Durata minima inderogabile delle locazioni commerciali e modalità di esercizio della disdetta “titolata”
11 Aprile 2023
Il quadro normativo
Gli artt. 27 ss. della l. n. 392/1978 dettano eterogenee discipline volte a tutelare il conduttore di un immobile locato ad uso non abitativo sotto molteplici aspetti, che si combinano variamente proprio in dipendenza dello specifico uso cui la res è destinata, coinvolgendo, di regola, ogni locazione in favore di un operatore economico di immobile adibito all'esercizio di una qualsiasi attività generatrice di reddito. In estrema sintesi, i caratteri peculiari delineati dalla legge c.d. dell'equo canone, ispirata ad una stretta correlazione tra locazione di immobili e logiche imprenditoriali, possono così riassumersi: a) la durata del rapporto non può essere inferiore a sei anni, o a nove anni per le locazioni di immobili adibiti ad albergo, per cui, in caso di durata inferiore a quella minima stabilita dalla legge, opera un congegno di sostituzione automatica della clausola nulla con la previsione legale (art. 27); b) quando il rapporto può cessare, ad opera del locatore, per effetto di semplice disdetta, questa deve essere intimata con un anticipo di dodici mesi rispetto alla scadenza contrattuale, o di diciotto mesi in caso di locazione alberghiera (art. 28); c) alla prima scadenza contrattuale, il locatore può esclusivamente far valere il diniego di rinnovazione, determinando la cessazione del rapporto soltanto con il concorso delle specifiche ragioni previste dalla legge (art. 29); d) in caso di inottemperanza, si applicano le sanzioni del ripristino del contratto o del risarcimento del danno (art. 31). Quindi, riguardo ai contratti di locazione ad uso diverso dall'abitazione individuati dal capo II della l. n. 392/1978, l'art. 27 stabilisce la durata “minima”. In particolare, il comma 1 - sostituito dall'art. 52, comma 1, dell'allegato 1 al d.lgs. 23 maggio 2011, n. 79 - dispone che la durata delle locazioni e sublocazioni di immobili urbani non può essere inferiore a sei anni se gli immobili sono adibiti ad una delle attività appresso indicate: “industriali, commerciali e artigianali di interesse turistico, quali agenzie di viaggio e turismo, impianti sportivi e ricreativi, aziende di soggiorno ed altri organismi di promozione turistica e simili”. Tale disposizione, in forza del capoverso successivo, si applica anche ai contratti relativi ad “immobili adibiti all'esercizio abituale e professionale di qualsiasi attività di lavoro autonomo”. Il comma 3 - come modificato dall'art. 7, comma 1, lett. b), della l. 8 febbraio 2007, n. 9 - prescrive, altresì, che la durata della locazione non possa essere inferiore a nove anni se l'immobile urbano, anche se ammobiliato, è adibito ad “attività alberghiere”, all'esercizio di imprese assimilate ai sensi dell'art. 1786 c.c. o all'esercizio di attività teatrali (qui la maggiore compressione dell'autonomia si spiega per lo scopo di garantire il conduttore circa la redditività di investimenti che richiedono un più ampio periodo di esercizio imprenditoriale per essere ammortizzati). Il contratto di locazione può essere, poi, stipulato per un periodo più breve, qualora l'attività esercitata o da esercitare nell'immobile abbia, per sua natura, carattere “transitorio”, come contemplato dal comma 5 del citato art. 27 (laddove la transitorietà viene individuata soprattutto considerando il particolare modo in cui l'attività stessa si presenta in concreto, come desumibile segnatamente dalla volontà delle parti). Se, infine, la locazione ha carattere “stagionale”, ai sensi del comma 6, il locatore è obbligato a concedere in godimento l'immobile, per la medesima stagione dell'anno successivo, allo stesso conduttore che gliene abbia fatta richiesta con lettera raccomandata prima della scadenza del contratto, e l'obbligo del locatore ha la durata massima di sei anni consecutivi o di nove se si tratta di utilizzazione alberghiera. Lo strumento attraverso cui si esercita il diniego di rinnovazione alla prima scadenza è la disdetta motivata (art. 29, comma 4, l. n. 392/1978): questa assolve alla medesima funzione della disdetta di cui all'art. 1596 c.c., impedendo la prosecuzione del rapporto alla scadenza, non