Il dileggio sull'orientamento sessuale del collega è sanzionabile con il licenziamento per giusta causa
12 Aprile 2023
Massime
“… La “giusta causa” di licenziamento ex articolo 2119 c.c. integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici....”
“ …Costituisce portato dell'evoluzione della società negli ultimi decenni, l'acquisizione della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale e del fatto che essa attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona; l'intrusione in tale sfera, effettuata peraltro con modalità di scherno e senza curarsi della presenza di terze persone, non può pertanto essere considerata secondo il "modesto" standard della violazione di regole formali di buona educazione ma deve essere valutata tenendo conto della centralità che nel disegno della Carta costituzionale assumono i diritti inviolabili dell'uomo, il riconoscimento della pari dignità sociale, senza distinzione di sesso, il pieno sviluppo della persona umana, il lavoro come ambito di esplicazione della personalità dell'individuo, oggetto di particolare tutela in tutte le sue forme ed applicazioni".
“…Il dipendente che pronunci frasi sconvenienti ed offensive - alla presenza di terzi - nei confronti di una collega, deridendola per la sua omosessualità, realizza un'indebita intrusione nella sfera intima e assolutamente riservata della persona, tale da essere sanzionabile con il licenziamento per giusta causa. Siffatta condotta non può essere considerata quale una mera violazione di regole formali di buona educazione ma integra la lesione dei principi costituzionali a tutela della dignità umana, del divieto di discriminazione in ambito lavorativo e della riservatezza di dati sensibili…”. Il caso
Un dipendente di un'azienda di trasporto autoferrotranviero, durante il cambio di turno, rivolgeva una serie di apprezzamenti dileggianti sull'orientamento sessuale della collega, alla presenza dell'utenza e senza curarsi della divisa indossata, quale lavoratore della società concessionaria del servizio pubblico in questione.
Sentendosi fortemente offesa per le frasi “sconvenienti” pronunciate nei suoi riguardi, ad alta voce, durante il servizio, davanti a tutti ed in luogo pubblico, la lavoratrice “vittima del dileggio” aveva, quindi, deciso di presentare una segnalazione all'azienda per il comportamento posto in essere dal collega, rivendicando il doveroso rispetto della propria sfera privata e l'evidente inaccettabilità e lesività della condotta perpetrata in suo danno, siccome apertamente violativa delle previsioni del Codice Etico aziendale e delle regole di civile convivenza.
L'azienda, pertanto, procedeva ad attivare la procedura interna con la conseguente convocazione della Commissione di Inchiesta e, preso atto della sostanziale assenza di giustificazione e dell'atteggiamento offensivo e minaccioso assunto dal dipendente nei confronti del Presidente della Commissione, provvedeva all'esito a risolvere il rapporto di lavoro per giusta causa, considerando gli addebiti rivolti di gravità tale da giustificare l'immediato recesso datoriale.
Prontamente impugnato dal lavoratore il comminato licenziamento, il Tribunale (in fase sommaria e nella sentenza di primo grado) confermava la legittimità della risoluzione della vicenda lavorativa, mentre la Corte di appello, ritenendo sproporzionata la sanzione espulsiva, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ai sensi e per gli effetti dell'art. 18, comma 5, l. n. 300/1970 e s.m.i. dichiarava risolto il rapporto di lavoro e condannava parte datoriale al pagamento di un importo pari a venti mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.
Per i Giudici del gravame, invero, la sanzione irrogata risulterebbe sproporzionata rispetto ad entrambe le condotte oggetto di addebito, venendo in rilievo, in particolare, una condotta inurbana (in quanto concernente apprezzamenti sulla sfera sessuale di una collega) da considerarsi meno grave del “contegno inurbano o scorretto verso il pubblico", punito con sanzione conservativa dal Regolamento allegato A) Regio Decreto n. 148/1931.
La questione, pertanto, approdava al vaglio della Suprema Corte, a seguito del ricorso principale proposto dal lavoratore e di quello incidentale promosso dall'azienda datrice di lavoro. La questione
La questione in esame involge il profilo del riconoscimento della giusta causa di licenziamento per l'indebita intrusione di dileggio nella sfera intima e assolutamente riservata della persona, in lesione dei principi costituzionali posti a tutela della dignità umana, del divieto di discriminazione in ambito lavorativo e della riservatezza di dati sensibili. La soluzione giuridica
Nel dirimere il caso posto alla propria attenzione, la Suprema Corte parte dalla considerazione per cui la "giusta causa" di licenziamento, ex articolo 2119 c.c., integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale ed ai principi tacitamente richiamati dalla norma.
Per tale ragione, la valutazione operata dal giudice di merito, che ha semplicemente qualificato come "inurbana" la condotta posta in essere dal lavoratore licenziato, non appare conforme ai valori attuali della realtà sociale ed ai principi stessi dell'ordinamento, considerando come costituisca un innegabile portato della evoluzione della società negli ultimi decenni la acquisizione della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale e del fatto che essa attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona.
