminatorio applicare la medesima disciplina in materia di malattia ai dipendenti disabili e non disabili e l'indirizzo che rigetta tale ricostruzione.

La questione nasce a seguito dell'introduzione della disciplina eurounitaria sulla parità di trattamento in materia di occupazione e lavoro. Nell'accezione comunitaria e nazionale la discriminazione non deve intendersi come comportamento soggettivamente riprovevole, ma come oggettivo trattamento di svantaggio (e il licenziamento certamente lo è) connesso con un fattore vietato (e la disabilità è appunto inclusa tra i fattori vietati dalla direttiva 2000/78/CE).

Nell'interpretare la citata direttiva 2000/78/CE, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha esaminato in più occasioni la compatibilità di quello che nel nostro ordinamento è il licenziamento per superamento del periodo di comporto” con il divieto di discriminazione in ragione dell'handicap.

In una prima sentenza (Chacon Navas, 11 luglio 2006, causa C-13/05) la Corte ha escluso che la malattia in quanto tale possa essere inclusa tra i fattori protetti per effetto di una estensione analogica del fattore disabilità; tuttavia, preso atto che la direttiva non contiene una definizione di quest'ultimo fattore, ha provveduto essa stessa a una definizione che comprende anche le menomazioni non irreversibili, purché “di lunga durata” (punto 45): ciò che rileva infatti non è il carattere irreversibile o meno della patologia, ma prioritariamente l'aspetto sociale e relazionale delle “minorazioni fisiche, mentali o psichiche” , che devono essere tali da ostacolare “la partecipazione della persona considerata alla vita professionale” (punto 43).

Nella successiva sentenza HK Danmark (11 aprile 2013, cause C-335/11 e C-337/11) la CGE è stata chiamata a valutare se - ferma restando la non immediata sovrapponibilità tra malattia e disabilità - il licenziamento per superamento del periodo massimo di tutela può costituire una discriminazione indiretta in base alla disabilità: ed ha risposto affermativamente, sulla base della constatazione che “rispetto ad un lavoratore non disabile un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di una malattia collegata al suo handicap” (punto 76) e che pertanto un licenziamento determinato dalla malattia può contrastare con il divieto di discriminazione sulla base della disabilità laddove la malattia sia a sua volta determinata dalla disabilità, posto che in tale ipotesi il licenziamento tornerebbe ad essere causato dalla condizione di invalidità e dunque discriminatorio.

Naturalmente, come tutti i divieti di discriminazione indirette, anche questo può trovare deroga in una causa di giustificazione (e sul punto la Corte rimette al giudice nazionale ogni valutazione). Tuttavia, affinché operi la deroga, è necessario non solo che la disparità di trattamento sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima (ad esempio incentivare le assunzioni) ma anche che i mezzi impiegati per il suo conseguimento superino il doppio vaglio di “appropriatezza” e di “necessità” della misura rispetto all'obiettivo da conseguire, considerando, in tale prospettiva, il contesto normativo in cui la disposizione si inserisce.

La Corte è poi tornata recentemente sul punto, affrontando ancora più espressamente la questione della compatibilità tra licenziamento per superamento del comporto nel diritto spagnolo e direttiva 2000/78 (causa Ruiz Conejero, 18 gennaio 2018, causa C-270/16) e, sulla base di considerazioni analoghe a quelle contenute in HK Danmark, ha concluso che la direttiva 2000/78 “osta a una normativa in base alla quale un datore di lavoro può licenziare un lavoratore in ragione di assenze intermittenti dal lavoro sebbene giustificate, nella situazione in cui tali assenze sono dovute a malattie imputabili alla disabilità di cui soffre il lavoratore …”.

Argomentando detta conclusione, la Corte ha precisato che «rispetto a un lavoratore non disabile, un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità… Egli è quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e, quindi, di raggiungere i limiti … Risulta, dunque, che la norma di cui a tale disposizione è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e quindi a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità...».

Anche la sentenza Ruiz Conejero rimette al giudice nazionale la possibilità di valutare eventuali cause di giustificazione (in questo caso connesse alla finalità di contrastare l'assenteismo); ma, alla luce del dispositivo, tale valutazione deve comunque muovere dall'accertato contrasto tra la norma interna e la direttiva ed essere svolta tenendo conto di tutti gli elementi pertinenti (in particolare delle altre tutele previste dall'ordinamento nazionale, che nel caso di specie, ad esempio, escludeva dal computo le assenze per patologie oncologiche).

Fra l'altro il caso sottoposto all'attenzione della Corte di Giustizia Ruiz Conejero aveva ad oggetto un caso di lavoratore in stato di obesità cui era connessa una malattia consistente nella lombalgia, con un grado di invalidità successivamente fissato al 37%.

Dal punto di vista del diritto interno con l'art. 2 lett. a) D.lgs. n. 216/2003 è definita la discriminazione diretta che si ravvisa «quando…per handicap…una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga» alla successiva lettera b) poi è data la definizione della nozione di discriminazione indiretta che sussiste nel caso in cui «una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone …portatrici di handicap…in una situazione di svantaggio rispetto ad altre persone». Quindi, nel caso di discriminazione diretta è la condotta, il comportamento tenuto, che determina la disparità di trattamento; nel caso di discriminazione indiretta, la disparità vietata è l'effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi in sé illegittima.