distinguendosi, quindi, dal punto di vista degli effetti, dalla comune disdetta. Quanto alla forma della disdetta motivata, la disciplina delle locazioni non abitative prevede espressamente che essa debba essere inviata “con lettera raccomandata”. Va sùbito chiarito, poi, che - secondo quanto ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, con il consenso pressoché unanime della dottrina - la disdetta motivata non può essere contenuta nel ricorso con cui il locatore domandi il rilascio dell'immobile per la prima scadenza. L'affermazione trova fondamento nella lettera dell'art. 30 della l. n. 392/1978, il quale prevede che, solo quando sia “avvenuta la comunicazione di cui al terzo comma dell'art. 29”, il locatore possa “convenire in giudizio il conduttore”; in tal senso, la Suprema Corte (v., tra le altre, Cass. civ., sez. III, 6 novembre 2002, n. 15547; Cass. civ., sez. III, 9 settembre 1998, n. 8934; Cass. civ., sez. III, 21 febbraio 1995, n. 1865) ha affermato che il tempestivo invio della disdetta motivata costituisce “condizione di procedibilità” della successiva domanda di rilascio, nel senso che la comunicazione deve precedere l'introduzione del giudizio. L'art. 30 prevede, infatti, quale condizione di procedibilità della domanda di rilascio, la dichiarazione della volontà di escludere la rinnovazione del contratto di locazione non abitativa riguardo alla prima scadenza contrattuale nella forma di comunicazione a mezzo di raccomandata con la specificazione di uno dei motivi previsti dall'art. 29, senza che tale forma possa essere sostituita da quella contenuta nell'atto introduttivo del giudizio di rilascio, sottoscritto da procuratore cui sia stata conferita procura nello stesso atto, ancorché riguardo ad una successiva riproposizione della domanda (Cass. civ., sez. III, 1° marzo 1990, n. 1574). Anche in seguito, si è ribadito (Cass. civ., sez. III, 24 febbraio 2003, n. 2777) che l'invio, da parte del locatore, del diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza, pur possedendo un contenuto negoziale, stante l'effetto sostanziale di far cessare il rapporto locativo, costituisce, ai sensi dell'art. 30, una condizione di procedibilità della domanda di rilascio, sicchè tale comunicazione deve precedere l'introduzione del giudizio e non può sopravvenire in corso di causa, conseguendone la rilevabilità d'ufficio del difetto della menzionata condizione di procedibilità. L'art. 29 della l. n. 392/1978 prevede, al comma 4, che, nella comunicazione va specificato, “a pena di nullità”, il motivo, tra quelli tassativamente indicati dalla norma, su cui la disdetta è fondata. I giudici di legittimità (v., tra le altre, Cass. civ., sez. III, 19 febbraio 2019, n. 4714; Cass. civ., sez. III, 4 aprile 2017, n. 8669; Cass. n. 15547/2002, cit.; Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2001, n. 792) sono oramai fermi nell'interpretare con rigore il dettato della disposizione relativa all'indicazione del motivo: in quest'ottica, la comunicazione del diniego di rinnovazione alla prima scadenza del contratto non può limitarsi ad una generica dichiarazione dell'intento di svolgere, da parte del locatore, nell'immobile stesso, un'attività non meglio specificata, ma deve contenere, a pena di nullità, inequivoche indicazioni in relazione alla medesima, sia perché, in mancanza, il conduttore non sarebbe in grado di valutare la serietà dell'intenzione indicata - né il giudice potrebbe verificare, in sede contenziosa, la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento del diritto al rinnovo - sia perché verrebbe così impedito il successivo controllo sull'effettiva destinazione dell'immobile all'uso indicato, ai fini dell'applicazione delle sanzioni di cui all'art. 31 della citata legge. Nella medesima ottica, si pone la giurisprudenza di merito (App. Reggio Calabria 6 ottobre 2020): infatti, nella comunicazione del diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza, ex art. 29, va specificato quale particolare attività il locatore (o chi per lui) intenda svolgere; a tale specificità è attribuito rilievo non soltanto per la soddisfazione delle esigenze di informazione e di controllo spettanti al conduttore, ma anche per consentire al giudice di