Licenziamenti nulli e tutela reintegratoria: la Cassazione dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del Jobs Act (d.lgs. n. 23/2015)

Luigi Di Paola
12 Aprile 2023

Con l'ordinanza n. 9530/2023 la S.C. ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui prevede la delimitazione della tutela reintegratoria ai casi di nullità del licenziamento “espressamente previsti dalla legge”, per contrasto con la legge delega, ove la predetta delimitazione non è prevista, ritenendo non praticabile, nella fattispecie, il ricorso all'interpretazione costituzionalmente orientata.
Massima

È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 - nella parte in cui prevede la delimitazione della tutela reintegratoria ai casi di nullità del licenziamento “espressamente previsti della legge” -, in riferimento all'art. 76 Cost. e ad altri eventuali parametri derivati, per contrasto con la norma della legge-delega (art.1, comma 7, lett. c), della l. n. 183/2014), che dispone che il legislatore delegato preveda, per le nuove assunzioni, la limitazione del «diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato».

Il caso

Un dipendente autoferrotranviario agisce in giudizio per l'ottenimento della declaratoria di invalidità del provvedimento di destituzione emesso dal datore di lavoro, cui tale facoltà non spettava in conseguenza dell'obbligatoria devoluzione del potere sanzionatorio, a seguito di apposita richiesta del lavoratore, in capo al Consiglio di disciplina (ai sensi della normativa speciale per gli autoferrotranvieri di cui agli artt. 53 e 54 del R.d. n. 148/1931).

La sentenza di rigetto del Tribunale viene parzialmente riformata dal giudice del gravame, che, ritenuto nullo il licenziamento e dichiarato estinto il rapporto di lavoro, applica la tutela indennitaria, escludendo l'operatività di quella reintegratoria, in quanto prevista dal citato art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 (applicabile alla fattispecie, rientrando il lavoratore nella categoria dei “nuovi assunti”), solo nell'ipotesi - non ricorrente nella fattispecie - di “nullità espressamente prevista dalla legge”.

La Suprema Corte, investita del giudizio, solleva la questione di legittimità costituzionale nei termini di cui in massima.

La questione

La questione in esame è la seguente: l'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 - il quale prevede, tra l'altro, che “Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento (…) perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto” -, è rispettoso, o meno, della delega conferita dal legislatore (e concernente, per quanto qui interessa, la “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio …, limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori”) ai sensi dell'art. 1, comma 7, lett. c), della l. n. 183/2014?

Le soluzioni giuridiche

Come è noto, l'art. 18, primo comma,Stat. lav., prevede che alla accertata nullità del licenziamento debba conseguire la tutela reintegratoria cd. “piena”, benché la previsione abbia in passato dato origine a dubbi interpretativi, poiché, facendo la stessa riferimento ad alcuni casi tipici di nullità e, contestualmente, “ad altri casi di nullità previsti dalla legge”, poteva essere letta, indifferentemente - sulla base di argomentazioni varie - come riferita solo a casi di nullità cd. “testuale” o anche a casi di nullità cd. “virtuale”; i dubbi sono rimasti, nel tempo, sullo sfondo, prevalendo attualmente l'idea che il richiamo ai “casi di nullità previsti dalla legge” sia omnicomprensivo di tutte le tipologie di nullità, essendo il contemporaneo riferimento ad ipotesi tassative dovuto ad un intervento del legislatore, per così dire, ridondante, mera espressione di tecnica legislativa non impeccabile.

Nel regime del “Jobs Act”, la più articolata locuzione “casi di nullità espressamente previsti dalla legge” (pertanto arricchita di un avverbio) avrebbe, quindi, secondo taluno, quanto meno per i “nuovi assunti”, eliminato ogni possibilità di incertezza interpretativa, escludendo dai licenziamenti affetti da nullità virtuale il più favorevole regime della tutela reintegratoria.

E' questo lo scenario che fa da contorno all'ordinanza interlocutoria in commento.

Al riguardo, la S.C., rilevato che il licenziamento nella fattispecie intimato al lavoratore appartiene alla categoria delle nullità di protezione cd. “virtuali”, puntualizza, da un lato, che «la lettera della legge (delegante) sembra comprendere nell'area della reintegrazione tutti i licenziamenti nulli e discriminatori, e delegare l'individuazione di specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato (ma non per questo nullo, cui ulteriormente ricollegare il diritto alla reintegrazione; in altri termini, la limitazione del diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare non implica l'ulteriore limitazione alle nullità espresse dalla legge, perché, in senso letterale, la delega esclude dalla limitazione l'area dei licenziamenti nulli (tutti) e discriminatori, oltre a specifiche ipotesi di licenziamenti disciplinari non nulli da individuarsi in sede delegata»; e precisa, dall'altro, che «da un punto di vista sistematico, come osservato in dottrina, la restrizione ai soli casi di nullità espressa - nel senso di esplicitata come sanzione della violazione del precetto primario - finisce con il forzare il valore della coerenza del sistema, e a non considerare operante, anche ai fini di cui all'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, il principio generale che ricollega la conseguenza della nullità alla violazione di norme imperative dell'ordinamento civilistico; in realtà, la differenza tra nullità espressamente previste e nullità da ricollegare a categorie civilistiche generali può risultare il precipitato non di una diversità ontologica o valoriale, ma di peculiare ragioni storiche, sistematiche o di stratificazione normativa, con esiti casuali e non razionali, così realizzando un'eterogenesi dei fini ordinatori della disciplina delegante; senza considerare che anche l'art. 1418 c.c. è norma espressa».