Del resto l'art. 5 della Direttiva quadro 2000/78/CE dispone che il datore di lavoro è tenuto ad adottare delle soluzioni ragionevoli per i disabili, ciò significa che il datore di lavoro deve prendere dei provvedimenti appropriati, in funzione delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, ameno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili. Anche l'art. 3 comma 3-bis del D.lgs. n. 216/2003 prevede che il datore di lavoro è tenuto ad adottare “accomodamenti ragionevoli” per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.

Ciò premesso, dopo l'introduzione della disciplina eurounitaria e dopo l'arresto della Corte di Giustizia Ruiz Conejero del 2018, la giurisprudenza italiana si è interrogata sulle conseguenze derivanti dalla circostanza che la previsione dell'art. 2110 c.c. non opera alcuna differenza tra assenze brevi, reiterate e frammentate (più pregiudizievoli per le aziende e sulle quali una norma rigorosa può espletare effetti disincentivanti) e assenze di lunga durata tipiche delle malattie gravi, sicché già sotto questo profilo la norma nazionale finisce per danneggiare i lavoratori con disabilità. Inoltre, la contrattazione collettiva, alla quale è rimessa dal legislatore la disciplina sul periodo di comporto, sovente non distingue quanto alla durata del periodo fra lavoratori normodotati e lavoratori disabili, in tal modo prevedendo regole uguali per situazioni che sono fra loro diverse.

La giurisprudenza italiana si è poi interrogata sulla nozione di disabilità prevista dalla menzionata disciplina interna e europea antidiscriminatoria, ci si è chiesti se tale nozione prescinda o meno dal raggiungimento di una specifica soglia di inidoneità al lavoro, requisito tipico delle legislazioni nazionali in materia.

Infine, questione dibattuta attiene alla rilevanza o irrilevanza della conoscenza o la conoscibilità dello stato di handicap del lavoratore da parte del datore di lavoro. In altri termini ci si è domandati se può essere contestato il licenziamento per superamento del periodo di comporto del dipendente disabile anche quando il datore di lavoro non ha alcuna conoscenza della causale della malattia che determina il superamento e quindi dell'handicap del quale soffre il lavoratore.

Le soluzioni giuridiche

Ora, quanto alla previsione di un unico periodo di comporto uguale per tutti, normodotati e disabili, una parte della giurisprudenza di merito ha affermato che il licenziamento del dipendente disabile a causa del superamento del periodo di comporto è discriminatorio se la patologia motivo del superamento consiste nella stessa disabilità dalla quale è affetto il lavoratore (Tribunale Mantova, ord. n. 160/2018; Corte d'Appello Milano, sez. lav., 3 settembre 2021, riguardante una lavoratrice colpita da aneurisma; Tribunale Bologna, sez. lav., 15 aprile 2014; Corte d'Appello Brescia, sez. lav., 29 ottobre 2019; Corte d'Appello Roma, sez. lav., 26 maggio 2021; Tribunale Modena, sez. lav., 11 ottobre 2019; Tribunale di Milano, 28 ottobre 2016, n. 2875; Tribunale Mantova, sez. lav., 22 settembre 2021, n. 126, si è affermato che: «facendo ricorso ad un'interpretazione costituzionalmente orientata (in adesione al principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost.) ed aderente alla normativa ed alla giurisprudenza comunitaria sopra richiamata, parte della giurisprudenza di merito ha statuito che costituisce discriminazione indiretta la previsione per un lavoratore disabile e per un lavoratore non disabile del medesimo periodo di comporto, attesa la necessità di differenziazione della tutela, da adeguare alla situazione peculiare (c.d. fattore di rischio) in cui versano i soggetti disabili ed ha stabilito che in applicazione dell'articolo 2 della direttiva comunitaria 2000/78/CE , nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro, al fine di evitare la discriminazione indiretta in caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto, va ritenuto obbligato ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi dell'art. 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione (come sottrarre dal calcolo del comporto i giorni di malattia ascrivibili all'handicap o individuare un ulteriore giustificato motivo di licenziamento)… L'adesione ai predetti orientamenti giurisprudenziali nazionali e comunitari induce a ravvisare, nella fattispecie, un'ipotesi di discriminazione indiretta, essendo stato contemplato, all'art. 2 sez. quarta titolo VI del CCNL applicabile, sia per i lavoratori disabili, che per i lavoratori non affetti da disabilità, il medesimo periodo di comporto, nonostante i lavoratori disabili presentino maggiori fattori di rischio rispetto ai lavoratori non affetti da disabilità, ovvero il "rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla loro disabilità" e quindi il "rischio di accumulare giorni di assenza per malattia"»; ordinanza del 21 marzo 2021 del Tribunale di Verona; Tribunale di Spoleto ordinanza 3 marzo 2019; Tribunale di Lecco ordinanza 26 giugno 2022; Tribunale di Milano 26 luglio 2022; Tribunale di Parma, sez. lav., 9 gennaio 2023, n. 1; Corte d'Appello di Napoli, sez. lav. 17 gennaio 2023, n 168; Tribunale di Milano, sez. lav., 2 maggio 2022.