verificare la conformità della pretesa alla fattispecie legale delineata dagli artt. 28 e 29, implicante una disdetta caratterizzata da un ben preciso contenuto, e ciò in considerazione, peraltro, dell'esigenza di tutela della stabilità delle locazioni non abitative, consentendone la cessazione alla prima scadenza del periodo legale di durata soltanto nelle tassative ipotesi previste per il diniego di rinnovazione. Sulla base del delineato indirizzo, si trova affermato che il locatore non può limitarsi a fare generico riferimento al proprio intendimento di svolgere, all'interno dell'immobile, un'attività non meglio specificata, dovendo invece precisare in cosa questa consista (v., altresì, Cass. civ., sez. III, 6 novembre 2002, in 15547; Cass. civ., sez. III, 2 dicembre 1997, n. 10709; Cass. civ., sez. III, 9 agosto 1996, n. 7342; Cass. civ., sez. III, 27 gennaio 1995, n. 980; Cass. civ., sez. III, 12 gennaio 1994, n. 281; Cass. civ., sez. III, 1° aprile 1993, n. 3891; Cass. civ., sez. III, 12 aprile 1990, n. 3135; tra le recenti pronunce di merito, si segnalano: Trib. Firenze 3 luglio 2021; Trib. Napoli 26 luglio 2001). Si è così negato che costituisca valido motivo di diniego il generico richiamo all'intento di destinare l'immobile locato all'esercizio di un'attività professionale del locatore, o di un suo parente entro il secondo grado in linea retta (Cass. civ., sez. III, 12 agosto 1991, n. 8775), o di destinare l'immobile ad uso personale, ai sensi dell'art. 29, lett. a) e b) (Cass. civ., sez. III, 1° aprile 1993, n. 3894); si è, parimenti, escluso che l'ente locatore possa limitarsi al richiamo dei propri fini istituzionali, dovendo invece menzionare la concreta attività che voglia svolgere all'interno del bene locato (Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2017, n. 7040; Cass. civ., sez. III, 13 dicembre 2000, n. 15752; Cass. civ., sez. III, 4 maggio 1993, n. 5150; Cass. civ., sez. III, 25 febbraio 1988, n. 2036); riguardo all'intenzione di attuare interventi edilizi, non si è ritenuto sufficiente il mero riferimento al “completo restauro” dell'immobile, senza precisare nel dettaglio le opere da realizzare (Cass. n. 15547/2002, cit.) Nello stesso ordine di concetti, non si è considerata adeguata, ai fini del diniego di rinnovo, l'espressione dell'intenzione, non meglio specificata, di adibire l'immobile ad uso ufficio (Pret. Rimini 25 febbraio 1988); si è ritenuta nulla la disdetta contenente il riferimento all'intenzione di destinare lo stesso all'esercizio di attività commerciali non specificate (Trib. Firenze 4 dicembre 1986); non si è reputata valida la disdetta contenente l'indicazione della necessità del locatore di svolgere nell'immobile attività diretta, attesa la sua indeterminatezza (Pret. Cremona 30 maggio 1988); non si è opinato sufficiente il generico richiamo alla volontà del locatore di adibire il locale a “proprie attività aziendali”, senza indicazione della concreta attività da svolgere nell'immobile (Trib. Napoli 26 luglio 2001). La specificazione, puntuale ed analitica, della situazione dedotta deve riguardare, poi, non solo la destinazione d'uso con la menzione del tipo di attività commerciale, artigianale o professionale che si intende esercitare, ma anche quella del soggetto beneficiario del medesimo uso, soprattutto quando vi siano più persone nella condizione di ottenere l'immobile, per la particolare destinazione d'uso comunicata, ed il locatore intenda favorire una sola di esse, oppure alcune congiuntamente (Cass. n. 792/2001, cit.). Dall'esigenza di specificazione del motivo, deriva che l'indicazione di una pluralità di intenzioni tra loro diverse e contrastanti si risolve in una mancata specificazione delle ragioni del diniego, che devono essere determinate sin dal momento della comunicazione, senza che sia consentito al locatore una scelta, successiva alla scadenza del termine per la comunicazione stessa, tra le varie possibili utilizzazioni del bene, in relazione alle quali è ammesso dalla legge il diniego di rinnovo alla prima scadenza del contratto (Cass. civ., sez. III, 6 settembre 1995, n. 9373; Cass. civ., sez. III, 20 aprile 1995, n. 4480, puntualizzando che non incorre, invece, in tale sanzione la deduzione congiunta