L'esito finale dell'impianto argomentativo non è però l'adozione di un'interpretazione costituzionalmente orientata, poiché la stessa «non può portare all'abrogazione dell'avverbio “espressamente”, trattandosi di lemma che non si presta ad interpretazioni semantiche diverse da quella limitativa dei casi di nullità cui ricollegare la tutela reintegratoria, con ciò generandosi le incompatibilità ed incongruenze con la legge-delega di cui sopra».

In conclusione, «la necessaria coerenza tra legge delegante e legge delegata appare nel caso in esame dubbia per la previsione di una limitazione di tutela non prevista nella norma delegante e di individuazione incerta».

Osservazioni

La S.C., nel sollevare la questione di legittimità costituzionale nei termini sopra descritti, ha aderito alla tesi incentrata sull'eccesso di delega derivante dall'indebito restringimento, operato nel decreto legislativo, delle ipotesi di nullità cui ricollegare la tutela reintegratoria.

L'opzione postula, tuttavia, un già avvenuta presa di posizione, che fa registrare l'esclusione dell'applicabilità, al caso, della tutela di “diritto comune”, la quale, come è noto, essendo tra l'altro imperniata sul ripristino del rapporto e riconoscimento della posta risarcitoria a far data dalla messa in mora, pur avvicinandosi di molto alla tutela reintegratoria, non è comunque sovrapponibile, per difetto, a quest'ultima.

Il che potrebbe anche attestare che non vi è comunque spazio, nell'ambito della disciplina dei licenziamenti, per l'operatività della ordinaria tutela civilistica, destinata comunque a recedere a fronte di una disciplina speciale.

Va però detto la disciplina in questione non è ovviamente in grado di annientare i principi del diritto civile - di cui anche essa inevitabilmente si nutre - che non siano esplicitamente od implicitamente derogati, conseguendone che la categoria della nullità, in via generale, assume la stessa valenza sia nel diritto del lavoro che nel diritto civile.

Ciò implica che la “riprovazione sociale” avverso l'atto nullo esige sempre la stessa sanzione, coincidente con gli effetti della nullità, che è vizio e conseguenza del vizio al tempo stesso; l'unica ipotesi di deroga al regime ordinario è quella caratterizzata dall'esistenza di una norma che preveda “diversamente” ai sensi dell'art. 1418, primo comma, c.c., disponendo che l'atto il quale, secondo la disciplina ordinaria, sarebbe in astratto nullo per contrarietà a norme imperative, non lo è, in concreto, in presenza di una legge che preveda o una sanzione diversa dall'inefficacia definitiva, oppure la conversione esplicita del vizio, determinando in entrambi i casi una degradazione da una categoria ad un'altra (ad esempio, da nullità ad annullabilità).

Sicché non sembra plausibile connettere, sul piano giuridico, effetti diversi alla nullità a seconda che essa sia “testuale” o “virtuale”, e, quindi, sanzionare un licenziamento nullo in misura maggiore sol perché la nullità è testuale, non potendo quest'ultima essere espressiva di una più evidente gravità della patologia negoziale.

Dal che consegue che ove il legislatore delegato avesse realmente inteso riservare un trattamento sanzionatorio mite (imperniato sulla tutela meramente indennitaria) al licenziamento affetto da nullità virtuale, si sarebbe in presenza di una irragionevolezza intrinseca, acuita dal fatto che, nel regime del “Jobs Act”, una ipotesi di ingiustificatezza - per “insussistenza del fatto materiale contestato”, ai sensi dell'art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 - verrebbe ad esser sanzionata con una tutela maggiore (quella reintegratoria) di quella prevista per un licenziamento nullo.

Il tema centrale è allora quello di stabilire se, a fronte di un termine dal significato chiaro, che tuttavia rende la disposizione palesemente irragionevole e fuori sistema, il giudice possa tentare un'interpretazione adeguatrice senza sottoporre la questione al Giudice delle leggi.

