La tutela del segnalante da possibili ritorsioni è la chiave di volta per garantire effettività alla disciplina in materia di whistleblowing. Nel presente contributo si analizzano le disposizioni vigenti nell'ordinamento italiano, risultanti dalla legislazione speciale e dai principi di diritto enunciati nelle pronunce della giurisprudenza di merito e di legittimità.
La tutela del whistleblower nella recente giurisprudenza di legittimità: l'ordinanza della Corte di Cassazione 31 marzo 2023, n. 9148
Una recente pronuncia della Corte di Cassazione 31 marzo 2023, n. 9148 affronta il tema del whistleblowing, precisando i limiti della tutela prevista dall'ordinamento.
Il caso riguarda un'infermiera professionale dipendente di una struttura ospedaliera pubblica, la quale veniva sanzionata con la sospensione disciplinare di quattro mesi per aver svolto attività non autorizzata presso un ente privato, percependo introiti extra per circa otto anni. Il processo trae origine dall'impugnativa svolta dall'infermiera contro la sanzione disciplinare, ritenuta ritorsiva ai sensi dell'art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001 per avere la dipendente presentato, anteriormente all'irrogazione del provvedimento, una segnalazione al proprio datore di lavoro contro i colleghi che avevano attuato in concorso con lei le medesime condotte illecite.
Siamo nell'ambito dell'applicazione delle misure di protezione ex lege previste a tutela dei whistleblowers, disciplinate dall'art. 54-bis commi 1 e 7 d.lgs. n. 165/2001 (1) per l'impiego pubblico e dall'art. 6 commi 2-bis lett. c) e 2-quater d.lgs. n. 231/2001 (2) per l'impiego privato (così come novellati rispettivamente dagli articoli 1 e 2 della L. n. 179/2017), che prevedono il divieto di ritorsione e il meccanismo della presunzione relativa di nullità (3).
Più precisamente, la speciale disciplina stabilisce la nullità di tutti gli atti aventi effetti pregiudizievoli sulle condizioni di lavoro (p.e., licenziamenti, trasferimenti, provvedimenti disciplinari, mutamenti di mansioni, modifica dell'orario lavorativo) successivi alla segnalazione o alla denuncia, da parte del dipendente, di irregolarità o di illeciti di cui sia venuto a conoscenza nello svolgimento delle mansioni lavorative (c.d. whistleblower), salvo la piena prova contraria da parte del datore di lavoro che dovrà dimostrare come tali misure siano fondate su ragioni estranee alla segnalazione stessa. Pertanto, a fronte della prova –da parte del whistleblower- di aver effettuato una segnalazione secondo le modalità e i canali indicati dalla legge e di aver subito una misura pregiudizievole cronologicamente successiva (4), sarà a carico del datore di lavoro l'onere di dimostrare che le misure adottate siano state determinate da motivi legittimi o comunque non legati alla segnalazione, configurandosi –secondo l'unanime dottrina (5) - una vera e propria inversione dell'onere della prova.
Rispetto a questo quadro, l'ordinanza in commento traccia i confini in modo netto, negando l'applicazione della protezione legislativa al segnalante che abbia compiuto atti o comportamenti illeciti, anche se in concorso con gli stessi soggetti denunciati: la segnalazione di illeciti altrui non può trasformarsi in uno scudo per gli illeciti del whistleblower.
Infatti la normativa speciale in materia di whistleblowing “non istituisce un'esimente per gli illeciti che egli [il whistleblower, n.d.r.], da solo o in concorso con altri responsabili, abbia commesso, potendosi al più valutare il ravvedimento operoso o la collaborazione al fine di consentire gli opportuni accertamenti nel contesto dell'apprezzamento, sotto il profilo soggettivo, della proporzionalità della sanzione da irrogarsi nei confronti del medesimo”(cfr. Cass., 31 marzo 2023, n. 9148).
Il che vuol dire, con riferimento al caso di specie, che se certamente la segnalazione svolta dall'infermiera nei confronti dei colleghi non può scriminare la sua condotta disciplinarmente rilevante e la correlativa responsabilità, tuttavia la medesima segnalazione potrà rilevare al fine di proporzionare l'entità della sanzione, anche in considerazione della condotta collaborativa in concreto manifestata: ne deriva la conferma della sanzione conservativa della sospensione per quattro mesi.