di più specifiche destinazioni tra loro compatibili o la deduzione di una destinazione d'uso unica, ma riferita alle esigenze congiunte dei vari soggetti, come il locatore, il coniuge ed i parenti entro il secondo grado in linea retta considerati dall'art. 29; Cass. civ., sez. III, 29 novembre 1994, n. 10208: nella specie, si era annullata la sentenza che aveva ritenuto la validità della disdetta intimata dal locatore, il quale si era limitato, nella lettera di comunicazione al conduttore, ad un generico riferimento alle ipotesi di cui alla lett. b) dell'art. 29 cit., dichiarando di dover adibire l'immobile “all'esercizio in proprio o da parte del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta ad una delle attività indicate all'art. 27”). Del pari inidoneo è stato considerato il semplice richiamo alla lettera che, nell'articolo di legge, raggruppa diversi ordini di fattispecie che possono motivare l'intimazione di disdetta (per ulteriori ipotesi, v. Cass. civ., sez. III, 28 agosto 1995, n. 9055; Cass. civ., sez. III, 14 maggio 1991, n. 5376). Non è, invece, necessario che il locatore indichi con precisione la norma che individua la fattispecie corrispondente al motivo in concreto addotto a giustificazione del diniego: invero, la specificazione del motivo è requisito attinente alla concreta indicazione delle ragioni, per le quali è negata la rinnovazione del contratto, e alla loro riconducibilità ad uno specifico motivo (e ad uno solo) tra quelli contemplati in astratto nella norma, mentre è irrilevante che la comunicazione contenga un più o meno esatto riferimento all'articolo, al comma e alla lettera, sotto i quali la fattispecie è enunciata (Cass. civ., sez. III, 28 agosto 1995, n. 9043). La disdetta motivata, dunque, non deve obbligatoriamente contenere né il preciso referente normativo su cui essa si fonda, né l'esatta qualificazione giuridica della fattispecie invocata dal locatore. I possibili scenari processuali
Nonostante la difforme opinione di qualche giudice di merito - Trib. Milano 8 ottobre 1990, secondo il quale il locatore può, nel ricorso introduttivo, notificato al conduttore nel termine di preavviso di cui all'art. 29, integrare la volontà già manifestata nella precedente comunicazione di disdetta, specificando ulteriormente il motivo del diniego - la Suprema Corte esclude che, alla genericità del motivo, possa ovviarsi in sede giudiziale: la soluzione è diretta conseguenza della regola secondo cui la disdetta non può essere contenuta nel ricorso con cui è introdotto il giudizio di rilascio; atteso che la motivata comunicazione della disdetta deve necessariamente precedere l'azione di rilascio, così come dispone l'art. 30, comma 1, la disdetta si pone come “condizione di procedibilità” della domanda, per cui il successivo atto introduttivo del giudizio deve essere fondato su identici petitum e causa petendi, non potendo indicare diversi motivi (Cass. n. 1865/1995, cit.). Con analoghe considerazioni, si è ribadito che il ricorso non può indicare un motivo diverso, mentre un atto introduttivo, che contenga motivi nuovi rispetto a quelli espressi nella disdetta, costituirebbe atto autonomo e farebbe venir meno il nesso di necessaria coincidenza voluto dal legislatore a garanzia del conduttore, allo stesso modo di come una specificazione del motivo, formulata nel corso del giudizio, non varrebbe a sanare l'iniziale nullità della disdetta medesima (Cass. n. 15547/2002, cit.). In altri termini, il motivo non può essere né modificato, né integrato nella fase processuale, in quanto l'integrazione non potrebbe, comunque, ritenersi tempestiva, dovendo la disdetta stessa essere comunicata, a mezzo di lettera raccomandata, rispettivamente dodici o diciotto mesi prima della scadenza (Cass. n. 8934/1998, cit.); l'atto introduttivo del giudizio non può concorrere neppure ad integrare la ragione del diniego indicata nella comunicazione del locatore, cui è anche preclusa nel corso del giudizio ogni altra specificazione (Cass. n. 792/2001, cit.; v., però, Cass. civ., sez. III, 21 marzo 2008, n. 7696, secondo cui la disdetta alla prima scadenza, nulla per la mancata specificazione dei motivi su cui si fonda, può validamente rinnovarsi con altro atto contenente