Alla luce di tutto tale parte della giurisprudenza ritiene che, ai fini della irrogazione di un licenziamento, concepire per un soggetto disabile contraddistinto da una permanente grave patologia, il medesimo periodo di comporto previsto per un soggetto non afflitto da handicap, contrasti apertamente con i corollari del principio di parità di trattamento per cui situazioni diverse meritano un trattamento differenziato e configuri quella discriminazione indiretta di cui alla direttiva 2000/78/CE.

A fronte di tale tesi esiste anche un orientamento minoritario espresso dalla giurisprudenza di merito (Corte di Appello di Torino, 3 novembre 2021, n. 604; Tribunale di Rovereto, ordinanza 8 marzo 2022, n. 16) che pone dei distinguo a seconda che sia previsto o meno un periodo di comporto prolungato dal CCNL. Così, nelle ipotesi di licenziamento conseguente a periodo di comporto cd. prolungato «la circostanza che le parti sociali, alle quali è demandato il compito di quantificare il periodo decorso il quale il datore di lavoro può esercitare il recesso (art. 2110 comma 2 c.c.), abbiano disciplinato in modo differenziato l'ipotesi di malattie che comportino assenze di lunga durata vale di per sé sola ad escludere la discriminazione discendente dall'applicazione dello stesso termine di comporto per i lavoratori normodotati e per quelli disabili poiché il rischio aumentato di assenze a causa di malattia invalidante gravante sui secondi è controbilanciato dal diritto ad un periodo più lungo di conservazione del posto di lavoro».

Ebbene, sia la sentenza della Corte d'Appello di Napoli, sia la prima sentenza della Corte di Cassazione in commento, hanno aderito al primo degli orientamenti sopra menzionati, ritenendo che costituisca discriminazione indiretta in ragione della disabilità la fissazione di un unico termine di comporto, identico sia per disabili che per non disabili.

Quanto alla nozione di disabilità sussiste, invece, pressoché concordanza di vedute in materia. Infatti, si ritiene che la nozione di disabilità di derivazione eurounitaria nulla abbia a che vedere con la nozione interna di inidoneità prevista ad esempio dalla L. 68/1999 o dal D.lgs. n. 81/2008 o dalla nozione di handicap grave di cui alla L. n. 104/1992. In altri termini ai fini dell'attivazione delle tutele previste dalla disciplina europea per il disabile è del tutto irrilevante che lo stesso sia già stato riconosciuto o meno invalido civile oppure percettore dei benefici ex L. n. 104/1992 oppure della tutela ex L. n. 68/1999. Autorevole dottrina spiega in modo chiaro che il concetto eurounitario di disabilità «prescinde dal raggiungimento di una specifica soglia di inidoneità al lavoro, requisito tipico delle legislazioni nazionali in materia, e delinea una definizione talmente ampia da escludere solamente quelle condizioni che a) non siano classificabili come menomazioni, b) non si ripercuotano sulla capacità lavorativa del dipendente e c) non abbiano carattere duraturo. In questo contesto, sfumano le complesse distinzioni concettuali attorno alle quali è costruito il sistema italiano di tutele. Il concetto di matrice europea prescinde, innanzitutto, dall'accertamento di un determinato grado di invalidità e, come tale, risulta più ampio della nozione accolta dalla L. 12 marzo 1999, n. 68 sul collocamento mirato dei disabili. La definizione elaborata dalla Corte di Giustizia, inoltre, comprende condizioni psico-fisiche escluse dalla nozione impiegata nella L. 5 febbraio 1992, n. 104 in materia di assistenza, integrazione sociale e diritti delle persone handicappate. La formulazione europea, infatti, non presuppone l'accertamento formale dei requisiti soggettivi e oggettivi previsti per integrare una condizione di handicap e di handicap grave» (Cristofolini C, “Licenziamento per superamento del periodo di comporto e divieto di discriminazione per disabilità” in il Lavoro nella giurisprudenza 12/2022).

In giurisprudenza esiste già l'insegnamento della Suprema Corte di Cassazione (Cass., sez. lav., 19 marzo 2018, n. 6798). La decisione colloca il licenziamento di un lavoratore divenuto inidoneo, perché affetto da una bronco-pneumopatia cronica e da dermatite da contatto, nel campo di applicazione della direttiva 78/2000/CE, ritenendo configurabile sia il presupposto oggettivo della attinenza della controversia alle condizioni di lavoro (nella specie il licenziamento), sia il fattore soggettivo protetto dall'art. 1 della direttiva, essendosi il lavoratore venuto a trovare in una situazione di infermità di lunga durata che non ne consentiva la esposizione alle polveri presenti sul luogo di lavoro, rendendolo inidoneo alle mansioni di saldatore e manutentore meccanico. Si precisa così che la nozione di «handicap» ai sensi della direttiva non è ricavabile dal diritto interno, ma unicamente dal diritto eurounitario, come interpretato dalla CGUE che ha riservato a se tale ruolo definitorio; che tale nozione «presuppone la presenza di una limitazione, risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche di lunga durata, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.»; che l'espressione «disabili» utilizzata nella direttiva deve essere interpretata nel senso che essa comprende tutte le persone affette da un «handicap».