Il principio di diritto enunciato nella pronuncia in esame pare bilanciare in modo equilibrato, da un lato, il dovere di garantire il principio di legalità nei confronti di chiunque, nessuno escluso e, dall'altro, la necessità di tutelare i whistleblowers da possibili rappresaglie, evitando meccanismi indirettamente disincentivanti (6).
La protezione del segnalante nella giurisprudenza di merito: la pronuncia del Tribunale di Mantova, 30 marzo 2021
Un'altra pronuncia, questa volta di merito, consente di focalizzare ancora meglio il perimetro della tutela legislativa prevista dall'ordinamento italiano.
L'ordinanza del Tribunale di Mantova, sez. lav., 30 marzo 2021 infatti, nell'annullare il licenziamento disciplinare irrogato a un lavoratore che aveva segnalato alcune gravi irregolarità all'interno di un'azienda alimentare, enuncia alcuni importanti principi di diritto.
In primo luogo, il provvedimento del giudice mantovano sostiene che “il nuovo comma 2-quater dell'art. 6 d.lgs. n. 231/2001 prevede la nullità del licenziamento ritorsivo del segnalante e di tutte le altre misure eventualmente ritorsive (es. il mutamento di mansioni ai sensi dell'art. 2103 c.c.) e afferma un'inversione dell'onere probatorio in capo al datore di lavoro, tenuto a dimostrare come tali misure siano fondate su ragioni estranee alla segnalazione stessa” (7).
Tesi conforme –come abbiamo visto- all'unanime orientamento dottrinale ma smentita da una recente sentenza della Corte d'Appello di Milano (App. Milano, sez. lav., 3 marzo 2023, n. 252, in IUS Lavoro, 21 marzo 2023, con nota di Tambasco) che, sebbene riferita all'omologo art. 54-bis d.lgs. 165/2001, ha stabilito che “l'onere della prova in ordine al nesso di derivazione tra segnalazione e misura pregiudizievole grava interamente sulla parte che lo allega, alla stregua della regola generale di riparto dell'onere probatorio ex art. 2697 c.c., non derogata dalla disposizione speciale in esame”.
In secondo luogo, la pronuncia riconosce l'esistenza di una bipartizione (8) nella tutela in materia di whistleblowing, caratterizzata dalla disciplina speciale disegnata dalla L. n. 179/2017 e dalla disciplina di diritto comune, quest'ultima implementata dai “consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza” che “poco si discostano da quelli formalizzati nella legge speciale”.
Al di fuori dell'area applicativa della L. n. 179/2017, pertanto, si pone lo ius receptum così come delineato dalla giurisprudenza di legittimità che, in materia di licenziamento del dipendente il quale abbia presentato denunce all'autorità giudiziaria o amministrativa su atti o condotte illecite del datore di lavoro, ha affermato che “non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l'avere il dipendente reso noto all'A.G. fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l'azienda in cui lavora, né l'averlo fatto senza averne previamente informato i superiori gerarchici, sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell'esposto o la consapevolezza della insussistenza dell'illecito e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti” (cfr., ex plurimis, Cass. 14 marzo 2013, n. 6501; Cass. 8 luglio 2015, n. 14249; Cass. 16 febbraio 2017, n. 22375; Cass. 16 gennaio 2001, n. 519).
Siamo nell'area del diritto di denuncia, che trova il suo addentellato costituzionale nei principi di solidarietà sociale di cui all'art. 2 e nel dovere di fedeltà previsto dall'art. 54, primo comma, che richiede a ciascun cittadino di osservare la Costituzione e le leggi della Repubblica (9).
Del resto, l'obbligo di fedeltà prescritto dall'art. 2105 c.c. a carico del prestatore di lavoro non può sostanziarsi nel dovere di “tacere anche fatti illeciti (da un punto di vista civile, penale od amministrativo) che egli veda accadere intorno a sé in azienda”, in quanto tale obbligo va circoscritto al “divieto di abuso di posizione mediante condotte concorrenziali e/o violazioni di segreti produttivi (non già di segreti tout court, non meglio specificati)”. Il dovere di fedeltà, in definitiva, non può tradursi in un dovere di omertà (cfr. Cass. 14 marzo 2013, n. 6501, cit.).