l'indicazione dei motivi omessi, purché inviata entro il termine di preavviso stabilito dalla legge, sicché l'eventuale giudicato sull'invalidità della prima dichiarazione copre solo l'accertamento della nullità di quell'atto atto e non, invece, la mancanza dei presupposti sostanziali per l'esercizio del recesso di cui all'art. 29, commi 1 e 2, né il mancato rispetto del termine di preavviso, che costituiscono le uniche circostanze preclusive del diritto alla risoluzione della locazione; in senso conforme, v. Cass. civ., sez. III, 14 febbraio 1992, n. 1834). Resta fermo che la nullità della disdetta possa essere non solo dedotta dal conduttore, ma anche rilevata d'ufficio dal giudice (v., tra le altre, Cass. civ., sez. III, 12 luglio 2007, n. 15590; Cass. civ., sez. III, 9 marzo 1999, n. 2013; Cass. civ., sez. III, 10 febbraio 1997, n. 1230; Cass. civ., sez. III, 24 maggio 1993, n. 5827; Cass. civ., sez. III, 13 aprile 1989, n. 1776; conforme, nella giurisprudenza di merito, Pret. Monza 19 aprile 1990; contra, nel senso che la nullità della disdetta per mancata specificazione del motivo potesse essere eccepita soltanto dal conduttore, v. Pret. Bergamo 5 ottobre 1985). Peraltro, anche il locatore potrebbe avere interesse a sollevarla, ex art. 100 c.p.c., laddove deduca che, dall'incertezza sulla validità di tale disdetta, gli derivi un danno giuridicamente rilevante (Cass. civ., sez. III, 29 settembre 1997, n. 9545: nella specie, la sussistenza di tale interesse è stata esclusa, poichè, avendo il conduttore dichiarato di non opporsi alla disdetta comunicatagli dal locatore e di essere disposto a rilasciare l'immobile alla scadenza contrattuale, nessuna incertezza sulla cessazione del rapporto permaneva al momento della deduzione della nullità). La ragione della “assolutezza” della sanzione invalidante, non dando cioè luogo ad una nullità c.d. relativa, si spiega per il fatto che la speciale disciplina non è volta alla tutela dell'interesse strettamente individuale proprio del conduttore, quanto piuttosto all'interesse generale dell'economia alla stabilità delle locazioni non abitative: con l'art. 29, comma 4, il legislatore del 1978 avrebbe voluto, infatti, allestire uno strumento di controllo che va oltre l'interesse del medesimo conduttore alla costituzione e alla continuazione del rapporto locatizio, investendo interessi di rilevanza sociale riguardanti l'intera organizzazione produttiva. In quest'ordine di concetti, si è chiarito (Cass. n. 9373/1995,cit.) che la sanzione di nullità, comminata dall'art. 29, comma 4, e la natura giuridica di condizione di procedibilità dell'azione, assegnata dalla legge alla precedente comunicazione, escludono, da un lato, l'applicabilità, nel relativo giudizio, degli artt. 183 ss. c.p.c., nella parte in cui consentono all'attore di modificare la domanda nel corso di esso, e, dall'altro, che tali questioni ove prospettate per la prima volta in appello dal convenuto, possano essere considerate eccezioni e, come tali, ricondotte al regime del divieto del ius novorum di cui all'art. 437, comma 2, c.p.c.; la nullità della comunicazione deve, infatti, essere rilevata d'ufficio dal giudice, ex art. 1421 c.c. - norma da ritenersi applicabile anche agli atti unilaterali, come la comunicazione de qua - e lo stesso giudice, del pari d'ufficio, deve verificare se sussista la condizione di procedibilità dell'azione. L'art. 29 della l. n. 392/1978 esordisce attribuendo al locatore il diritto di far cessare il rapporto alla prima scadenza sol che egli “intenda” attuare le destinazioni, o eseguire le opere, indicate dalla medesima norma. Intenzione e disdetta sono, così, intimamente collegati, sicché, in giurisprudenza, è ricorrente l'affermazione che, in tema di locazioni di immobili destinati ad uso diverso da quello abitativo, le norme di cui agli artt. 28 e 29, che consentono al locatore di escludere alla prima scadenza la rinnovazione del contratto, non richiedono la “necessità”, ma solo l'intenzione del locatore stesso di servirsi dell'immobile per uno dei motivi indicati nello stesso art. 29, senza però escludere che, in caso di controversia, il giudice debba verificare la serietà e la realizzabilità dell'intento del locatore (v., ex