Nel caso in esame, la S.C. opta per la negativa, ritenendo non superabile la portata del termine “espressamente”, ritenuto quindi non privo di pregnanza giuridica; tuttavia, un approccio lievemente diverso sembra ravvisabile nel passo in cui è affermato che “anche l'art. 1418 c.c. è norma espressa”, benché tale considerazione paia rimanere, nell'impianto della motivazione, sullo sfondo, in quanto priva di implicazioni concrete sulla decisione, non discendendo da tale premessa la conseguenza che anche le nullità virtuali sono, comunque, espressamente previste dalla legge.

In realtà, non constano casi in cui il legislatore ha diversificato il regime (in punto di effetti) tra nullità testuali e virtuali (e di ciò è chiara la ragione, posto quanto visto sopra); sicché poteva risultare non improprio, sul versante giuridico, ritenere che il termine “espressamente” nulla poteva aggiungere al senso della disposizione, che non può ovviamente porsi, nell'ambito del sistema, quale “caso isolato” connotato dalla presenza di una nullità che rimane “vizio”, deprivato, tuttavia, del proprio effetto ordinario qualificante (anche solo alla stregua della disciplina speciale sui licenziamenti), quale è la inefficacia definitiva dell'atto.

Non può escludersi che l'approccio prudente sia il derivato di una nota esperienza recente, che ha fatto registrare due interventi demolitivi in successione della Corte costituzionale aventi ad oggetto le parole “può” e “manifesta” contenute nell'art. 18, comma 7, Stat. lav. (in tema di giustificato motivo oggettivo); sicché l'approccio in questione può considerarsi, in qualche modo, espressione di una tendenza, la cui bontà è stata confermata a contrario proprio dai predetti interventi, a percorrere con cautela la strada dell'interpretazione costituzionalmente orientata.

Tuttavia, non può essere sottovalutata la circostanza che, in quelle ipotesi, il diritto vivente si era formato sulla base di una interpretazione “letterale” dei vocaboli adottati dal legislatore (poi espunti dalla disposizione ad opera del Giudice delle leggi), mentre, nel nostro caso, un approccio interpretativo fondato sul senso di ragionevolezza avrebbe potuto dar vita, sin dall'inizio, ad un diritto vivente tale da rendere superflua la proposizione della questione di legittimità costituzionale.

Non mancano, del resto, casi in cui la Cassazione ha optato per un'interpretazione condotta alla luce della logica e dei vincoli di sistema.

Si pensi all'espressione “insussistenza del fatto materiale contestato”, che è stata ritenuta (da Cass. 8 maggio 2019, n. 12174) comprensiva non soltanto dei casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche di tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare; si pensi, ancora, al licenziamento intimato nelle piccole aziende in violazione dell'art. 2110, secondo comma, c.c., ritenuto sanzionabile - da Cass.16 settembre 2022,n. 27334 - con la tutela reinteratoria cd. “attenuata”, benché il comma 8 dell'art. 18 Stat. lav. preveda, esplicitamente, che le tutele dei commi dal quarto al settimo si applicano solo alle aziende cd. “medio grandi”, ed il comma 1 del medesimo articolo disponga la tutela reintegratoria cd. “piena” in caso di nullità del licenziamento.

Passiamo ai possibili esiti del giudizio di costituzionalità.

Pare arduo ritenere che il Giudice delle leggi possa imputare alla S.C. di aver scartato dal novero delle scelte possibili quella di collegare alle nullità virtuali la tutela di diritto comune, già sol perché, in tal modo - e a prescindere, per come visto, dalla non equivalenza del rimedio a quello offerto dalla disciplina di cui alla normativa di settore -, legittimerebbe una commistione tra tutela speciale in materia di licenziamenti e tutela ordinaria delle nullità che potrebbe alterare la linearità del sistema; così come pare difficilmente immaginabile che il predetto Giudice, oramai investito della questione, possa restituire gli atti al giudice “a quo” per l'adozione di una interpretazione conforme a costituzione (ciò potendo peraltro suonare come una sorta di incentivo, per il futuro, a promuovere il giudizio di costituzionalità solo quale misura del tutto residuale, con il rischio di un abuso di interpretazioni suscettibili di interferire con il compito del legislatore).

Sta di fatto che una verosimile declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione per eccesso di delega convaliderebbe l'idea che il legislatore delegato abbia realmente inteso diversificare, in contrasto con la legge delega, le tutele per i licenziamenti affetti da nullità testuali e virtuali; e, in tale prospettiva, potrebbe non esservi neppure la necessità di entrare nel merito della irragionevolezza intrinseca della disposizione, per contrasto con il parametro dell'art. 3 Cost. - peraltro non invocato dal giudice a quo -, poiché quella indebita diversificazione sarebbe già la prova di una non omogeneità di tutele che il legislatore delegante non solo non aveva voluto, ma - attesa, appunto, la non plausibilità dell'esclusione del licenziamento affetto da nullità virtuale dall'area di operatività della reintegra - non avrebbe neppure potuto volere.

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