La Suprema Corte (Cass., sez. lav., 27 settembre 2018, n. 23338) in un secondo arresto ha affermato «l'assoluta autonomia del concetto di handicap, quale fattore di discriminazione, rispetto all'accertamento della condizione di handicap grave di cui alla legge 104/1992». Tale statuizione è assai rilevante perché, attraverso di essa, la Corte ha espressamente riconosciuto che all'interno del nostro ordinamento, ormai, non esiste più una nozione univoca di handicap o disabilità e che il riconoscimento della condizione di lavoratore disabile ai fini della normativa antidiscriminatoria prescinde dal previo accertamento della condizione di "persona handicappata" ai sensi della L. n. 104/1992 o di lavoratore disabile ai sensi della L. 12 marzo 1999, n. 68. In altre parole, non esiste un concetto unitario di handicap e, mentre quello che trova applicazione nel contesto della normativa antidiscriminatoria ha un carattere molto ampio, quello di riferimento nell'ambito socio-previdenziale è assai più ristretto.

Da ultimo, ma non in ordine di importanza, Tribunale di Milano Sezione Lavoro Sentenza 2 maggio 2022 Giudice Dott.ssa Claudia Tosoni ha asserito nello stesso senso che: «Vien da sé che, nella materia che qui ci occupa, alla condizione di invalidità/disabilità deve riconoscersi una rilevanza obiettiva, per il sol fatto della ricorrenza di un'effettiva minorazione fisica e indipendentemente dal riconoscimento formale che della stessa i competenti Enti Previdenziali ne abbiano dato, pena la frustrazione in nuce delle tutele di legge. D'altronde, assoggettare l'applicazione delle tutele riservate ai soggetti portatori di questo specifico fattore di rischio alla ricorrenza, o all'adempimento, di formalità di qualsivoglia natura significherebbe creare un vulnus oltremodo severo allo statuto di protezione previsto dall'ordinamento, frustrandone ratio ed efficacia. (così ord. resa dal Tribunale di Milano, sez. lav., 12 giugno 2019, procedimento N. 4139/19 R.G.L.)».

Quindi, il concetto comunitario di handicap prescinde dall'accertamento della sua gravità previsto dalla L. n. 104/1992, così come nel caso esaminato dalla CGUE nella pronuncia 18 gennaio 2018, resa nella causa C-270/16 Ruiz Conejero, la disabilità fisica (cui era connessa la malattia consistente nella lombalgia) era stata in seguito qualificata come stato di obesità, con un grado di invalidità fissato al 37%.

Quanto alla casistica, i Giudici italiani hanno riconosciuto presente una disabilità (secondo la nozione eurounitaria) al lavoratore portatore delle seguenti patologie:

diabete mellito di tipo 2 (Corte di Appello di Genova n. 211/2021 del 21 luglio 2021; Corte d'Appello di Trento Sentenza n. 8 del 9 marzo 2023);

neoplasia cerebrale (Tribunale di Mantova, Ordinanza n. 160/2018);

lavoratrice colpita da aneurisma (Corte d'Appello Milano, sez. lav., 3 settembre 2021);

neoplasia (Tribunale Bologna, sez. lav., 15 aprile 2014);

invalido civile al 74% (Corte d'Appello Roma, sez. lav., 26 maggio 2021 ; Tribunale Modena, sez. lav., 11 ottobre 2019);

invalido civile al 75% (Tribunale di Lecco, Ordinanza 26 giugno 2022);

patologia tumorale al retto, con necessità di intervenire chirurgicamente (Tribunale di Mantova, sez. lav., 22 settembre 2021, n. 126);

lupus Eritematoso Sistemico - LES con esiti anche in neurite ottica (Tribunale di Spoleto, Ordinanza 3 marzo 2019);

mieloma multiplo (Tribunale di Milano, Ordinanza 26 luglio 2022);

invalido al 67% per artropatia psoriasica, asma bronchiale/bronchite cronica asmatiforme; obesità e prolasso (Tribunale di Parma, sez. lav., 9 gennaio 2023, n. 1);

flebolinfodema all'arto inferiore destro (Tribunale di Milano, sez. lav., 2 maggio 2022).

Nel caso oggetto della sentenza della Corte d'Appello di Napoli in commento è stata ritenuta disabilità la sclerosi multipla patologia dalla quale era affetto il lavoratore. Nella sentenza oggetto dello scrutinio del Giudice di Legittimità si trattava di un lavoratore riconosciuto portatore di handicap ai sensi dell'art. 3, comma 1, legge n. 104/1992, con capacità lavorativa ridotta del 75%, inidoneo a diverse mansioni sulla base degli accertamenti sanitari.