multis, Cass. civ., sez. III, 15 settembre 1995, n. 9732; Cass. civ., sez. III, 21 luglio 1995, n. 7965; Cass. civ., sez. III, 24 gennaio 1995, n. 813; Cass. civ., sez. III, 12 maggio 1993, n. 5413; Cass. civ., sez. III, 14 ottobre 1991, n. 10758; tra le pronunce di merito, si segnala Trib. Napoli 26 luglio 2001; cui adde Trib. Milano 29 giugno 1992, in una fattispecie in cui era stata dedotta dal locatore l'intenzione di adibire l'immobile locato all'esercizio, da parte del figlio, all'attività di agente immobiliare, pur non avendo quest'ultimo i requisiti richiesti dalla normativa in vigore ex art. 2 della l. n. 39/1989). La serietà e la realizzabilità dell'intenzione va considerata come “realizzabilità tecnica e giuridica” (Cass. civ., sez. III, 22 giugno 2016, n. 12891, aggiungendo che il locatore non è tenuto a dare la prova anche dell'effettiva e concreta realizzazione di quell'intento; Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2003, n. 12209; Cass. civ., sez. III, 22 novembre 2000, n. 15075; Cass. civ., sez. III, 14 gennaio 2000, n. 358; Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 1996, n. 1324; Cass. civ., sez. III, 3 dicembre 1994, n. 10423; Cass. civ., sez. III, 12 novembre 1994, n. 9550: nella specie, si era confermata la sentenza che aveva ritenuto la sussistenza della serietà dell'intento del locatore di destinare l'immobile a studio professionale di suo figlio architetto, per essere rimasto provato che quest'ultimo svolgeva effettivamente tale professione e che l'immobile in oggetto era idoneo ad essere adibito a tale uso; Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 1992, n. 11095, ad avviso della quale, a fronte della necessità addotta dal locatore di adibire l'immobile ad esercizio in proprio di attività commerciale - nella specie, negozio di rivendita di generi alimentari - ove il conduttore deduca l'impedimento di tale destinazione, per impossibilità giuridica delle necessarie autorizzazioni amministrative, riguardo alle disposizioni dei regolamenti locali, il giudice deve provvedere d'ufficio all'acquisizione di tali fonti normative per il principio iura novit curia). Comunque, incombe al locatore dar conto che l'asserito proposito non costituisce un mero pretesto per ottenere la disponibilità dell'immobile, ma corrisponde ad una concreta realtà (Cass. civ., sez. III, 29 aprile 1983, n. 2966). L'intenzione de qua non configura, quindi, una causa di cessazione del rapporto ad libitum del locatore, e, al contempo, il requisito della serietà dell'intento deve assistere l'intenzione di utilizzazione dell'immobile da parte del locatore. Segnatamente, l'art. 29 statuisce che il diniego di rinnovazione è consentito al locatore che “intenda” destinare l'immobile a particolari usi o eseguire sullo stesso particolari lavori; il significato del verbo “intendere” aveva sorretto un indirizzo, secondo cui non era consentito alcun controllo sulla determinazione volitiva del locatore, in quanto la specificazione del motivo nella disdetta aveva la sola finalità di rendere agevole il controllo successivo al rilascio da parte del conduttore circa l'avvenuta destinazione dell'immobile all'uso indicato; senonché tale orientamento non è stato, poi, condiviso, non potendo ritenersi che l'ordinamento accordi tutela ad un mero proposito, che già ex ante non appaia serio o realizzabile (Cass. n. 15075/2000, cit.). Esorbitano, invece, dall'indagine sulla serietà dell'intenzione, i profili che attengono al merito della scelta adottata, e che appartengono alla sfera delle valutazioni del locatore, sicché sono irrilevanti le considerazioni circa l'opportunità o la convenienza che il locatore possa avere o non avere nell'adibire l'immobile alla destinazione enunciata. In quest'ottica, è ultroneo (Cass. civ., sez. III, 12 novembre 1998, n. 11445) che il locatore, prima del diniego, abbia venduto un altro immobile, anche se ipoteticamente più idoneo all'attività dallo stesso indicata nella disdetta; né rileva la disponibilità di altri immobili utilizzabili per la destinazione addotta, avendo il locatore il diritto insindacabile di scegliere quello ritenuto più adeguato (Cass. n. 537/2002, cit.). In conclusione