Diversa è, invece, la volontà di danneggiare il proprio datore di lavoro mediante false accuse, per la dimostrazione della quale occorre in ogni caso che risulti dimostrata la mala fede (recte l'intento doloso) del lavoratore, cosa che non può ritenersi insita nell'eventuale archiviazione degli esposti o delle denunce presentate. Onere della prova che, nel caso di licenziamento del dipendente, incombe ovviamente a carico del datore di lavoro, ai sensi dell'art. 5 L. n. 604/1966 (cfr. Cass. 15 marzo 2013, n. 6501, cit.; Cass. 8 luglio 2015, n. 14249, cit.).
Ne deriva –sempre che non sia provata dal dipendente la più grave fattispecie del motivo illecito determinante exart. 1345 c.c. - l'illegittimità del recesso per insussistenza del fatto giuridico, essendo la condotta del denunciante tutelata dall'ordinamento e dunque lecita, con la correlativa applicazione della tutela reintegratoria exart. 18 comma 4 L. n. 300/1970 (o exart. 3 comma 2 d.lgs. n. 23/2015).
Il “diritto di critica” del segnalante
Sempre nell'ambito della disciplina di diritto comune, dalla law in action emerge un altro consolidato filone giurisprudenziale che, entro specifici e ben determinati limiti, protegge il comportamento del lavoratore che segnali ad altre persone o al pubblico una condotta aziendale illecita.
Siamo nell'alveo del diritto alla libera manifestazione del pensiero tutelato dall'art. 21 Cost. e dall'art. 1 Stat. lav., elaborato dalla Cassazione sul solco della giurisprudenza intervenuta in materia di cronaca e critica giornalistica.
In particolare, perché la critica del lavoratore possa essere immune da reazioni datoriali, è necessario che concorrano i seguenti requisiti:
- verità nella divulgazione dei fatti che possono arrecare danno all'immagine dell'imprenditore, non assoluta ma soggettiva, “corrispondente ad un prudente apprezzamento soggettivo di chi dichiara gli stessi come veri” (cfr. Cass., 18 gennaio 2019, n. 1379; Cass. 18 luglio 2018, n. 19092; Cass. 10 luglio 2018, n. 18176);
- continenza formale, consistente nell'utilizzo di toni appropriati, misurati e civili, essendo vietati giudizi offensivi e denigratori che possano ledere l'onore e la reputazione altrui (cfr. Cass. 18 gennaio 2019, n. 1379; Cass. 10 luglio 2018, n. 18176, cit.; Cass. 17 gennaio 2017, n. 996), rientrandovi in tale valutazione anche la congruità del mezzo utilizzato per la diffusione della critica (cfr., per la diffusione a mezzo di social network, Cass. 27 aprile 2018, n. 10280, che ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di un dipendente che aveva diffuso su Facebook un commento offensivo nei confronti dell'azienda; Tar Lombardia, sez. III, 3 marzo 2016, n. 246, che ha convalidato il licenziamento disciplinare di un lavoratore che aveva apposto un like sotto un post offensivo nei confronti del datore di lavoro);
- pertinenza (o utilità sociale) della critica, intesa come rispondenza “ad un interesse meritevole in confronto con il bene suscettibile di lesione”, coincidente con l'interesse che “si relazioni direttamente o indirettamente con le condizioni del lavoro e dell'impresa, come le rivendicazioni di carattere lato sensu sindacale o le manifestazioni di opinione attinenti il contratto di lavoro” ” (cfr. Cass., 18 gennaio 2019, n. 1379, cit.); non rispondono a tale criterio, invece, “le critiche rivolte al datore di lavoro, magari afferenti le sue qualità personali, oggettivamente avulse da ogni correlazione con il rapporto contrattuale e gratuitamente mirate a ledere la sua onorabilità” (cfr. Cass., 18 gennaio 2019, n. 1379).
Integrati tutti i requisiti, la condotta del lavoratore è da considerarsi lecita; diversamente, laddove anche uno solo dei limiti descritti venga travalicato, la critica rivolta dal lavoratore al datore di lavoro non è scriminata dall'esercizio del diritto ed assume l'attitudine ad integrare un illecito disciplinare; ciò, tuttavia, non importa automaticamente che tale condotta sia meritevole della massima sanzione espulsiva (cfr. Cass. 18 gennaio 2019, n. 1379, cit.), dovendosi basare il giudizio sulla ponderata e attenta valutazione delle circostanze del caso concreto.