Infine, la questione maggiormente dibattuta attiene, come si è anticipato, alla rilevanza o irrilevanza della conoscenza o la conoscibilità dello stato di handicap del lavoratore da parte del datore di lavoro. In altri termini ci si è domandati se può essere contestato il licenziamento per superamento del periodo di comporto del dipendente disabile quando il datore di lavoro non ha alcuna conoscenza della causale della malattia che determina il superamento e quindi dell'handicap del quale soffre il lavoratore.

Una parte della giurisprudenza ha affermato, a tal proposito, che risulta necessario che il datore di lavoro sia portato dal lavoratore a conoscenza della patologia invalidante del quale il primo soffre, ciò sarebbe imposto dalle clausole generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., con onere del lavoratore di comunicare l'imputabilità delle assenze al proprio stato di disabilità (Corte di Appello di Torino 3 novembre 2021, n. 604; Tribunale di Vicenza 27 aprile 2022, n. 181; Tribunale di Lodi 12 settembre 2022, n. 19; Tribunale di Bologna 19 maggio 2022, n. 230; Trib. Rovereto, 8 marzo 2022, n. 16; Corte d'Appello di Palermo, 14 febbraio 2022, n. 111; Trib. Venezia, cron. n. 6273/2021).

Tuttavia, questa tesi ha incontrato alcune obiezioni sollevate da parte dell'orientamento maggioritario in giurisprudenza. In primo luogo nell'ordinamento italiano la conoscibilità datoriale della condizione psico-fisica del dipendente è preclusa dalla disciplina vigente: così l'art. 5 Stat. lav. esclude accertamenti sanitari sull'idoneità e sull'infermità per malattia da parte del datore di lavoro. Eventuali indagini sulla diagnosi della malattia, inoltre, debbono ritenersi illegittime, tanto che la figura del medico competente, deputato allo svolgimento della sorveglianza sanitaria di cui agli artt. 41 ss. D.lgs. n. 81/2008 e collaboratore del datore di lavoro ha l'obbligo di riservatezza rispetto ai dati sensibili del dipendente conosciuti nell'ambito della propria attività. Ed ancora, il lavoratore assente per malattia ha l'obbligo di comunicare al datore di lavoro lo stato di malattia e di giustificarlo con valida certificazione medica. Quest'ultima viene consegnata al dipendente e trasmessa telematicamente all'INPS, tramite il Sistema di Accoglienza Centrale (SAC), dal medico dipendente del SNN o in regime di convenzione. Ebbene, il certificato di malattia, da inviarsi all'Istituto, contiene sia diagnosi che prognosi, mentre l'attestazione di malattia, da inviarsi al datore di lavoro, contiene la sola prognosi (data di inizio e data di fine malattia).

La distonia fra il principio di non discriminazione per fattore di disabilità e la disciplina che impedisce al datore di lavoro di conoscere le condizioni di salute del dipendente è stata superata in base alla considerazione secondo la quale le direttive in materia (n. 2000/78, così come le nn. 2006/54 e 2000/43), come interpretate della Corte di Giustizia, ed i decreti legislativi di recepimento impongono l'introduzione di un meccanismo di agevolazione probatoria o alleggerimento del carico probatorio gravante sull'attore «prevedendo che questi alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l'onere per il datore di lavoro di dimostrare l'insussistenza della discriminazione» (cfr. Cass. n. 14206/2013, in materia di discriminazione di genere cfr. Cass. n. 14206/2013 coerente con le indicazioni espresse dalla Corte di Giustizia 17 luglio 2008, C303/06 Colemann, 10 luglio 2008, C-54/07 Feryn, 16 luglio 2015, C- 83/14 Chez).), con l'ulteriore precisazione che «nulla autorizza a ritenere il suddetto regime probatorio applicabile solo all'azione speciale e, del resto, una interpretazione in senso così limitativo confliggerebbe con i principi posti dal legislatore comunitario».

Quindi, quanto al regime della prova in tema di discriminazione l'art. 28 comma 4 del D.lgs. n. 150/2011, in vigore dal 6 ottobre 2011, ed applicabile anche all'azione riguardante il licenziamento discriminatorio, come indicato dalla Suprema Corte, dispone che «quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione».

Allo stesso modo e più di recente Cass., sez. lav., 27 settembre 2018, n. 23338 (rv. 650563-01) in materia di discriminazione per disabilità ha asserito che: «in tema di licenziamento discriminatorio, in forza dell'attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta per effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l'onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso».

Ancora, Tribunale Firenze, sez. lav., 14 marzo 2017 ha affermato che: «La norma (antidiscriminatoria) stabilisce quindi una sorta di inversione dell'onere della prova, nel senso che laddove il lavoratore abbia allegato e provato elementi di fatto idonei a fondare la presunzione dell'esistenza di atti o comportamenti discriminatori, spetta allora al datore di lavoro dimostrare invece che quelle condotte trovano la propria giustificazione in ragioni diverse da quelle discriminatorie».