Le suddette opzioni legislative - durata “minima” delle locazioni commerciali e necessità della disdetta “titolata” - si spiegano perchè, di regola, l'impresa, intesa come complesso di fattori, energie e risorse, nasce e va gestita per essere autonoma e durare indefinitamente nel tempo; nelle loro organizzazioni produttive, gli imprenditori utilizzano spesso una molteplicità di beni di cui non sono proprietari, e la provvisorietà del godimento del singolo elemento dell'azienda si rivela tanto più negativa per la capacità reddituale dell'impresa quanto più le condizioni del mercato rendano difficile reperire, in tempi brevi ed a parità di costi, un elemento equipollente a quello che si debba restituire al proprietario. Ecco, quindi, che il legislatore del 1978, stabilendo una durata minima, ha inteso riconoscere la particolare rilevanza di tali locazioni nella sfera dell'organizzazione aziendale, stimando che tale durata fosse (quantomeno allora) sufficiente a soddisfare le molteplici e variegate esigenze imprenditoriali. Orbene, per tutti questi contratti, contemplati nei primi tre capoversi (di durata di sei o nove anni), il comma 4 dell'art. 27 della l. n. 392/1978 stabilisce che, “se è convenuta una durata inferiore o non è convenuta alcuna durata, la locazione si intende pattuita per la durata rispettivamente prevista”: tale previsione è presidiata dal fondamentale congegno stabilito dal successivo art. 79 - ancora vigente in parte qua - che sanziona di nullità “ogni pattuizione diretta a limitare la durata legale del contratto”. Tale previsione (“si intende pattuita”) opera non soltanto quando il contratto nulla preveda sul punto, ma anche, e soprattutto, a fronte di clausole contrattuali di segno diverso, dirette a stabilire, beninteso, una durata inferiore, nulla impedendo, infatti, alle parti di pattuire una durata del contratto di locazione non abitativa maggiore di quella minima normativamente prevista. In caso di durata inferiore a quella legale, opera, quindi, il meccanismo della sostituzione automatica della clausola nulla con quella conforme a diritto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1419, comma 1, e 1339 c.c. (v., ex multis, nel senso dell'automatica eterointegrazione del contratto, Cass. civ., sez. III, 3 settembre 2019, n. 21965, aggiungendo che è, viceversa, consentito alle parti convenire una locazione per periodi più lunghi di quello minimo previsto dalla legge, poiché l'art. 27 considera inderogabile la sola durata minima senza porre limiti a quella massima, che rimane ancorata alla generale disposizione di cui all'art. 1573 c.c., che consente le locazioni sino a trent'anni; Cass. civ., sez. III, 23 agosto 2018, n. 20974; Cass. civ., sez. III, 21 novembre 2014, n. 24843; Cass. civ., sez. III, 29 ottobre 2004, n. 20960; Cass. civ., sez. III, 26 aprile 2004, n. 7927; Cass. civ., sez. III, 25 novembre 2002, n. 16580, a proposito di una clausola contrattuale che prevedeva il rinnovo della locazione “di anno in anno”). In questa ipotesi, infatti, la clausola è destinata ad essere sostituita di diritto dalla norma imperativa di cui all'art. 27, comma 4, senza che ne resti travolto l'intero contratto; né rileva che le parti abbiano convenuto il venir meno dell'intero negozio in caso di invalidità anche di una sola clausola, poiché l'essenzialità di tale clausola è esclusa dalla stessa previsione della sua sostituzione con una regola posta a tutela di interessi collettivi di preminente interesse pubblico. Riferimenti
Gennai, L'abuso di disdetta nelle locazioni ad uso diverso, in Filodiritto.com, 2015; Zuccaro, Diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza e specificazione del motivo, in Giur. it., 2001, 1840; Scarpa, Qualificazione e rilevanza della nullità in ipotesi di disdetta immotivata, in Rass. loc. e cond., 1998, 40; De Tilla, Diniego di rinnovazione della locazione alla prima scadenza, specificazione dei motivi e questioni controverse, in Giust. civ., 1990, I, 2350; Paparella, La disdetta del contratto di locazione non abitativa tra diritto potestativo e contratto, in Arch. loc. e cond., 1987, 572; Preden, Esclusione della rinnovazione tacita, per difetto di disdetta, delle locazioni non abitative alla scadenza del periodo di disciplina transitoria, in Giust. civ., 1983, I, 2335. |