Ed invero, l'intrusione in tale sfera, effettuata peraltro con modalità di scherno e senza curarsi della presenza di terze persone, non può essere dequalificata a mero comportamento contrario soltanto alle regole della buona educazione e degli aspetti formali del vivere civile, così come erroneamente valutato dal giudice del reclamo, ma deve essere valorizzata in relazione ai citati valori e principi generali dell'ordinamento, considerando la centralità che nel disegno della Carta costituzionale assumono i diritti inviolabili dell'uomo.
È pertanto connotato da giusta causa il licenziamento del dipendente che ha pronunciato frasi sconvenienti ed offensive ad alta voce, alla presenza di diversi utenti, nei confronti di una collega in relazione al suo orientamento sessuale, siccome condotta espressiva di un comportamento gravemente lesivo dei principi del Codice Etico aziendale e delle regole di civile convivenza.
Assorbita ogni altra censura, la Suprema Corte ha, dunque, cassato la decisione impugnata, disponendo il riesame della complessiva fattispecie al fine della verifica della sussistenza della giusta causa di licenziamento, alla luce della corretta scala valoriale di riferimento indicata. Osservazioni
La questione affrontata dalla Suprema Corte riporta alla ribalta l'annoso tema dell'ambito estensivo della nozione di giusta causa di licenziamento, la quale, ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali, richiede una concreta e costante operazione di sintesi e traduzione interpretativa, allo scopo di consentire un adeguamento delle norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama.
La portata sostanzialmente elastica di tale clausola, articolata sul dettato normativo di un fatto che “non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” art. 2119 c.c., dunque, importa l'effettuazione di una valutazione autonoma del caso concreto, finalizzata a verificare la congruità della sanzione espulsiva, anche alla luce dei valori presenti nella realtà sociale e nell'ambito di base e di riferimento.
In tale contesto, pertanto, l'opera valutativa del Giudicante assurge ad elemento fondamentale di sistema, tanto che la Suprema Corte, con la pronuncia in esame, di fatto cristallizza l'adeguamento degli standard valoriali dell'ordinamento, a cui deve essere attualizzata la nozione della giusta causa di licenziamento, con i principi di non-discriminazione, parità del trattamento, dignità della persona e dei diritti fondamentali alla riservatezza delle abitudini sessuali.
Il rispetto che merita qualsiasi scelta di orientamento sessuale è, infatti, un "innegabile portato della evoluzione della società" negli ultimi decenni e la scelta che attiene alla sfera della sessualità intima e assolutamente riservata della persona, va tutela contro qualsiasi intrusione indebita con strumenti di reazione adeguati.
Ecco perchè il massimo organo della Nomofilachia non ritiene condivisibile la lettura tollerante proposta dalla Corte d'Appello, in quanto non è conforme ai valori presenti nella società qualificare come mero "comportamento inurbano" la condotta del lavoratore, trattandosi di un contegno contrario non solo alle regole di buona educazione e alle forme del vivere civile, ma a valori più pregnanti, ormai radicati nella coscienza comune come espressione di principi generali dell'ordinamento e dei diritti di rango costituzionale, come la tutela dei diritti inviolabili dell'uomo (articolo 2) senza distinzione di sesso, la tutela dello sviluppo della persona umana (articolo 3), il lavoro come forme di esplicazione della personalità dell'individuo (articolo 4) da tutelare "in tutte le sue forme e applicazioni" (articolo 35).
In tal senso, il dileggio irridente sull'orientamento sessuale non può degradarsi a semplice questione di buona educazione, ma concretizza invece una ipotesi di condotta di natura degradante e offensiva realizzata per ragioni connesse al sesso, come tale certamente idonea a non consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto lavorativo, siccome incidente sul sistema di impostazione valoriale anzidetto, oltre che lesiva della generale esigenza di riservatezza relativa alle informazioni relative all'orientamento sessuale quali dati sensibili, tutelati a livello nazionale e comunitario (vedasi d.lgs. n. 196/2003 e Reg. UE n. 2016/679).
Non a caso, colpisce nella vicenda processuale in esame il fatto di aver riscontrato una diversificazione di vedute nei vari gradi di giudizio, potendosi spiegare tale singolare oscillazione giurisprudenziale proprio con riferimento alla particolare natura elastica della nozione di giusta causa sancita dall'art. 2119 c.c. ed alla conseguente, fondamentale operazione ermeneutica e riempitiva a carattere contenutistico, rimessa alla valutazione in sede giudiziale.
Ecco che, allora, l'intervento della Suprema Corte risulta ancor più apprezzabile, poiché non solo attuativo dell'upgrade valoriale di matrice adeguativa all'evoluzione sociale tipica di ogni contesto consociale, ma finanche indicativo di un dettame codicistico di base, insito nel riconoscimento del potere/dovere datoriale di intervenire rispetto a comportamenti “orizzontali”, tra colleghi, che ledano la persona nel contesto lavorativo.
Viene così cristallizzato il ruolo di responsabilità e di tutela sostanziale della dignità, dell'uguaglianza, della riservatezza dei lavoratori sul luogo di lavoro, con inevitabile rimando non solo alla disciplina antidiscriminatoria ed al Codice delle pari opportunità e della tutela della privacy indicati in sentenza, ma altresì al dettato più profondo dell'art. 2087 c.c., quale vera e propria previsione in bianco di chiusura del sistema. |