Peraltro, dalla nota Cass., 5 aprile 2016, n. 6575 è pacifico che ai fini del licenziamento discriminatorio non deve essere presa in considerazione la volontà o meno del datore di lavoro di discriminare e, atteso il carattere oggettivo, non rileva l'elemento soggettivo di chi la pone in essere. Al fine di integrare la fattispecie discriminatoria è sufficiente la prova dell'effetto pregiudizievole del licenziamento, essendo prevalsa la nozione oggettiva su quella soggettiva, e dunque essendo superfluo l'accertamento dell'intento discriminatorio. Applicando la regola dell'interpretazione conforme al diritto comunitario, per integrare la fattispecie vietata “occorre sia provata la correlazione tra il danno subito dalla vittima ed il fattore discriminatorio vietato, individuato dall'elenco oramai ampio che emerge dal panorama complessivo in materia”.

Depongono in tal senso le nozioni di discriminazione contenute nelle norme – pressoché simili – contenute nell'art.2 delle Direttive n. 43/00, c.d. Direttiva “razza”; n. 78/00, c.d. direttiva – quadro in materia di occupazione; e n. 54/06, in materia di “genere”. La conclusione è confermata, altresì, dal diritto nazionale che ha trasposto le direttive di cui ha mutuato il modo di definizione delle discriminazioni, in particolare quella diretta e quella indiretta. Esse si basano in primo luogo sulla comparazione fra il diverso trattamento riservato alle diverse classi di soggetti presi in considerazione, o sull'effetto maggiormente svantaggioso subito dagli uni rispetto agli altri da un trattamento o criterio pure formalmente neutro, come risulta dalla formulazione letterale dei decreti attuativi delle direttive comunitarie (D.lgs. n. 215/2003 e D.lgs. n. 216/2003). La concezione oggettiva di discriminazione risponde alla finalità di allargare l'ambito di applicazione dei divieti di discriminazione per garantire la loro massima ed efficace applicazione. L' orientamento estensivo all'applicazione dei divieti di discriminazione emergente dall'evoluzione legislativa euro-unitaria, inoltre, trova conferma nell'evoluzione costante dell'interpretazione della Corte di giustizia.

Si tratta si asserto fatto proprio dalla sentenza del Tribunale Mantova, sez. lav., 22 settembre 2021, n. 126, che ha giudicato un ricorso in opposizione nel quale il datore di lavoro soccombente nella fase sommaria adduceva: «che non essendo a conoscenza dello stato di salute del lavoratore non era comunque nella condizione di poter adottare "comportamenti idonei a evitare la discriminazione indiretta" e che la mera previsione di un periodo di comporto identico per lavoratori disabili e normodotati non integra una discriminazione». Rispetto a tali doglianze il Giudice Mantovano ha rigettato il ricorso in opposizione del datore di lavoro affermando proprio che: «La discriminazione indiretta, come quella diretta opera in modo oggettivo, non rilevando in alcun modo l'intento soggettivo di colui che pone in essere la discriminazione…. appare irrilevante la conoscenza o la conoscibilità dello stato di handicap del lavoratore per il carattere imperativo "del principio comunitario di parità di trattamento (art. 1 della direttiva n. 78/2000) il quale si realizza quando è assente qualsiasi discriminazione diretta o indiretta (art. 2 della stessa direttiva); pertanto a prescindere dalla conoscenza che il datore di lavoro abbia o meno dello stato di handicap, deve essere comunque eliminato l'effetto di una discriminazione anche indiretta indipendentemente dall'applicazione apparentemente neutra di una norma di diritto o negoziale o di una prassi laddove la stessa ridondi in un trattamento deteriore per il portatore di handicap».

Nello stesso senso si è espressa Corte d'Appello Milano, Sez. lavoro, Sent., 03/09/2021, n. 301, che ha giudicato di un appello del datore di lavoro soccombente e che fra i motivi di appello si doleva della propria ignoranza circa l'effettiva grave patologia sofferta dal lavoratore, considerato che l'accertamento della grave infermità ex L. n. 104/1992 e dell'invalidità civile era intervenuta molti mesi dopo l'inizio della patologia e la seconda dopo l'irrogazione del licenziamento. In tale arresto il Giudice ambrosiano nel rigettare l'appello afferma che: «Indubbiamente, la P. aveva accusato prima di tutto una malattia, una seria e allarmante sofferenza patologica che l'aveva costretta a stare al di fuori del lavoro e dal relativo contesto per mesi ma che, in realtà, per quelli che erano stati i suoi effetti esiziali, aveva repentinamente influito in maniera assai negativa sulla sua idoneità al lavoro in termini di vera e propria condizione di invalidità, appurata e dichiarata sì, in senso pieno, solo nel maggio 2019 circa otto mesi dopo il licenziamento per superamento del periodo di comporto, ma che era stata capace di tradursi in una situazione gravemente impeditiva già nel marzo 2018 -più di sei mesi prima del recesso datoriale- quando, come documentato in atti, la Commissione Medica aveva riconosciuto a carico della P. uno stato di handicap grave».