Sintesi
In sintesi, l'articolato quadro normativo e giurisprudenziale sopradescritto può così riassumersi:
- l'ordinamento italiano prevede a tutela del whistleblower, in linea generale, una bipartizione tra legislazione speciale delineata dalla L. n. 179/2017 e disciplina di diritto comune, quest'ultima definita dalla normativa giuslavoristica e dai principi di diritto enunciati dalla giurisprudenza;
- la protezione riconosciuta dalla legislazione speciale (art. 54-bis commi 1 e 7 d.lgs. n. 165/2001 per l'impiego pubblico e art. 6 commi 2-bis lett. c) e 2-quater d.lgs. n. 231/2001 per l'impiego privato) prevede il divieto di ritorsione e l'inversione dell'onere della prova a carico del datore di lavoro relativamente alle rappresaglie attuate a danno del whistleblower;
- la tutela derivante dalla disciplina di diritto comune, fermo restando l'onere della prova ordinario ai sensi dell'art. 2697 c.c., prevede la protezione del segnalante avverso l'illegittima reazione del datore di lavoro nel caso di
a) esercizio del diritto di denuncia di illeciti datoriali, salvo il caso di calunnia o di indebita pubblicazione della segnalazione;
b) esercizio del diritto di critica di condotte aziendali illecite, purché nei limiti della verità soggettiva, della continenza formale e della pertinenza;
- in linea generale, la segnalazione di illeciti aziendali non può essere uno scudo per gli illeciti del whistleblower, rilevando l'eventuale segnalazione ai soli fini della possibile commisurazione della sanzione disciplinare, in chiave di “ravvedimento operoso”.
La nuova tutela in materia di whistleblowing: il decreto legislativo n. 24/2023
Da ultimo, in attuazione della Direttiva UE 2019/1937, è recentemente intervenuto il legislatore italiano con il decreto legislativo 10 marzo 2023, n. 24 (le cui disposizioni hanno effetto dal 15 luglio 2023, ai sensi dell'art. 24 primo comma), riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell'Unione e recante disposizioni inerenti la protezione delle persone che segnalano violazioni delle disposizioni normative nazionali.
Per quello che interessa la presente trattazione, l'art. 17 (“Divieto di ritorsione”) riproduce quasi per intero le previsioni contenute negli articoli 19 (“Divieto di ritorsione”) e 21 (“Misure di protezione dalle ritorsioni”) della direttiva comunitaria, disciplinando in modo unitario tanto l'impiego pubblico quanto quello privato e abrogando le corrispondenti disposizioni della L. 179/2017 (10).
In particolare:
- è prevista la presunzione di nullità di tutte le misure pregiudizievoli adottate nei confronti del segnalante successivamente alla segnalazione, alla denuncia o alla divulgazione pubblica, salvo prova da parte del datore di lavoro che le misure sono state adottate per ragioni estranee alla segnalazione (o alla denuncia o divulgazione pubblica, cd. inversione dell'onere della prova, art. 17, secondo comma);
- fermo restando il generale divieto di ritorsioni (art. 17, primo comma), viene delineato un elenco di fattispecie esemplificative, tra cui sono annoverati i licenziamenti, i trasferimenti, la discriminazione, le note di demerito, il mancato rinnovo del contratto a termine etc. (art. 17, quarto comma);
- viene espressamente introdotto attraverso la novella dell'art. 4 della L. 604/1966, tra le ipotesi di licenziamento discriminatorio nullo, anche quello “conseguente all'esercizio di un diritto ovvero alla segnalazione, alla denuncia all'autorità giudiziaria o contabile o alla divulgazione pubblica effettuate ai sensi del decreto legislativo attuativo della direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2019”(art. 24 terzo comma).
- si estende la protezione legislativa dalle ritorsioni e dalle rappresaglie datoriali anche ai facilitatori (11) (art. 3, comma 5 lett. a), ai familiari legati al whistleblowerda uno stabile legame affettivo e ai parenti entro il quarto grado (art. 3 comma 5 lett. b), cd divieto di “vendette trasversali”), ai colleghi che lavorano nel medesimo contesto lavorativo del segnalante e che hanno un rapporto abituale e corrente (art. 3, comma 5 lett. c), tutela funzionale a proteggere potenziali testimoni, collaboratori o sommari informatori), nonché ai soggetti giuridici di cui le persone segnalanti sono proprietarie, per cui lavorano o a cui sono altrimenti connesse in un contesto lavorativo (art. 3, comma 5 lett. d).