Ancora, il Tribunale di Verona nell'ordinanza del 21 marzo 2021, Giudice Dr. Antonio Gesumunno ha dovuto analizzare un caso di superamento del periodo di comporto da parte del lavoratore disabile secondo la nozione eurounitaria, in tale arresto la parte datoriale aveva osservato che le certificazioni mediche trasmesse dal lavoratore non recavano l'evidenza della natura della patologia che giustificava le assenze del lavoratore e che pertanto il datore di lavoro non era in grado di verificare la riconducibilità dell'assenza alle patologie invalidanti del ricorrente. Il Giudice ritiene «l'argomentazione di parte ricorrente non condivisibile. L'applicazione della normativa sovranazionale-recepita nel D.lgs. n. 216/2003 - non richiede infatti un comportamento intenzionalmente discriminatorio. La più recente giurisprudenza di legittimità ha fissato il principio secondo il quale la discriminazione “opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta e a prescindere dalla volontà illecita del lavoratore) (Cass., sez. lav., 27 settembre 2018, n. 23338; Cass. n. 6575/2016)».

Nello stesso senso Corte d'Appello Roma, sez. lav., 26 maggio 2021 ha affermato che « Non rileva che la società non fosse a conoscenza delle specifiche patologie sofferte dalla sig.ra C. atteso che, a fronte di una accertata e durevole condizione di parziale inidoneità della lavoratrice alle mansioni e di reiterate assenze per malattia, la società non ha posto in essere alcuna iniziativa per acquisire, con il consenso della lavoratrice e coinvolgendo anche il medico competente, le necessarie informazioni sulla patologia sofferta e sulle cause delle assenze, prima di applicare al soggetto disabile la disciplina indirettamente discriminatoria sul comporto».

Anche Tribunale di Milano, sez. lav., 2 maggio 2022, ha ritenuto che: «Nemmeno può assumere alcun rilievo il fatto che il datore non sia stato nel tempo messo al corrente della situazione di salute della lavoratrice – la quale lo ha infatti informato delle proprie condizioni solo in epoca successiva al licenziamento. Al riguardo, come noto, in linea con quanto affermato dal diritto dell'Unione Europea e confermato dal Legislatore nazionale, la discriminazione non può che rilevare oggettivamente, essendo del tutto irrilevante, ai fini del riconoscimento della discriminatorietà di un atto, la condizione o l'intento soggettivo dell'agente; ciò che conta è infatti ed unicamente l'effetto oggettivamente considerato del trattamento discriminatorio. Sul punto, la Suprema Corte ha per vero chiarito che: la discriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (Cass., sez. lav., 5 aprile 2016, n. 6575)».

Del resto l'irrilevanza dello stato di conoscenza del fattore discriminatorio da parte del datore di lavoro ai fini della nullità del licenziamento non sarebbe di certo una novità nel nostro ordinamento, tanto che con riferimento a quel particolare licenziamento discriminatorio che è il licenziamento durante il periodo di maternità della lavoratrice, di cui all'art. 54, D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, non vi è mai stato dubbio che lo stesso operi per il solo fatto della connessione oggettiva della gravidanza della lavoratrice, a prescindere dalla conoscenza di detto stato da parte del datore di lavoro (cfr. Cass., sez. lav., 3 luglio 2015, n. 13692; Tribunale Roma, sez. lav., 19 marzo 2019).

Infine, anche nella sentenza CGCE 18 gennaio 2018, resa nella causa C-270/16 Ruiz Conejero, la Corte di Giustizia ha avallato l'asserto del giudice del rinvio spagnolo secondo il quale il rischio statistico corso dai lavoratori con disabilità rileverebbe «indipendentemente dal fatto che il datore di lavoro sia o meno a conoscenza di tale condizione», come appunto accaduto nel caso spagnolo, nel quale il lavoratore «aveva volontariamente rinunciato agli esami medici periodici organizzati dalla mutua cui era iscritto il datore di lavoro» (punti 21-22).

La Corte di Giustizia non svolge, sul punto, alcuna riflessione in diritto, ma è certo che quel presupposto fattuale non ha alterato le sue conclusioni. Dovrebbe indursene che, se non la malattia, almeno lo stato di disabilità rientri in una dimensione oggettiva della discriminazione che consentirebbe di prescindere dalla sua effettiva conoscenza.

In tale alveo interpretativo si colloca anche la sentenza della Corte d'Appello di Napoli commentata, che ha asserito che: «appare irrilevante la conoscenza o conoscibilità dello stato di handicap del lavoratore per il carattere imperativo del principio comunitario di parità di trattamento; pertanto, a prescindere dalla conoscenza che il datore di lavoro abbia o meno dello stato di handicap (sebbene nel caso concreto risulti poco verosimile la non conoscenza della patologia da cui risulta affetto il…), deve essere comunque eliminato l'effetto di una discriminazione anche indiretta indipendentemente dall'applicazione apparentemente neutra di una norma di diritto o negoziale o di una prassi laddove la stessa ridondi in un trattamento deteriore per il portatore di handicap»).