Quest'ultima è una disposizione particolarmente importante e innovativa, che va a colmare - seppure solo parzialmente - un grave vuoto di tutela presente nel nostro ordinamento (12). La protezione rispetto alle possibili rappresaglie che potrebbero subire soprattutto i colleghi del whistleblower, infatti, consente da un lato di aprire una breccia nel “muro di omertà” che spesso rende molto difficile la prova delle condotte mobbizzanti (13) o vessatorie subite dai segnalanti a causa delle proprie denunce e, dall'altro, conferisce effettività alle garanzie apprestate dalla legislazione in commento (14).
Note
(1) Art. 54-bis, primo comma: “Il pubblico dipendente che, nell'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all'articolo 1, comma 7, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ovvero all'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), o denuncia all'autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione”.
Art. 54-bis, comma 7: “E' a carico dell'amministrazione pubblica o dell'ente di cui al comma 2 dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall'amministrazione o dall'ente sono nulli”.
(2) Art. 6 comma 2-bis: “I modelli di cui alla lettera a) del comma 1 prevedono: …omissis... c) il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione”.
Art. 6 comma 2-quater: “Il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante è nullo. Sono altresì nulli il mutamento di mansioni ai sensi dell'articolo 2103 del codice civile, nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del segnalante. È onere del datore di lavoro, in caso di controversie legate all'irrogazione di sanzioni disciplinari, o a demansionamenti, licenziamenti, trasferimenti, o sottoposizione del segnalante ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, successivi alla presentazione della segnalazione, dimostrare che tali misure sono fondate su ragioni estranee alla segnalazione stessa”.
(3) Tambasco, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un'analisi della giurisprudenza del lavoro italiana, in Organizzazione internazionale del lavoro, Roma, 2022, p. 42 e ss.; di “presunzione di illegittimità posta a favore del lavoratore” parla Vitaletti, Il lavoratore “segnalante” nell'impresa privata. Il perimetro della tutela del “whistleblower”, in Dir. rel. ind., fasc. 2, 1° giugno 2019, p. 492 e ss.; analogamente Maraga, La tutela lavoristica del whistleblower tra limiti soggettivi ed oggettivi: brevi riflessioni de iure condito e de iure condendo, n Dir. rel. ind., fasc. 1, 2022, p. 289 e ss. fa riferimento alla “presunzione di causalità tra segnalazione e provvedimento datoriale” .
(4) Secondo Maraga, La tutela lavoristica del whistleblower tra limiti soggettivi ed oggettivi: brevi riflessioni de iure condito e de iure condendo, cit., “deve ritenersi che, decorso un lasso di tempo sufficientemente ampio dalla denuncia, la presunzione di causalità tra segnalazione e provvedimento datoriale venga meno lasciando spazio al regime probatorio ordinario”.
(5) Così l'unanime dottrina, cfr. Cantone, Il dipendente pubblico che segnala illeciti; un primo bilancio sulla riforma del 2017, in Aa.Vv, Atti del I convegno annuale del dipartimento di scienze giuridiche Cesare Beccaria, Milano, 18–19 novembre 2019, Milano, 2020, p. 203; Della Bella, Il whistleblowing nell'ordinamento italiano: quadro attuale e prospettive per il prossimo futuro, in Aa.V.v., cit., p. 170; Peruzzi, La prova del licenziamento ritorsivo nella legge 179/2017 sul whistleblowing, in Lav. e dir., fasc. 1, 2020, p. 43 e ss.; Riccio, La tutela del lavoratore che segnala illeciti dopo la L. 179/2017. Una prima lettura giuslavoristica, in Rivista Elettronica di diritto pubblico, di diritto dell'economia e di scienzadell'amministrazione, 26 marzo 2018, p. 6–7; Pizzuti, Whistleblowing e rapporto di lavoro, Torino, 2019, p. 109 e ss.; Agliata, Sull'esercizio “responsabile” del diritto di denuncia del lavoratore, in Nuova Giur. civ. comm., 5, 1° settembre 2021, p. 1018 e ss.; Vitaletti, Il lavoratore “segnalante” nell'impresa privata. il perimetro della tutela del “whistleblower”,Dir. rel. ind., cit.; maraga, La tutela lavoristica del whistleblower tra limiti soggettivi ed oggettivi: brevi riflessioni de iure condito e de iure condendo, cit.; Tambasco, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un'analisi della giurisprudenza del lavoro italiana, in Organizzazione internazionale del lavoro, Roma, 2022, cit.