La sentenza in commento della Corte di Cassazione allo stesso modo ha concluso che: (poiché) "La discriminazione opera in modo oggettivo ed è irrilevante l'intento soggettivo dell'autore. Non è dunque decisivo l'assunto di parte ricorrente di non essere stata messa a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, perché i certificati medici delle assenze inoltrati al datore di lavoro non indicavano la specifica malattia a causa dell'assenza. Va, invero, confermato che la discriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro".

Osservazioni

Le sentenze commentate attuano nell'ordinamento interno senza compromessi quell'orientamento proposto per la prima volta dalla sentenza CGCE del 18 gennaio 2018 nella causa C-270/16 Ruiz Conejero. Il principio imperativo europeo di parità di trattamento ed analogamente il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. ed il necessario corollario del divieto di discriminazione per fattore di handicap assumono efficacia prevalente su ogni altro interesse. La sentenza della Corte d'Appello di Napoli in particolare pone anche alcune rilevanti obiezioni alla tesi di chi aveva affermato che impedire il licenziamento del dipendente quando la prestazione non risulti più utile per il datore di lavoro avrebbe compromesso in misura inaccettabile il principio di libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 Cost., finendosi per assegnare al datore di lavoro una funzione di assistenza sociale che l'art. 38 Cost. riserva allo Stato (G. Franza, Quando l'effettività genera paradossi. Sull'esclusione dal periodo di comporto della malattia imputabile a disabilità, in il Lavoro nella giurisprudenza, I, 2022, 70).

Ebbene, la Corte d'Appello di Napoli asserisce, al contrario, che il sacrificio del datore di lavoro sarebbe minimo in considerazione delle tutele previste dalla legge, sic: «il CCNL di categoria, nel disciplinare il trattamento economico del lavoratore assente per malattia, prevede regole ben precise che contengono l'onere economico in capo all'azienda entro determinati limiti temporali, superati i quali il lavoratore malato conserva soltanto il diritto al mantenimento nel posto di lavoro senza retribuzione. Va poi considerato che nel nostro ordinamento è prevista un'indennità previdenziale di malattia a carico dell'Inps che, nel settore, copre i giorni di assenza giustificati dai certificati di malattia per un periodo massimo di 180 giorni l'anno. Gli oneri prettamente retributivi a carico del datore di lavoro sono davvero contenuti. Si può, dunque, concludere che, nella fattispecie concreta, l'esclusione del computo del periodo di comporto dei giorni di assenza per malattie connesse allo stato di handicap dei lavoratori non costituisce un carico eccessivo per il datore di lavoro, che ha a disposizione tutta una serie di misure e sostegni per poterlo sopportare, non ultimo quello di controllare in modo costante l'idoneità alla mansione del lavoratore disabile…il tutto per poter applicare l'istituto della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione sino alla cessazione dell'incompatibilità oppure - in extremis - addivenire ad un licenziamento per inidoneità assoluta alla mansione, ove sussistente».

Una lieve differenza appare sussistere rispetto alla sentenza del Giudice di Legittimità su questo versante. In altri termini se parrebbe di intuire che per la pronuncia della Corte partenopea per il disabile non vanno mai computati i giorni di comporto correlati alla propria disabilità, diversamente la Cassazione appare possibilista al proposito laddove ad esempio la contrattazione collettiva preveda termini di comporto differenziati fra lavoratori normodotati e lavoratori disabili, più ampi per questi ultimi. Così la Suprema Corte afferma: «non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato. Una simile scelta discrezionale del legislatore o delle parti sociali per quanto di competenza, anche ai fini di combattere fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità, può integrare, come ricordato nelle sentenze della CGUE citate, una finalità legittima di politica occupazionale, ed in tale senso oggettivamente giustificare determinati criteri o prassi in materia. Tuttavia, tale legittima finalità deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati, mentre la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio».

Orbene, all'esito della disamina si deve osservare come le sentenze della Corte d'Appello di Napoli e della Corte di Cassazione costituiscano un punto di approdo finale, che fornisce un accettabile grado di certezza interpretativa, rispetto alla questione del trattamento del disabile licenziato per superamento del periodo di comporto. A parere di chi scrive le affermazioni contenute nelle decisioni commentate appaiono lungimiranti, anche in considerazione dell'ormai ineludibile obbligo del giudice interno di dare corretta attuazione del diritto europeo, giungendo, nei casi in cui la disciplina interna (art. 2110 cc.) contrasti irrimediabilmente con l'ordinamento sovrannazionale, alla disapplicazione della stessa senza neppure far ricorso al giudizio di costituzionalità, come ha di recente riaffermato il Giudice delle Leggi nella nota sentenza n. 167 del 9 giugno 2022.

Tuttavia, se da una parte la Cassazione compone un contrasto giurisprudenziale, dall'altra solleva ulteriori interrogativi di non semplice risoluzione. Infatti, nel legittimare, in obiter dictum, un licenziamento irrogato in base ad una contrattazione collettiva che preveda termini di comporto differenziati, non chiarisce in termini quantitativi quando un periodo di comporto, pur se differenziato per i lavoratori disabili, sia rispettoso della maggiore morbilità di questi ultimi e quando non lo sia, aprendo le porte, ancora una volta, ad una inevitabile valutazione caso per caso dell'interprete.

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