(6) Nella giurisprudenza americana, ad esempio, l'indirizzo maggioritario è favorevole alla tutela del whistleblower anche quanto abbia partecipato, con la sua condotta omissiva o commissiva, alla violazione che lui stesso ha denunciato. Nel caso Murcott v. Best Western Int'L Inc. (relativo a un dipendente che aveva segnalato comportamenti in violazione delle norme anti-trust dell'Arizona da parte di alcuni suoi superiori, comportamenti a cui si era adeguato per non contravvenire alle direttive ricevute), si è affermato che impedire il funzionamento del meccanismo di protezione quando il segnalatore è a sua volta colpevole finirebbe per disincentivare la denuncia, vanificando così la funzione essenziale dello strumento, ossia quello di combattere fenomeni di illegalità sul luogo di lavoro; si veda Pizzuti, Whistleblowing e rapporto di lavoro, cit., p. 39 e nt. 157.
(7) La pronuncia del Tribunale di Mantova riconosce l'identità della protezione prevista dalla L. n. 179/2017 per l'impiego pubblico e per quello privato, affermando chiaramente che “gli ultimi due commi, introdotti nell'art. 6, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 dall'art. 2, l. 30 novembre 2017, n. 179, replicano, mutatis mutandis, le tutele che l'art. 1 della legge prevede per il whistleblower nella p.a. riservandole però esclusivamente a coloro che effettuano 7 segnalazioni nel rispetto delle modalità previste dall'art. 6, c. 2-bis, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, come implementate nel modello di organizzazione e gestione adottato dall'ente”.
(8) In realtà, chi scrive ritiene più opportuno parlare di “tripartizione” dovendosi annoverare, oltre alla disciplina speciale della L. n. 179/2017 e a quella di diritto comune, anche la legislazione antidiscriminatoria. Per l'applicazione della normativa antidiscriminatoria in materia di whistleblowing, si veda Pizzuti, Whistleblowing e rapporto di lavoro, cit., p. 247 e ss. e la pronuncia del Trib. Milano, 31 maggio 2016, in Riv. giur. Lav., 2017, II, p. 135 e ss., che fa riferimento alle discriminazioni per “convinzione personale”, rilevanti ai sensi dell'art. 15 Stat. lav. e dell'art. 2 primo comma, d.lgs. n. 216/2003.
(9) Si veda Pizzuti, Whistleblowing e rapporto di lavoro, cit., pp. 202-209.
(10) Con una disposizione di diritto intertemporale, l'art. 24 primo comma statuisce che “Alle segnalazioni o alle denunce all'autorita' giudiziaria o contabile effettuate precedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché a quelle effettuate fino al 14 luglio 2023, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all'articolo 54-bis del decreto legislativo n. 165 del 2001, all'articolo 6, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, del decreto legislativo n. 231/2001 e all'articolo 3 della legge n. 179/2017”.
(11) Art. 2 comma 6 lett. h) : “una persona fisica che assiste una persona segnalante nel processo di segnalazione, operante all'interno del medesimo contesto lavorativo e la cui assistenza deve essere mantenuta riservata”.
(12) Si veda Tambasco, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un'analisi della giurisprudenza del lavoro italiana, in Organizzazione internazionale del lavoro, Roma, 2022, cit., p. 43, https://www.ilo.org/rome/pubblicazioni/WCMS_868768/lang--it/index.htm.
(13) Il whistleblowing può configurare una sottocategoria del mobbing allorché lo “scopo politico” dell'azione mobbizzante sia rappresentato dalla volontà di punire a seguito di denunce o di segnalazioni di atti o di condotte illecite sul luogo di lavoro presentate dal lavoratore, cfr. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing e da straining, Milano, 2019, p. 115.
(14) La stessa direttiva UE 2019/1937 nel Considerando n. 88 sottolinea la centralità delle misure di protezione contro le ritorsioni, poiché “se non prevenuta e impunita, la ritorsione ha un effetto dissuasivo sui potenziali informatori. Un chiaro divieto legale di ritorsione avrebbe un effetto dissuasivo importante e sarebbe ulteriormente rafforzato da disposizioni sulla responsabilità personale e da sanzioni per gli autori delle ritorsioni”.
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Sommario
La tutela del whistleblower nella recente giurisprudenza di legittimità: l'ordinanza della Corte di Cassazione 31 marzo 2023, n. 9148
La protezione del segnalante nella giurisprudenza di merito: la pronuncia del Tribunale di Mantova, 30 marzo 2021